Salario minimo legale – Le conseguenze

Sul problema di un minimo salariale decente, tutti i governi fin qui succedutisi hanno nicchiato. Ora però non sarà più possibile far finta di niente: l’Unione Europea, infatti, ha fissato al 24 novembre del 2024 la data ultima per recepire la direttiva UE sul “salario minimo adeguato”.

In Italia, l’opposizione tutta (Renzi a parte) ha trovato nella proposta di un salario minimo di 9 euro lordi un punto di convergenza, anzi la prima vera occasione di convergenza dal giorno dell’insediamento del governo di Giorgia Meloni. Qui non voglio entrare nella disputa politica, già asprissima, sulla giustezza o meno di questa misura. Piuttosto, vorrei provare a rispondere alla domanda: se dovesse passare la proposta delle opposizioni, che conseguenze osserveremmo sul mercato del lavoro?

Su questo, fortunatamente, la teoria economica ha molto da dire. Ma, prima di indicarne alcune, dobbiamo mettere a fuoco due punti.

Primo, la proposta delle opposizioni non riguarda la retribuzione oraria complessiva, che, oltre alla paga base, include tredicesima, quattordicesima, scatti di anzianità, e altre voci, ma il cosiddetto trattamento minimo tabellare, che esclude tutti gli elementi aggiuntivi della retribuzione. Questo significa che i 9 euro lordi proposti, possono diventare 11 o 12, in dipendenza delle varie situazioni. Le associazioni delle imprese artigiane, come la CGIA di Mestre, hanno già lanciato l’allarme: 9 euro lordi possono andare bene ma solo se vengono calcolati sulla retribuzione complessiva, incluse le voci aggiuntive come la tredicesima.

Il secondo punto è: quali saranno le categorie escluse dal salario minimo? Solo colf e badanti, o anche apprendisti, stagionali, voucher, collaborazioni, finte partite Iva? A seconda della platea di lavoratori coinvolti, l’aggravio di costi complessivo per i datori di lavoro (circa 6.7 miliardi secondo l’INAPP) potrebbe variare considerevolmente.

Ed ora passiamo alle conseguenze. Supponiamo che il salario minimo venga introdotto per legge, ossia che la strada non sia quella di estendere la contrattazione, ma di stabilire un obbligo giuridico. Che cosa capiterebbe dopo l’entrata in vigore della norma?

Dipende dal tipo di datore di lavoro. Nelle imprese regolari in salute e che non ricorrono al lavoro nero, avremmo un aumento dei salari per i lavoratori sottopagati, e quindi una riduzione dei profitti, talora accompagnata da una contrazione degli investimenti. Nelle imprese regolari che operano con margini ridotti, invece, a seconda della propensione al rischio dell’imprenditore, potremmo assistere alla chiusura dell’impresa, o al ricorso al lavoro nero. Nelle imprese che già attualmente operano in modo irregolare, con ampio utilizzo di lavoro nero, non succedere nulla, a meno che cambiasse completamente la politica dei controlli (attualmente quasi del tutto inesistenti). In quest’ultimo caso, avremmo due impatti di segno opposto: per le imprese più floride, l’emersione del nero, per quelle più fragili la chiusura.

In sintesi: il salario minimo legale produrrebbe sia effetti positivi, sia effetti negativi. Nessuno però ha ancora calcolato il saldo di tali effetti, ovvero se quelli positivi supererebbero quelli negativi. Una valutazione di massima suggerisce che quelli positivi potrebbero essere prevalenti nel Centro-nord, quelli negativi nel Sud, dove si concentra il grosso del lavoro irregolare e dei salari inferiori al minimo legale di 9 euro l’ora.

Si potrebbe osservare che, almeno, verrebbe raggiunto l’obiettivo più volte proclamato da Elly Schlein, ossia una drastica riduzione del fenomeno dei working poor (lavoratori poveri, che lavorano ma guadagnano troppo poco). Sfortunatamente, nemmeno questo obiettivo è realisticamente raggiungibile: le statistiche dimostrano che il grosso del fenomeno non si deve ai salari orari bassi, ma allo scarso numero di ore lavorate.

Conclusione: l’idea di un salario minimo legale merita la massima attenzione, ma è ingenuo pensare che basti a spazzare via sfruttamento, precarietà e lavoro povero.




Sinistra in tilt

Sulla gestazione per altri (o utero in affitto), appena proclamata “reato universale” da un voto della Camera dei deputati, la sinistra è andata in tilt. I suoi due leader principali, Schlein e Conte, non se la sono sentita di partecipare al voto. E i suoi intellettuali annaspano. Michele Serra, ad esempio, dichiara che con il voto della Camera “un’opinione è diventata legge”. E evoca lo “stato etico” (di gentiliana memoria), contrapponendolo allo stato liberale.

Ma è un errore logico grossolano, che farebbe inorridire i grandi maestri del pensiero liberale, a partire da Isaiah Berlin. Il fatto che un’opinione in materia etica possa diventare legge è parte integrante della logica delle società liberali, che si distinguono dai regimi proprio perché assumono che, su questioni fondamentali, possano scontrarsi concezioni, valori, visioni del mondo inconciliabili.  Fra le quali è inevitabile che la legge, attraverso il Parlamento o il voto popolare (referendum), operi una scelta.

È successo in modo esemplare ai tempi del referendum sull’aborto. In quell’epoca (anni ’70) le opinioni inconciliabili erano quelle dei cattolici, per i quali il feto è una persona, e quindi l’aborto è un omicidio, e quelle dei laici, per i quali l’aborto non è un omicidio, ma una libera scelta della donna. In quel caso, a diventare legge fu l’opinione dei laici, che con la legge 194 del 1978, riuscirono a imporre il loro punto di vista. E a nulla valse, qualche anno dopo, il tentativo del Movimento per la vita di imporre il punto di vista dei cattolici con il (fallito) referendum abrogativo.

In breve, come non vi era nulla di illiberale nella legge che rese ammissibile l’aborto, imponendo ai cattolici il punto di vista dei laici, così non vi è nulla di illiberale nelle leggi (presenti e future) che vietano la gestazione per altri, imponendo agli ultra-laici il punto di vista di quanti – non solo cattolici – considerano inaccettabile la pratica dell’utero in affitto.

Perché, dunque, tanto scalpore e tanto imbarazzo nel mondo progressista?

Credo che il motivo sia sottile, ma molto potente. La ragione per cui la gestazione per altri mette in difficoltà lo schieramento progressista è che incrina irrimediabilmente il racconto che, almeno dalla caduta di Renzi in poi, la sinistra ha scelto per dar forma alla propria immagine. Quel racconto era basato sostanzialmente su un principio: sostituire le grandi, storiche, battaglie per i diritti sociali con nuove, grandiose, battaglie per i diritti civili, pensate – e qui sta il punto cruciale – non come lotte di una parte politica contro un’altra, bensì come epiche “battaglie di civiltà”, condotte in nome di diritti universali, contro l’oscurantismo e la barbarie. Cittadinanza agli immigrati, unioni civili, diritti Lgbt, leggi contro l’omotransfobia, norme su eutanasia e fine vita, tutto ciò per cui il mondo progressista si batteva era pensato nel registro “civiltà contro barbarie”. Era una forzatura, certo, ma era retoricamente sostenibile, perché quelle battaglie erano condotte in nome di valori forti e abbastanza largamente condivisi, come l’apertura al diverso e la libertà individuale.

Ma con l’utero in affitto, come la mettiamo?

Improvvisamente, il mondo progressista ha sperimentato, come in parte era già successo con il Ddl Zan, che le sue proposte non erano inquadrabili nel racconto standard degli ultimi anni, quello di una ennesima “grande battaglia di civiltà” da condurre contro retrogradi e nemici della ragione. Era troppo evidente che, nella gestazione per altri, c’è qualcosa che non va: la mercificazione del corpo della donna, ad esempio, o la separazione del bambino dalla madre. Di qui l’imbarazzo di Schlein e Conte.

Ai quali mi permetto di dare un consiglio: anziché demonizzare la destra, riconoscete che la faccenda è complessa, e lasciate libertà di coscienza ai vostri parlamentari.




Punire il “negazionismo climatico”?

Quando l’ho sentita non ci volevo credere. Pensavo fosse la solita notizia gonfiata e deformata dai media. Il solito tentativo di screditare l’avversario politico.

E invece no, quando sono andato a controllare, ho scoperto che era tutto vero. L’aveva proprio detto, il leader dei Verdi Angelo Bonelli, che intende presentare una proposta di legge per introdurre il reato di “negazionismo climatico”.

Dunque siamo a questo. Per Bonelli, la legge dovrebbe punire chi non aderisce al pensiero dominante in materia di clima. Vedremo, quando ci sarà un testo, se la pena sarà pecuniaria, detentiva, o entrambe le cose. Certo, mi farebbe una certa impressione vedere scattare le manette ai polsi del fisico dell’atmosfera Franco Prodi (fratello dell’ex presidente del Consiglio), o assistere a una discussione parlamentare sulla perseguibilità del senatore a vita Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica. O magari, in occasione di una incauta vacanza in Italia di Richard Lindzen (eminente fisico dell’atmosfera americano), vedere nascere una surreale diatriba sulla natura universale o meno del nuovo reato di Bonelli. Già, perché ciascuno di questi tre signori, che ho indicato solo a titolo di esempio fra decine di altri possibili, ha espresso perplessità sulla tesi che il riscaldamento globale sia dovuto soprattutto alla crescita delle emissioni di anidride carbonica (CO2).

Ma lasciamo perdere le conseguenze di una proposta di legge che non sarà mai approvata, e serve solo a incattivire il fondamentalismo green. Quel che merita attenzione non è il destino della proposta (se mai avranno il coraggio di metterla nero su bianco), ma la mentalità che la sorregge. Perché, bene o male, siamo abituati a pensare gli ambientalisti come una componente della galassia progressista. Che a sua volta ama pensare sé stessa come erede dell’illuminismo.

Peccato che l’idea di istituire il reato di “negazionismo climatico” sia quanto di più oscurantista si possa immaginare. E questo per due precise e distinte ragioni.

Primo, la proposta è illiberale, nella misura in cui calpesta il principio della libertà di opinione, un principio che – fra le opinioni tutelate – non può non includere quelle che si affrontano e si sfidano in campo scientifico.

Secondo, la proposta è profondamente antiscientifica. Bonelli forse non lo sa, ma il dubbio è uno dei cardini dell’etica della scienza. E lo è, in modo particolare, proprio sul punto cruciale della controversia climatica: la dimostrazione dell’esistenza di un nesso causale.

Perché il punto della discussione non è se oggi faccia più caldo di 50, 100, o 150 anni fa, ma se il cosiddetto riscaldamento globale possa essere attribuito prevalentemente all’azione dell’uomo. Chi ha dimestichezza con le tecniche statistiche di imputazione causale su dati osservativi (cioè nonsperimentali), e ha un minimo di conoscenza dei limiti intrinseci dei modelli di simulazione, sa perfettamente che tale attribuzione può essere effettuata solo in via congetturale, e che i margini di errore sono di entità sconosciuta.

Ma l’oscurantismo illiberale e antiscientifico non è l’unico difetto della mentalità green. C’è anche un difetto strettamente politico. Ammettiamo che abbiano ragione quanti pensano che il riscaldamento globale sia un effetto della CO2 (io stesso propendo a pensare che abbiano ragione). Resterebbe aperto quello che mi piace chiamare “il problema di Jonathan Franzen” (mirabilmente esposto nel suo libriccino E se smettessimo di fingere?): posto che le risorse che possiamo investire sull’ambiente sono limitate, è meglio convogliarle sulla rimozione delle (presunte) cause del riscaldamento globale, o concentrarle sulla prevenzione delle sue (catastrofiche) conseguenze?

Gli ambientalisti scettici, quando non sono a loro volta accecati dall’ideologia, dicono

solo questo: siamo sicuri che la nostra costosissima (e solitaria!) lotta all’anidride carbonica sia la strada più saggia per proteggerci dal riscaldamento globale?

Se poi sono pure di sinistra (quella vera), aggiungono: è proprio il caso, a forza di auto elettriche ed efficientamenti energetici delle abitazioni, di caricare sulle spalle dei ceti popolari gli enormi costi della cosiddetta transizione green? Non è che la lotta al riscaldamento globale finirà per aumentare le diseguaglianze?

È a queste domande che, per ora, gli ambientalisti ortodossi non hanno saputo rispondere.




L’opposizione Mariarosa

Ci sono parecchie cose, nelle politiche messe in atto da Giorgia Meloni, che possono non convincere (a me, giusto per fare un esempio, non piacciono per niente i condoni più o meno mascherati). Per cui trovo normalissimo che l’opposizione faccia le sue critiche. E che abbia da ridire su un mucchio di cose, dalla politica economica a quella sociale, dalle scelte in materia di immigrazione a quelle in materia di giustizia. Però c’è qualcosa di vagamente patologico nel modo in cui la stampa progressista e tutte le forze di opposizione (eccetto i due partitini del Terzo polo) si rapportano al governo e alle sue scelte. Solo che non so bene come chiamarlo, questo qualcosa.

Perciò provo a descriverlo. Primo aspetto: non c’è una sola azione del governo in carica che non riceva critiche severissime. Non vanno bene le misure della Legge di bilancio, comprese quelle a favore delle famiglie meno abbienti. Non va bene la riduzione del cuneo fiscale per le fasce deboli, anche se sono soldi in più in busta paga. Non va bene il bonus di 383 euro per le famiglie povere con figli, che suscita solo ironia (“un caffè al giorno”) o disprezzo (“la dignità comprata a 383 euro”).

Ma l’aspetto più interessante è un altro. Giorgia Meloni viene criticata, rimproverata,  denigrata, anche quando ottiene un successo, o quantomeno un risultato che la stragrande maggioranza delle persone normali non esita a considerare un successo. L’esempio più clamoroso è la grazia a Zaki, frutto del lavoro diplomatico del governo italiano. Nemmeno in quel caso, l’opposizione è riuscita ad evitare lo schema: “è una buona notizia, però…”.

Però che cosa? Però il merito è anche del governo Draghi; però chissà che cosa il governo Meloni ha dato in cambio; però non ci sarà un baratto con il caso Regeni?

Stesso problema con i successi in campo internazionale, come il coinvolgimento dei vertici dell’Unione Europea nei negoziati con la Tunisia. O come la grande conferenza di domenica a Roma con 21 paesi africani e mediorientali. Anche qui scetticismo e ironia a gogo. Qualcuno arriva a dire che la conferenza è stata organizzata per “far dimenticare la guerra alle Ong, la gestione del naufragio di Cutro, le promesse di blocchi navali e porti chiusi”. Insomma, non una scommessa politica più o meno valida, più o meno rischiosa, ma una banale, miserevole, furbesca manovra di gestione del consenso elettorale.

In realtà, quel che succede è che, da quando ha vinto le elezioni, Giorgia Meloni sembra baciata dalla fortuna. L’inverno è stato uno dei più miti. La crisi energetica ha creato molti meno disagi del previsto. L’occupazione galoppa. I sondaggi premiano Fratelli d’Italia. Una dopo l’altra, le fosche previsioni degli avversari si rivelano sbagliate: niente esplosione dello spread, niente ostilità dell’establishment europeo, nessun problema con Nato e Stati Uniti.

Di qui lo sconcerto dell’opposizione, e la progressiva formazione di un frame, di una sorta di schema fisso. Più la fortuna arride a Meloni, più l’opposizione (con poche eccezioni) assume una postura da “gufi e rosiconi”, incapaci di visione e privi di ogni senso dell’interesse nazionale. Era già successo con Renzi, quando in tanti non sopportavano che avesse il vento in poppa.

Ecco, finalmente mi è venuta la parola che cercavo: Mariarosa. Anzi Olivella e Mariarosa. Chi ha almeno 50 anni ricorderà la meravigliosa pubblicità dell’olio Bertolli ai tempi di Carosello (per i più giovani, ecco qui un link a youtube: https://www.youtube.com/watch?v=_97KBdnlzvE ). A Olivella, fresca sposina, tutto andava bene, ma ogni successo scatenava l’invidia di Mariarosa. E a Mariarosa i tentativi di fare come Olivella andavano sempre storti. La filastrocca recitava: “Là, là, là, tutto bene mi va” (Olivella). E “Oh, oh, oh, ed invece a me no” (Mariarosa). E un cartone animato raccontava le avventure di Olivella e le esilaranti disavventure di Mariarosa.

Il problema è che oggi noi abbiamo una premier-Olivella e un’opposizione-Mariarosa. Difficile chiedere a Giorgia di non fare Olivella. Ma possiamo sperare che, prima o poi, Elly smetta di fare Mariarosa?




Il caso Venezi

Marzo 2021. Beatrice Venezi, al Festival di Sanremo, dichiara che preferisce essere chiamata direttore d’orchestra (piuttosto che direttrice o direttora). Laura Boldrini, ex presidente della Camera, trova il tempo e la voglia di montare una polemica: la presa di posizione della Venezi “è un problema serio”, e “dimostra poca autostima”.

Che dire?

Se uno pensa a quanti e quali problemi veri ha l’Italia, viene il mal di mare a constatare che ci sia qualcuno, a sinistra, che pensa che il fatto di preferire direttore a direttrice costituisca un “problema serio”. Quanto alla scarsa autostima, vien da ridere: la Boldrini ha visto il curriculum della Venezi? Si è accorta che è la più giovane direttrice d’orchestra italiana?

Ma andiamo avanti. 10 luglio 2023, Beatrice Venezi, incorre nell’ira di 14 associazioni (sedicenti) democratiche e anti-fasciste francesi. Alla fine del 2023 dovrebbe dirigere l’orchestra filarmonica per i tradizionali balletti di Natale e per il concerto di Capodanno. Ma le associazioni democratiche e anti-fasciste non ci stanno, e lanciano una petizione in cui chiedono al sindaco di Nizza e al direttore generale dell’Opera Nice Côte d’Azur di annullare l’invito. Motivi: le idee politiche di Venezi, la sua partecipazione alla Convention di Fratelli d’Italia la primavera dell’anno scorso, il suo ruolo di consigliere del ministro della Cultura Sangiuliano.

Non è finita. Due giorni dopo, il 12 luglio, a Lucca si svolge il Summer Festival dedicato al centenario pucciniano. Venezi dirige l’orchestra e include fra i brani l’Inno a Roma di Puccini, scritto nel 1919, ma successivamente usato dal fascismo e dal Movimento Sociale Italiano. Per protesta, diversi membri del Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane, fra cui alcuni sindaci e un presidente di provincia, disertano l’evento (peraltro dimenticandosi che il medesimo inno, cantato da Bocelli al Colosseo due anni fa, non aveva suscitato la benché minima protesta o contestazione).

Beatrice Venezi giustamente tiene il punto, e rivendica l’assoluta autonomia dell’arte rispetto alla politica (lo stesso, peraltro, dovrebbe valere per scienza, letteratura, sport). Respinge fermamente l’idea che un’opera o un autore possano essere cancellati per il solo fatto che sono piaciuti ai soggetti sbagliati. L’esempio di Richard Wagner è perfetto: non dovremmo più ascoltare la musica del grande compositore tedesco solo perché quella musica piaceva a Hitler?

Poi respinge l’accusa di essere neo-fascista, o che lo sia l’attuale governo. E accusa i suoi accusatori di misoginia, perché attaccano una giovane donna per le idee del padre (che era stato dirigente di Forza Nuova).

Tutto ineccepibile, ma forse manca qualcosa. Venezi è stata troppo soft. La petizione in cui si chiede di toglierle la direzione dei concerti di fine anno a causa delle sue idee politiche andrebbe considerata per quel che è: un incitamento a compiere un atto di discriminazione.

Sia nella Costituzione italiana (art. 3), sia nel diritto europeo (art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 14 della CEDU), le idee politiche sono indicate esplicitamente fra le ragioni sulla base delle quali è inammissibile effettuare discriminazioni.

Viste le cose da questa angolatura, diventa del tutto irrilevante stabilire quali siano le idee politiche di Beatrice Venezi. Perché il punto non sono le sue convinzioni, ma come mai, nel 2023, una parte della sinistra considera normale, anzi dovuto, discriminare una giovane donna a causa delle sue idee.

Non era, la lotta contro ogni discriminazione, uno dei cardini del politicamente corretto?