La battaglia sui dati

Siamo rimasti tutti un po’ stupiti delle scelte del Governo in materia di “zonizzazione” dell’Italia. Campania zona gialla, dopo che da settimane il governatore De Luca dipinge un quadro tragico, peraltro supportato dai dati. Calabria zona rossa, dopo mesi in cui la maggior parte degli indicatori di diffusione del contagio la promuovono come una delle regioni meno critiche.

Come è possibile?

Per avere una risposta rigorosa, bisognerebbe che le autorità sanitarie, dopo aver reso pubblici i dati regionali sui 21 indicatori del monitoraggio, rendessero espliciti i dettagli matematico-statistici dell’algoritmo che decide se una regione va classificata come rossa, arancio, gialla (o verde, ma attualmente nessuna regione è verde). E forse occorrerebbe anche sapere come le autorità centrali gestiscono gli incredibili scivoloni e le inaccettabili sciatterie della trasmissione dei dati dalla periferia al centro, che purtroppo perdurano dall’inizio della pandemia.

E’ una matassa molto ingarbugliata, e tutt’altro che facile da dipanare. Se l’algoritmo è esplicito e trasparente, aumenta – da parte delle Regioni – la tentazione di rallentare o accelerare la trasmissione dei dati (finora avvenuta in modi arbitrari e non uniformi, con incredibili dimenticanze, riconteggi, correzioni), con l’obiettivo di modificare il colore di una regione. Così come aumenta – da parte del governo centrale – la tentazione di nascondere i nuovi dati nei momenti critici (è di poche ore fa la notizia che le informazioni cruciali abitualmente rilasciate il venerdì sono in ritardo, e non verranno rese note nei tempi previsti).

Per ora, quel che si capisce è che la classificazione di una regione dipende fondamentalmente da due ordini di valutazioni, che possono anche essere completamente discordanti. Il primo, ovvio, ordine di valutazioni è quanto galoppa l’epidemia, ma sarebbe meglio precisare: quanto galoppava 2 o 3 settimane fa, visto che gli indicatori di diffusione del contagio registrano con notevole ritardo quel che accade. Il secondo ordine di motivi è il grado di saturazione dei posti in ospedale, che dipende da una molteplicità di fattori diversi. Fra essi non solo la diffusione del contagio ma anche l’età media dei contagiati (più sono anziani, più premono sugli ospedali) e il numero di posti letto effettivamente disponibili, che a sua volta dipende in modo cruciale dal modo in cui Stato e Regioni hanno saputo prepararsi alla seconda ondata. Sembra essere questo, la carenza di posti letto e la cattiva organizzazione, il motivo cruciale che ha condannato la Calabria a un lockdown severo, nonostante indici di diffusione del contagio fra i più bassi del Paese.

Di chi è la responsabilità?

Difficile dirlo dall’esterno, ma quale che sia la quota di responsabilità della Regione e quella del Governo centrale (a occhio, preponderante: da anni la sanità in Calabria è gestita da un Commissario governativo), il punto chiave è che stiamo assistendo a una distruzione del tessuto produttivo della regione (cioè essenzialmente del settore privato), per disfunzioni e inerzie del settore pubblico. I cittadini della Calabria, in altre parole, possono muoversi e lavorare molto meno di quelli di altre regioni non perché il virus circola di più, o perché più di altri hanno disatteso le regole, ma semplicemente perché i poteri pubblici non hanno fatto il loro dovere.

Ma torniamo al problema dei dati. E’ dall’inizio dell’epidemia che gli studiosi chiedono di avere accesso ai dati fondamentali, per poter capire quel che succede e così contribuire a combatterla. E, anche recentemente, la medesima richiesta di poter accedere a un database pubblico con tutte le informazioni rilevanti è stata ripetuta da Giorgio Parisi, presidente dell’Accademia dei Lincei, dai professori di Lettera 150, dagli studiosi della Fondazione Hume.

Invano. A tutt’oggi un tale database non esiste, e nemmeno le richieste più minimali sono state esaudite, talora con l’inconsistente scusa della protezione della privacy. Ancora oggi, non sappiamo – ad esempio – quanti sono gli ingressi quotidiani in ospedale, né sappiamo in quali comuni si manifestano i nuovi casi e i nuovi decessi.

Più che mai vale il detto “sapere è potere”, che però oggi non significa che chi sa può, bensì che il sapere è in mano al potere: chi detiene il potere monopolizza il sapere, impedendo l’accesso ai dati a chiunque stia fuori del Palazzo. Che i cittadini non protestino, né si sentano defraudati di un loro diritto, mi dispiace ma non mi stupisce troppo: siamo un popolo rassegnato all’arroganza della burocrazia, e tutto sommato poco incline ad occuparsi della cosa pubblica. Quel che invece mi sorprende è il sostanziale disinteresse dei partiti dell’opposizione, che non hanno alcun accesso ai dati rilevanti.

E spiego il perché della mia sorpresa. Se io fossi il capo di un partito di opposizione, e volessi prendere posizione su un provvedimento (ad esempio: chiudiamo la provincia di La Spezia) non a capocchia ma valutando costi e benefici, avrei bisogno di molti più dati rispetto ai pochissimi che sono pubblici. Vorrei sapere, ad esempio, se i positivi sono concentrati in pochi comuni, o sono diffusi in molte aree. Vorrei conoscere il numero effettivo di posti in terapia intensiva, e il grado di saturazione dei reparti. Vorrei anche avere notizie sull’età dei positivi e dei ricoverati, per capire che cosa sta succedendo sul territorio. Vorrei una mappa dei casi diagnosticati nelle scuole della provincia. E così via. Perché senza queste ed altre informazioni ogni opposizione è condannata a diventare sterile, arbitraria, o semplicemente ideologica.

E’ possibile che un’opposizione del genere faccia bene a chi governa, perché gli fornisce una sorta di polizza di assicurazione contro qualsiasi cambiamento. Dubito però che faccia bene a noi, che degli atti di governo subiamo le conseguenze, nel bene e nel male.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 novembre 2020




Perché Conte è incapace di riconoscere i suoi errori?

Ho sempre pensato, negli ultimi mesi, che il premier fosse stato insincero quando, in tante occasioni, ha ripetuto “rifarei tutto”, o ribadito l’esemplarità della condotta del suo governo nella gestione dell’epidemia. Quelle parole iterate fino alla noia, “siamo un modello”, “tutti ci ammirano”, “ora siamo preparati”, le interpretavo come un disturbo della personalità. Nella mia vita, infatti, mi è capitato più di una volta di incontrare persone del tutto incapaci di ammettere di aver commesso un errore, persone che, anche di fronte all’evidenza, negano ogni responsabilità. E quindi mi dicevo: si vede che il premier, a differenza di altri (rari) politici, non è capace di riconoscere uno sbaglio.

Ora capisco che a sbagliarmi ero io. Ora so che il premier era sincero: quando diceva “non abbiamo sbagliato nulla”, lui ci credeva davvero.

Che cosa mi ha convinto della sua sincerità?

E’ molto semplice: il fatto che oggi, di fronte alla seconda ondata, ripeta esattamente l’errore commesso nella prima. Come se non avesse compreso che era un errore, e quindi – in perfetta buona fede – si sentisse autorizzato a “rifare tutto” come a febbraio-marzo.

Quale sia questo errore lo sa qualsiasi studioso che abbia un minimo di familiarità con la matematica di un’epidemia. L’errore consiste nel credere che si debbano varare le misure più severe solo quando si è in prossimità del collasso del sistema sanitario, anziché molto prima. E’ l’errore che si fece ai primi di marzo, quando al grido “Milano non si ferma” non si chiusero tempestivamente Nembro e Alzano, e si aspettò l’inizio della primavera per varare il vero lockdown, quello con il blocco degli spostamenti fra comuni. Ed è l’errore che si è ripetuto oggi, cincischiando in attesa che la curva epidemica desse segnali così drammatici da convincere tutti dell’inevitabilità e giustezza del lockdown.

E’ un errore marchiano, perché più passa il tempo più alta è la curva epidemica, e più alta è la curva epidemica più lungo e severo è il lockdown necessario per riprendere il controllo.

Giusto per dare un’idea delle grandezze in gioco: al ritmo attuale, che è prossimo a un tasso di raddoppio settimanale, ritardare di 3-4 settimane l’intervento significa dover spegnere un’onda circa 10 volte più alta. Eppure sono almeno 15-20 giorni che persino i politici si sono resi conto che l’epidemia stava andando fuori controllo. Perché hanno temporeggiato così a lungo? Evidentemente perché davvero pensavano che aspettare per vedere come evolve la curva fosse la strada giusta, anziché un errore da matita blu (resta la domanda: ma nessuno nel Comitato Tecnico Scientifico glielo ha spiegato?).

Dunque si va verso un lockdown più o meno generalizzato, ma certamente molto più lungo di quello che avremmo avuto se si fosse intervenuti non dico quando lo dicevano gli studiosi indipendenti (già a luglio-agosto), ma almeno quando, a metà ottobre, qualcosa (quota 10 mila contagi al giorno?) aveva improvvisamente messo la politica davanti alla realtà. E dire che, se fossimo intervenuti allora, la curva già in questi giorni darebbe i primi segnali di rallentamento, e noi saremmo tutti meno angosciati.

Resta la domanda: perché la politica ci è ricascata, come a febbraio?

Io penso che la ragione ultima stia nella capacità, peculiarmente umana ma iper-sviluppata fra i politici, di usare l’autoinganno per ricavare sicurezza, conforto, autostima, gratificazione (meccanismo scoperto e descritto da Leon Festinger fin dal 1957). Nel caso della gestione del Covid il meccanismo di autorassicurazione (tecnicamente: riduzione della dissonanza cognitiva) è scattato con una potenza senza precedenti, aiutato dalla scomparsa – sulla scena pubblica – di ogni distinzione fra mere opinioni e conoscenze scientifiche fondate sulla ricerca. Nella babele di voci dissonanti, che descrivevano il corso dell’epidemia in modi opposti e inconciliabili, è stato un gioco da ragazzi per i nostri governanti selezionare le interpretazioni più auto-rassicuranti: “il virus è clinicamente morto”, “siamo diventati molto più bravi a curare i malati”, “i morti sono pochissimi”, “la nostra situazione è migliore di quella di tanti altri paesi”, “siamo un modello per il mondo”, la nostra gestione dell’epidemia “entrerà nei libri di storia” (sì, ho sentito anche questa).

E’ accaduto così che non capissero che l’epidemia si era risvegliata già a metà giugno, che ignorassero i successi delle democrazie asiatiche e dell’emisfero australe (Giappone, Corea del sud, Australia, Nuova Zelanda), che non si rendessero conto che Francia, Spagna e Regno Unito erano semplicemente qualche settimana avanti a noi nella ripresa dell’epidemia (verosimilmente perché le loro scuole sono state riaperte un mese prima delle nostre).

E’ il guaio dell’autoinganno in politica: finché si limita a farti raccontare delle favole, poco male, ma se ti induce a prendere decisioni sbagliate alla fine può ritorcersi contro di te.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 novembre 2020




Covid: Conte dovrebbe chiederci scusa

Dunque, dopo un paio di settimane di tentennamenti, e avendo cura di lascarci divertire ancora un po’ nell’ultimo week-end (come a Ferragosto, quando lasciarono sciaguratamente aperte le discoteche), i nostri governanti si sono decisi: sarà semi-lockdown, semi-coprifuoco, semi-chiusura. A pagare il prezzo più salato saranno, per ora, soprattutto ristoratori, esercenti, gestori di palestre, cinema, teatri. I quali giustamente si chiedono: come si fa a tollerare che lo Stato pretenda da noi di accollarci ogni sorta di onere per far rispettare le regole, e quando invece il padrone è lo Stato, come avviene con treni, bus, voli Alitalia, il datore di lavoro pubblico non faccia nulla per farle rispettare, quelle benedette regole? Come è possibile che, mentre noi facevamo i salti mortali per adeguare i nostri locali ai protocolli di sicurezza, lo Stato tollerasse gli assembramenti per strada, dove è lui il padrone di casa?

Questa reazione è perfettamente giustificata, anche se non lo è la conseguenza che se ne trae, e cioè che – quindi – si debba tenere tutto aperto.

La realtà è ben più amara di come la percepiscono le categorie colpite dalle restrizioni imposte dal governo. Ridotta all’osso, la situazione a me pare questa.

Le chiusure sono ancora una volta tardive e insufficienti, se le commisuriamo all’entità del problema che la latitanza dei poteri pubblici, e innanzitutto del governo, ha fatto montare nello sciagurato trimestre estivo. La seconda ondata è il frutto, prevedibile e previsto, delle omissioni dei mesi scorsi sui versanti cruciali: aumento dei tamponi e dei drive-in, creazione di una task force per il tracciamento dei contatti, controllo degli assembramenti, assunzioni di personale sanitario, rafforzamento delle terapie intensive, aumento della flotta dei mezzi di trasporto, organizzazione della sorveglianza sanitaria nelle scuole, riduzione del numero di alunni per classe, scaglionamento degli orari di ingresso nelle scuole. Anziché fare queste cose, ci hanno raccontato che tutto il mondo ammirava il modello italiano di contrasto dell’epidemia.

Non avendole fatte, la seconda ondata ha avuto la strada spianata. C’è chi ha avvertito del pericolo a maggio, chi a giugno, chi a luglio, ma a partire dalla metà di agosto non si poteva non capire, perché tutti gli indicatori (ripeto: tutti gli indicatori) dicevano che la curva non cresceva più linearmente, ma esponenzialmente.  E’ questo non voler vedere che ci ha portati, oggi, a dover fronteggiare un’onda molto alta e pericolosa. Ed è questo il motivo per cui siamo chiamati a nuovi sacrifici, anche se per ora preferiscono non dirci quali, quanto grandi, e soprattutto quanto lunghi. Ma la risposta è semplice: i sacrifici saranno tanto più grandi e tanto più lunghi quanto più il governo continuerà a temporeggiare, rimandando misure che già sa che dovrà prendere.

Sono pronti, gli italiani, a una nuova stagione di sacrifici?

Io penso di no, in parte per cattive ragioni, in parte per ottime ragioni.

Le cattive ragioni si riducono ad una: la nostra società, nonostante sacche di povertà e di malessere, somiglia ormai più a un luna park che a una fabbrica. Novantacinque genitori su 100 mai avrebbero osato dire ai propri figli che era meglio, per un’estate, rinunciare ai divertimenti di massa e passare ad occupazioni meno pericolose o più utili, ad esempio vedere pochi amici, fare sport all’aperto, recuperare il tempo di studio perduto durante il lockdown. Ma anche a noi, che adolescenti non siamo più, sarebbe risultato molto doloroso non essere liberi di passare le vacanze all’estero, o dover osservare scrupolosamente le regole di prudenza, a partire dall’uso della mascherina e dal rispetto del distanziamento. Insomma, la maggior parte degli italiani ha pensato e pensa di aver fatto già sufficienti rinunce nel lockdown di marzo-aprile, e che non sia proprio il caso di farne altre. Queste sono le cattive ragioni, perché una società che ha perso la capacità di affrontare sacrifici per il bene comune è semplicemente una società in decadenza, anche se preferisce descriversi in registri più indulgenti.

Ma nella resistenza a fare nuovi sacrifici ci sono anche buone ragioni. Ottime ragioni. Che io ridurrei a una: il premier Conte non ci ha chiesto scusa. Si è presentato come di consueto in tv, per dirci che la situazione era grave, e che dovevamo di nuovo fare sacrifici.

Eh no, caro premier, noi avremmo voluto sentire un altro discorso, un discorso di verità e di umiltà. Un discorso che suonasse più o meno così.

“Cari italiani, è vero, in questi mesi, nonostante i pieni poteri che ci siamo presi proclamando lo “stato di emergenza”, non abbiamo fatto, a, b, c, d, e, f, … (qui lungo elenco), né abbiamo davvero preteso che voi faceste quello che vi avevamo prescritto, tipo niente movida, niente assembramenti sui mezzi pubblici, rispetto rigoroso del distanziamento. Un po’ abbiamo chiuso un occhio per risarcirvi dei due mesi di lockdown, un po’ abbiamo latitato perché siamo litigiosi, disorganizzati, e tendiamo a rimandare le decisioni difficili.

Però ora che l’epidemia ha rialzato la testa la lezione l’abbiamo capita. Abbiamo capito che aveva ragione il professor Crisanti quando, a luglio, ci diceva che 300 positivi al giorno non sono pochi. E aveva ancora più ragione quando, ad agosto, più di due mesi fa, ci consegnava un piano per aumentare i tamponi e costruire un vero sistema di sorveglianza attiva dell’epidemia. E avevano pure ragione quanti ci avvertivano che le scuole non erano pronte per riaprire, nonostante una raffica di banchi a rotelle in arrivo.

Ecco perché, nel momento in cui vi chiediamo i primi sacrifici, cui fra poco ne seguiranno altri, vi promettiamo anche che quegli errori non li faremo più. Ecco il nostro cronoprogramma, con le cose che faremo, gli stanziamenti, i tempi entro i quali vi garantiamo che le cose saranno fatte (segue lungo e dettagliato elenco di cose non fatte, ma che verranno fatte nei prossimi 3 mesi).

Perché sappiamo bene, ora ci è chiaro, che se non faremo tutte queste cose l’epidemia, dopo i vostri nuovi sacrifici, sembrerà in ritirata per qualche settimana o mese, ma poi si ripresenterà implacabilmente con una terza ondata”.

Noi, queste parole non le abbiamo ancora sentite. Noi questo programma non lo abbiamo ancora visto. E lo vorremmo. Subito. Se non lo vedremo, i sacrifici li faremo di nuovo, come sempre, ma non riusciremo a toglierci il dubbio che, ancora una volta, saranno inutili.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 ottobre 2020




Covid: una Norimberga per “crimini di pace”?

Ma come fanno a non capire? E come facciamo noi cittadini a sopportare tanta incoscienza?
Chiedo scusa al lettore per il modo crudo con cui inizio questo articolo ma, dopo mesi passati a cercare di mettere il mondo politico di fronte ai numeri di questa epidemia, sono sgomento. A quanto pare il manipolo di politici e burocrati della sanità che ormai da otto mesi è padrone delle nostre vite, e settimana dopo settimana stabilisce (senza chiedere il permesso a nessuno, tanto meno al Parlamento) che cosa possiamo fare e che cosa no, non ha ancora capito. E, sia chiaro, dico “non ha ancora capito” per lasciar loro una ciambella di salvataggio, una scusante. Se avessero capito, e agito come hanno agito in piena coscienza, dovremmo cominciare pensare a una Norimberga per “crimini di pace”. Perché 36 mila morti ufficiali, il tracollo dell’economia, milioni di persone alla disperazione, centinaia di migliaia di attività che stanno chiudendo, una seconda ondata che sta per sommergerci, sono un bilancio che non possiamo accettare da nessuna classe dirigente. Tanto più se consideriamo che la maggior parte degli altri paesi ha pagato un prezzo molto più modesto, sia in termini di morti sia in termini di punti di Pil perduti.

Ma veniamo al punto. Che cosa non hanno capito?

Non hanno capito, prima di ogni altra cosa, l’aritmetica di un’epidemia. Ammetto che non è molto intuitiva, ma con un piccolo sforzo possiamo capirla. Dunque proviamo a spiegarla, usando un esempio che si usa a scuola, specialmente in Francia, a quanto pare. C’è uno stagno, e al centro dello stagno c’è una ninfea. Il numero di ninfee raddoppia ogni notte, e lo stagno ne può contenere fino a 1000, prima di saturarsi e far soffocare tutto ciò che contiene. Il contadino che custodisce lo stagno si sveglia al mattino e nota che le 2 ninfee del giorno prima sono diventate 4. Il giorno dopo nota che sono 8. Il giorno dopo ancora che sono 16. Dopo una settimana sono 128, e occupano meno del 13% dello stagno. Il contadino non è preoccupato: penserà domani a ripulire lo stagno, in fondo in 7 giorni le ninfee sono cresciute lentamente, meno di 20 ninfee al giorno. Ma oggi è venerdì, e il contadino pensa: sabato e domenica mi riposo, lo stagno lo ripulirò lunedì o martedì. Lunedì le ninfee sono 512, ma il contadino rimanda ancora una volta la pulizia, e in una sola notte le ninfee diventano 1024, riempendo tutto lo stagno: ora è troppo tardi, perché in una sola notte le ninfee sono cresciute di numero quanto nei 9 giorni precedenti. Lo stagno è saturo, tutta la vita animale e vegetale che conteneva è morta o sta morendo.

Questa, all’osso, è l’aritmetica di un’epidemia. I giorni del nostro apologo sono le settimane che il governo aveva di fronte per intervenire. I primi segnali di ripresa dell’epidemia risalgono a metà giugno, ma non erano facilmente riconoscibili senza strumenti raffinati. Invece a partire da luglio capire che l’epidemia stava rialzando la testa era facilissimo, bastava non ignorare i dati della Protezione Civile. Ricoveri, terapie intensive, rapporto nuovi casi/tamponi hanno cominciato a crescere in modo esponenziale (e rapido) già da luglio. E da settembre lo hanno cominciato a fare anche i dati dei decessi, che nei mesi precedenti erano stati frenati dall’abbassamento dell’età mediana dei contagiati (gli under-50 muoiono molto meno degli over-50), creando così l’effetto-Sgarbi, ossa l’ingenua credenza che pochi morti al giorno significassero epidemia domata.

In questa situazione che cosa hanno fatto i nostri governanti?

Anziché cominciare a ripulire lo stagno, hanno rimandato ogni intervento al futuro, contando sul fatto che il numero assoluto di nuove ninfee, giorno dopo giorno, sembrava modesto: poche decine di morti la settimana, poche migliaia di nuovi casi la settimana, aumenti contenuti del numero di ricoveri in ospedale e in terapia intensiva.

Poi, circa 10 giorni fa, quando il numero di nuovi casi ha cominciato a puntare verso quota 10 mila, e il numero di morti giornalieri verso quota 100, un barlume di consapevolezza si è cominciato a fare strada. Sono cominciate le disquisizioni su nuovi lockdown e o semi-lockdown, coprifuoco globali o locali, chiusure più o meno severe di bar, ristoranti, palestre, scuole, con un’unica preoccupazione: escludere un nuovo lockdown globale, come quello di marzo e aprile, e convincerci che sconfiggere l’epidemia era compito nostro, o tutt’al più dei poteri locali, governatori delle Regioni e sindaci dei Comuni. Nessuna autocritica, nessuna ammissione di avere sbagliato tutto nel trimestre estivo quando, nonostante i dati dicessero il contrario, si è fatto come se l’epidemia stesse battendo in ritirata, e non ci fosse bisogno di rafforzare il trasposto pubblico locale, la politica dei tamponi, le strutture scolastiche, i controlli su movida e assembramenti.

Il risultato è che il tentativo maldestro di salvare l’economia durante l’estate verrà pagato con gli interessi nei mesi prossimi quando, per limitare le dimensioni della catastrofe sanitaria, le autorità saranno costrette a nuove chiusure, che ora non hanno il coraggio di annunciare ma che non potranno evitare.

Sembra incredibile, ma quello che sta andando in scena in questi giorni è il remake del film che abbiamo già visto tra febbraio e marzo, quando per “riaprire Milano” si rinunciò a chiudere per tempo Nembro e Alzano. Anche oggi, come allora, per paura di fermare l’economia si prende tempo, sperando che l’epidemia retroceda da sola, e dimenticando che quel che sta succedendo questa settimana, così come quel che succederà la prossima, è già scritto, perché dipende dai comportamenti di 2-3 settimane fa. Nel frattempo i contagi e i morti raddoppiano ogni settimana, come le ninfee dello stagno, nella vana attesa che il contadino faccia qualcosa. E quando finalmente ci si deciderà a fare qualcosa, sarà così tardi che questo qualcosa dovrà essere molto duro e prolungato.

Perché la legge fondamentale dell’epidemia è questa: se vuoi fare qualcosa, più tardi lo fai più costerà caro a tutti.




Il mondo fino a ieri

Uno dei libri che più mi hanno fatto riflettere, negli ultimi anni, è “Il mondo fino a ieri”, del grande antropologo Jared Diamond (a suo tempo reso famoso dal capolavoro “Armi, acciaio e malattie”). In quel libro, uscito nel 2013, Diamond sostiene e documenta una tesi suggestiva: le società moderne sono, in moltissimi campi e aspetti, superiori a quelle tradizionali, ma vi sono alcuni ambiti assai importanti nei quali una società tradizionale è superiore a una società moderna.

La tesi di Diamond, che ho solo riassunto per lasciare a chi non l’avesse ancora letto il piacere di avventurarsi in questo bellissimo libro, mi è tornata alla mente in questi giorni, sotto forma di dubbio. Il dubbio è questo: siamo sicuri che, di fronte alla pandemia che sta travolgendo le nostre modernissime (e ricchissime) società, non ci siano aspetti delle società tradizionali che ci avrebbero fatto comodo?

Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Se scoppia un’epidemia, è sicuramente meglio essere cittadini di una società moderna, in cui esiste un servizio sanitario nazionale, piuttosto che trovarsi in una società arretrata, in cui le condizioni igieniche sono disastrose, l’acqua corrente non c’è o non è potabile, gli ospedali e il personale medico scarseggiano.

Il punto però non è questo. Il mio dubbio è un altro: siamo sicuri che, culturalmente, una società tradizionale non sia più attrezzata, molto più attrezzata, di una società moderna ad affrontare una pandemia?

Provo a spiegare perché. Oggi ci troviamo di fronte a una drammatica ripresa dei contagi. Questa ripresa non era affatto inattesa, ma era stata ampiamente prevista dagli osservatori indipendenti. Probabilmente era stata prevista anche dalle autorità sanitarie e governative. Perché non si è fatto quasi nulla per evitare di arrivare al punto cui siamo oggi?

Una risposta possibile è che, in Italia come in diversi stati europei, siamo governati da una burocrazia politico-sanitaria inetta e poco coraggiosa. Ma c’è anche un’altra risposta possibile, che certo non assolve i governanti, ma li colloca nel loro contesto. Ebbene, questa risposta alternativa è, semplicemente, che la nostra non è una società tradizionale. La nostra è una società moderna, che della società moderna possiede perciò il tratto culturale fondamentale: la divinizzazione dell’individuo e dei suoi diritti, a scapito di ogni autorità e gerarchia, sia essa quella dei genitori, degli insegnanti, o più in generale delle altre istituzioni che rappresentano (o dovrebbero rappresentare) il bene comune.

Da questo tratto fondamentale delle nostre società, che le distingue in modo radicale dalle società tradizionali, deriva una conseguenza cui forse abbiamo prestato troppo poca attenzione, in questi mesi di lotta contro il virus. In una società in cui la libertà individuale assurge a totem indiscutibile è impossibile chiedere agli individui di rinunciare a porzioni significative delle loro libertà. O meglio, è possibile chiederlo, ma una volta sola, e a condizione che vi sia un risarcimento.

E’ di questo che i nostri governanti, ma non solo loro, hanno preso atto quando hanno rinunciato a chiederci di accettare un’estate in tono minore, senza discoteche, senza divertimento di massa, senza viaggi all’estero o nelle cattedrali della movida. Ma è questo, anche, ciò che ha impedito ai giovani e ai meno giovani di recepire i messaggi che, in modo un po’ criptico, il Presidente della Repubblica ha ripetutamente provato a trasmetterci denunciando “il virus dell’egoismo dei singoli”, o ammonendoci a “non confondere la libertà con il diritto di infettare altri”.

La realtà è che il rispetto dell’autorità e la capacità di affrontare rinunce sono tratti normali, se non costitutivi, delle società tradizionali, ma sono merce rarissima nelle società moderne. In una società tradizionale è semplicemente inconcepibile che i giovani (e i meno giovani) non si preoccupino di mettere a repentaglio la vita degli altri, compresi genitori, nonni e parenti. Ma in una società moderna, in cui la civiltà del lavoro è sempre più soppiantata dal consumo di tempo libero, questo diventa perfettamente possibile, come abbiamo potuto constatare quest’estate, e come continuiamo a constatare in questi giorni nelle scuole e sui mezzi pubblici, dove la gente si divide nei due grandi partiti dell’Italia di oggi, il partito di quelli che hanno paura e quello di chi prova ad infischiarsene del virus.

Né credo sia un caso che, nel dibattito pubblico, le voci che hanno detto in modo forte e chiaro che avremmo dovuto accettare delle rinunce, o che i giovani avrebbero fatto meglio a passare l’estate studiando quel che non avevano studiato durante il lockdown, si siano contate sulle dita di una mano. Personalmente, ricordo nitidamente solo quella di Federico Rampini, in un appassionato intervento in tv, quella di Antonio Scurati, in un lucido articolo sul Corriere della Sera, e ultimamente quella di Massimo Giannini, dolorosamente colpito dall’esperienza del Covid.

Ma tutti gli altri? Non solo ai politici, ma anche alla maggior parte dei genitori, insegnanti, educatori in genere, non è passato neppure per l’anticamera del cervello di richiedere qualche sacrificio in nome del bene comune, come se vacanze e divertimento più o meno massificato fossero diritti fondamentali, inalienabili e improcrastinabili.

Ecco, per una volta mi sembra giusto fornire un’attenuante a chi ha così mal governato l’epidemia, portandoci al disastro in corso. Se le cose sono andate così è certamente perché la politica pensa solo al consenso immediato, e uomini e donne di Stato, capaci di guardare al futuro di una nazione, non ci sono più da un pezzo. Ma forse dovremmo anche riconoscere che una parte del problema sta in noi stessi, nel nostro esserci allontanati troppo dalla grammatica di una società tradizionale.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 ottobre 2020