Il governo non ha scelta

Discutiamo, discutiamo pure. Dividiamoci fra “aperturisti” e “chiusisti”. Ripetiamo il mantra secondo cui la salvezza sono i vaccini. Continuiamo a invocare una “data certa” per le riaperture. Però la realtà è che il governo non ha alternative. Verosimilmente sa benissimo che cosa dovremmo fare, ma altrettanto verosimilmente sa che – arrivati al punto cui siamo arrivati – l’unica cosa che può fare è quella sbagliata: aprire appena si libera qualche centinaio di posti nelle terapie intensive, pregando Iddio che l’Italia non ripercorra la triste parabola della Sardegna, precocemente promossa a “regione bianca” per essere immediatamente retrocessa a “regione rossa”.

Verso questo scenario ci conducono due fattori estremamente potenti. Il primo è la composizione politica del governo, che per la prima volta dall’inizio della pandemia deve tenere conto sia della spinta della sinistra ad aprire le scuole e le attività culturali, sia di quella della destra ad aprire gli esercizi commerciali. Da questo punto di vista, l’allargamento della maggioranza ha rafforzato le spinte aperturiste, e indebolito il già minoritario partito della prudenza: ora sinistra e destra non si confrontano sulle ragioni della salute e su quelle dell’economia, ma semplicemente competono per intestarsi il merito delle riaperture che (presto) verranno.

Ma c’è un altro fattore, ben più potente, che sta riducendo al silenzio il partito della prudenza, ed è che la strada percorsa dai paesi che, per lo più senza vaccini, hanno domato l’epidemia, per noi è divenuta semplicemente impercorribile.

Che cosa hanno fatto paesi come l’Irlanda, la Danimarca, il Portogallo, la Svizzera, il Canada, il Sud Africa?

Hanno fatto quello che noi stessi abbiamo fatto un anno fa, nella prima fase  dell’epidemia: un lockdown tempestivo e serio. Grazie ai dati di mobilità di Google è facile misurare il grado di rispetto del confinamento in casa dei vari paesi, e il risultato è chiarissimo: fatta 100 la forza del nostro lockdown di un anno fa (aprile 2020) il nostro ultimo lockdown è stato inferiore a 50 (e addirittura a 30 nel febbraio scorso), mentre quello dei paesi che ce l’hanno fatta è stato prossimo a 100, cioè eguale al nostro durante la prima ondata. Insomma, loro il lockdown l’hanno fatto davvero, noi ci siamo baloccati per ben 6 mesi con il geniale algoritmo dei colori. E lo abbiamo fatto perché non abbiamo mai cambiato la filosofia che ha guidato il governo dell’epidemia: chiudere solo quando si intravede il collasso del sistema sanitario, e le file di ambulanze che non riescono a entrare in ospedale mettono a tacere il partito del Pil; riaprire non appena gli ospedali accennano a svuotarsi e il valore di Rt scende sotto 1. Una filosofia, peraltro, cui si è sempre accompagnato un comandamento non scritto: “non avrai altro Dio all’infuori del lockdown” (e ora del vaccino…). Un comandamento non sorprendente, perché gli dei minori si chiamano: tamponi di massa, tracciamento, sorveglianza delle quarantene, medicina territoriale, ricambio dell’aria nei locali chiusi, rafforzamento del trasporto pubblico locale, solo per citarne alcuni; e costano molta più fatica di un decreto che ci chiude tutti in casa.

Se questo a grandi linee è quel che è successo, verrebbe da dire: perché, visto che siamo indietrissimo sulle vaccinazioni, non possiamo fare oggi quel che il partito della prudenza (Crisanti, Galli, Ricciardi) non si è mai stancato di raccomandare negli ultimi 6 mesi?

La risposta è drammatica: perché abbiamo esaurito tutte le riserve, a tutti i livelli. E quando le riserve sono esaurite, un governo non può che provare a ricostituirle, anche se questo costerà altre migliaia di morti.

Ma riserve di che cosa?

Riserve di pazienza, innanzitutto: su 14 mesi, ne abbiamo avuti appena 4 di libertà, o meglio di libertà vigilata: giugno, luglio, agosto, settembre. La gente è esasperata, e ha perfettamente ragione. Non si può stare mesi e mesi nell’attesa messianica che “i dati migliorino”, facendo sacrifici che sono certamente minori di quelli di un anno fa, ma a differenza di quelli sono risultati perfettamente inutili: i morti di oggi sono più o meno quelli di novembre, così le ospedalizzazioni, così i ricoveri in terapia intensiva.

Non sono però solo i nostri nervi ad essere messi a dura prova. Per circa metà del paese, ad essere esaurite sono anche le fonti materiali di sostentamento. Noi oggi vediamo scorrere in tv le immagini degli esercenti, degli artigiani, delle partite IVA che ogni giorno protestano in piazza perché 6 mesi consecutivi di chiusure e limitazioni hanno ridotto allo stremo milioni di famiglie. Ma sembriamo non renderci conto che il mondo che essi rappresentano non è un piccolo (sia pur importante) settore della società italiana, ma ne costituisce circa la metà, forse persino qualcosa di più della metà: dietro a 5 milioni di lavoratori autonomi non ci sono solo loro, e le rispettive famiglie, ma c’è la sterminata realtà dei dipendenti delle piccole imprese, dimenticate dalla legge e dalle organizzazioni sindacali. Una società del rischio, esposta alle turbolenze del mercato, che nulla ha a che fare con l’altra metà della società italiana, costituita dal vasto mondo dei garantiti: pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle imprese grandi e medie, tutti soggetti che durante la pandemia non hanno sofferto perdite di reddito, e anzi spesso, grazie al rallentamento dei consumi, hanno aumentato i depositi in banca.

La frattura fra questi due mondi, quello dei tutelati dalla mano pubblica e quello degli esposti ai rischi del mercato, è sempre esistita nella società italiana, ma durante la pandemia si è enormemente approfondita, non solo per ragioni ovvie (le chiusure colpiscono di più il lavoro autonomo), ma perché fino a 2 mesi fa la politica ha nettamente privilegiato i membri della società delle garanzie, incanalando il grosso delle risorse al mantenimento delle tutele dei già garantiti, e lasciando solo le briciole all’altrettanto vasto mondo dei non garantiti. La politica, in altre parole, anziché cercare di attenuare la voragine che si stava allargando fra garantiti e non garantiti, ha parteggiato nettamente per i primi, fino al punto di incrementarne alcune tutele, come nel caso dell’aumento agli statali concesso in piena pandemia non solo a medici e infermieri (come era giusto) ma a tutti, compresi i molti dipendenti in smart working, cui dobbiamo la spettacolare caduta di efficienza della Pubblica Amministrazione.

Perché è successo?

E’ semplice, perché il governo era giallo-rosso, e da decenni la sinistra preferisce rappresentare gli interessi e le aspirazioni della società delle garanzie, lasciando la società del rischio alla destra. Con un risultato paradossale: di fronte alla più grave diseguaglianza prodottasi nella storia repubblicana, la sinistra al governo – da sempre, a parole, paladina della lotta alle diseguaglianze – non solo ha latitato, ma ha fatto quel che era in suo potere per accentuarla, e così garantire i propri ceti di riferimento; mentre la destra, che da decenni i propri ceti di riferimento li ha nel mondo dei produttori, si trova oggi ad essere uno dei pochi argini contro l’aumento delle diseguaglianze.

Ma, da un paio di mesi a questa parte, la destra non è più all’opposizione (Fratelli d’Italia a parte), e partecipa pienamente al governo. E si trova di fronte a un problema che, arrivati a questo punto, ha un’unica soluzione. Il problema è quello di ridare ossigeno ai lavoratori autonomi, stremati da un anno di politiche pro-garantiti. La soluzione, arrivati all’ennesimo (e insufficiente) scostamento di bilancio, non può che essere quella di riaprire, e consentire agli operatori economici di sfruttare le opportunità della stagione turistica.

Ecco perché, dicevo all’inizio, il governo non ha alternative: deve aprire, anche se sa che non ci sono le condizioni per farlo in sicurezza. E’ l’amaro lascito di un anno di inerzia sulle misure alternative al lockdown. C’è almeno da augurarsi che tale inerzia, che già ci è costata la seconda ondata e la terza, non si perpetui nei prossimi mesi, alimentata dalla speranza che il combinato disposto dei vaccini e della bella stagione basti a evitarci la quarta ondata, e ci levi le castagne dal fuoco per sempre.

Perché quella speranza sussiste, ma è ben lontana dal costituire una certezza.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 aprile 2021




Qui ci vuole un “piano B”

Anche se abbiamo 450 morti al giorno, anche se nessun paese occidentale ha un tasso di mortalità alto come il nostro, anche se la curva epidemica migliora solo nella mente di qualche autorevole esperto governativo, il sentimento prevalente fra gli italiani non sembra né la pietà per i morti, né la preoccupazione per il futuro, bensì l’esasperazione per il presente. Uno stato d’animo che apre un ampio varco al messaggio centrale della politica: resistete ancora un po’, siamo all’ultimo miglio, la campagna vaccinale vi permetterà presto di tornare alla agognata “normalità”.

Ma presto quanto?

Qui le posizioni si dividono. Draghi non si sbilancia, e in sostanza dice: riapriremo appena i dati lo consentiranno. Ma si guarda bene dal precisare qual è la soglia sotto la quale i dati saranno giudicati rassicuranti: “solo” 50 morti al giorno? o ci basterà scendere sotto i 150, che dopotutto sono un terzo dei 450 attuali? O il criterio sono i posti in terapia intensiva, per cui riapriamo appena ci sono abbastanza posti per accogliere nuovi malati, e inevitabilmente contare nuovi morti?

Il partito delle riaperture, che dà voce alle proteste di esercenti e partite Iva, ha le idee più chiare: riaprire subito, o appena ci sono segni – non importa quanto flebili – di arretramento dell’epidemia.

Questa seconda posizione è spesso accompagnata da un argomento al tempo stesso demenziale e interessante: riapriamo perché chiudere non è servito a nulla, o meglio è servito solo a ridurre alla fame gli esercenti.

L’argomento è demenziale perché in realtà sappiamo perfettamente che cosa succede se si riapre. Il governo, infatti, ha già fatto un esperimento sulla Sardegna, e ha potuto constatare che, se a un territorio con il contagio in ritirata si concedono le libertà di una “zona bianca” (quasi tutto aperto), nel giro di poche settimane quel medesimo territorio si ritrova in “zona rossa”. E’ questo che vogliono i fautori delle riaperture “appena la situazione migliora”?

Ma l’argomento dei paladini delle riaperture non è solo demenziale, è anche interessante. Perché attira l’attenzione su un punto cruciale, e cioè che 6 mesi di sacrifici (da metà ottobre ad oggi), in fin dei conti non sono serviti a nulla. Non ci hanno evitato il picco di fine novembre, con 3800 ricoverati in terapia intensiva, e non ci hanno risparmiato, a quattro mesi di distanza, il picco attuale, con il medesimo numero di ricoverati in terapia intensiva. Dunque, su questo, il partito delle riaperture ha ragioni da vendere: bisognerà pure, a un certo punto, prendere atto che le misure messe in campo non hanno funzionato, e che la pretesa delle autorità scientifico-sanitarie di farci ballare ancora per mesi e mesi la danza dei 4 colori è forse un po’ eccessiva. Su questo l’inquietudine del partito delle riaperture è perfettamente giustificata.

E allora veniamo al punto: perché le misure non hanno funzionato? Perché i morti anziché diminuire stanno crescendo?

Le ragioni, a mio parere, sono essenzialmente tre. La prima è che la campagna di vaccinazione, essendo stata condotta in modo scriteriato, ha dato un contributo molto modesto al contenimento della mortalità. Fa una certa impressione, leggendo le cifre ufficiali del Governo, scoprire che ancor oggi, a 100 giorni dall’inizio della campagna vaccinale, meno del 40% degli over-80 (e meno del 3% della fascia 70-79) sia completamente vaccinato. O scoprire che, a fronte di circa 800 mila medici e infermieri, 3.1 milioni di dosi siano state riservate al “personale socio-sanitario”. Per non parlare degli 1.1 milioni di dosi andate al personale scolastico (con le scuole quasi sempre chiuse), o del milione di vaccinazioni di cui non è possibile individuare la ratio, e che vengono più o meno semplicisticamente ascritte ai “furbetti del vaccino” (come se ad ogni furbetto non corrispondesse un’autorità pubblica che gli consente di comportarsi in quel modo). E’ difficile elaborare stime precise, ma sembra inevitabile concludere che se fin dall’inizio, oltre medici e infermieri, si fossero vaccinati la maggior parte degli over-80, oggi avremmo almeno 200 morti al giorno in meno.

La seconda ragione è che il lockdown attuato in Italia, specie a gennaio-febbraio, è stato molto più blando di quello adottato nei paesi che stanno uscendo dall’epidemia. Basta scaricare i dati di Google sul grado di confinamento a casa dei cittadini dei vari paesi, per accorgersi che i paesi che hanno abbattuto drasticamente il numero dei morti hanno tutti praticato un lockdown molto più severo del nostro. E non sto parlando di paesi molto avanti con le vaccinazioni (come Regno Unito e Israele), ma di paesi che, come Irlanda, Portogallo, Sud Africa, Svizzera hanno vaccinato come noi o meno di noi. Questo dato dà torto agli aperturisti, e fornisce invece un supporto alla linea – lockdown breve e durissimo – da tempo sostenuta da Walter Ricciardi, il consulente inascoltato (e ora a quanto pare pure silenziato) del ministro della salute Roberto Speranza.

Ma c’è un terzo motivo per cui le cose non vanno bene. E questo dà invece ragione ai critici della giostra dei 4 colori. Sono ormai in molti, fra gli studiosi indipendenti (ma non nel Comitato tecnico-scientifico), a sostenere che le indicazioni fornite fin qui dalle autorità sanitarie sono basate su evidenze scientifiche dubbie o datate, e talora sono addirittura in contrasto con quel che ormai si sa sui meccanismi di trasmissione del virus.

Che cosa si sa?

Si sanno parecchie cose che prima non si sapevano, o si sapevano ma non venivano credute dall’OMS e dalle autorità sanitarie (per una breve storia di queste cose sapute ma non credute, vedi gli articoli del prof. Giorgio Buonanno sul sito della Fondazione Hume). La prima è che, all’aria aperta, la trasmissione del virus è estremamente difficile, molto più difficile di quanto si è a lungo ritenuto. La seconda, speculare alla precedente, è che la trasmissione al chiuso è piuttosto agevole, molto più di quanto si supponesse. La ragione, ridotta all’osso, è che la trasmissione del virus non avviene solo con le goccioline più grandi (droplets), che tendono a cadere a terra, ma anche con quelle più piccole (aerosol), che invece – negli ambienti al chiuso – possono restare in sospensione e diffondersi in modo analogo al fumo, mentre all’aperto vengono rapidamente disperse.

Semplificando e forzando un po’ a scopo comunicativo, si potrebbe riassumere così: le mascherine chirurgiche (che non filtrano l’aerosol) all’aperto non sono necessarie e al chiuso non sono sufficienti.

In pratica. Se sei all’aperto, il rischio che corri non portando la mascherina o usando solo la chirurgica esiste, ma è minimo. Se invece sei al chiuso (in un negozio, a scuola, in un ufficio, su un treno), è essenziale indossare le mascherine più filtranti (ffp2 e simili), e/o garantire la qualità dell’aria (mediante filtri HEPA, o mediante ventilazione meccanica controllata).

Se questa ricostruzione, basata essenzialmente su studi degli ingegneri, ha fondamento, allora siamo decisamente fuori strada. Ci accaniamo contro assembramenti, pic-nic, movida, vita di spiaggia, tutte attività che avvengono all’aperto, e non facciamo nulla per mettere in sicurezza gli ambienti al chiuso, o quasi al chiuso: uffici, negozi, ristoranti, scuole, università, teatri, musei, aule parlamentari, ma anche bus, tram, metropolitane, treni.

E’ la linea Sgarbi, che da mesi si batte contro la mascherina all’aperto e per dotare gli ambienti chiusi di sanificatori?

Un po’ sì. O perlomeno non è né la linea degli aperturisti selvaggi (apriamo tutto, e buonanotte), né quella delle vestali del lockdown, che non vedono altra strada che quella di rinchiuderci tutti.

In conclusione: è vero che, poiché quasi nulla si è fatto di quel che andava fatto, nel brevissimo periodo ci restano solo mascherine ffp2 e lockdown. Ma forse è anche vero che, a fronte di una campagna vaccinale mal impostata, e ora messa a repentaglio dalla mancanza di dosi, ci vuole un “piano B”. Più che dividerci fra fautori delle riaperture e difensori delle chiusure, dovremmo cominciare a pensare a un nuovo e diverso mix fra le misure da adottare: sanificatori in tutti gli ambienti chiusi; distanziamento, ricambio d’aria e controlli rigorosi sui mezzi pubblici; più libertà per le attività che si svolgono all’aperto; lockdown, brevi e durissimi, solo intorno ai focolai (non più a livello regionale o provinciale, ma a livello comunale, se non di quartiere).

Perché la realtà, è doloroso doverlo registrare, è che non siamo ancora all’ultimo miglio. E il rischio, tanto più concreto se arriveranno poche dosi di vaccino, è che la macchina infernale delle regioni a colori ci accompagni per tutta l’estate.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 aprile 2021




Campagna vaccinale: salvare vite o riaccendere l’economia?

Il primo problema dell’Italia, sul versante sanitario, è che nonostante i notevoli progressi delle ultime settimane la campagna di vaccinazione arranca. E la notizia di ieri, secondo cui Johnson & Johnson dovrà buttare alle ortiche 15 milioni di dosi (per un incredibile errore commesso negli Stati Uniti), non fa che aggravare il quadro. L’ottimismo della volontà ci fa sperare che nei mesi prossimi tutto si aggiusti, ma i dati della campagna vaccinale suggeriscono che, quest’estate, il numero di vaccinati si aggirerà intorno al 50% della popolazione italiana, e non al 70 o 80% come tutti auspichiamo.

Che succederà, a quel punto? Possiamo sperare che, almeno, il numero di morti, che oggi sono circa 450 al giorno, non dico si azzeri, ma scenda a un livello molto più basso? Stiamo facendo tutto il possibile per arrivare a questo risultato minimale?

No, non stiamo facendo tutto il possibile, né nell’immediato, né in prospettiva.

Nell’immediato, stiamo commettendo l’errore più grosso che si può concepire: lasciare indietro gli anziani, che contribuiscono al 90% della mortalità. Sembra incredibile, ma ancora oggi – dopo la somministrazione di circa 11 milioni di dosi – quasi la metà degli over-75 (che sono circa 7 milioni) non è ancora vaccinata, e solo 1 su 5 ha ricevuto entrambe le dosi. In compenso sono stati vaccinati (oltre a medici, infermieri e persone fragili, com’era giusto) ogni sorta di categorie: professori, magistrati, avvocati, giornalisti, personale amministrativo degli ospedali, insieme a legioni di parenti, infiltrati, passanti. E, come spesso accade in Italia, l’indignazione si è scaricata sui singoli “furbetti del vaccino” anziché sulle Regioni che hanno gestito arbitrariamente le dosi, e sul Governo che avrebbe dovuto imporre linee guida tassative e vincolanti: se le istituzioni facessero il loro dovere, con ordine e con serietà, a nessun furbetto sarebbe possibile approfittare della confusione per saltare la fila. Né le cose sono destinate a migliorare a breve, visto che la vaccinazione sui luoghi di lavoro (che pure ha una sua logica, se non altro organizzativa), finché le dosi scarseggeranno non potrà che ritardare ulteriormente la copertura completa dei segmenti vulnerabili della popolazione.

Con questo non voglio certo dire che il continuo aumento dei morti osservato nelle ultime 5 settimane sia colpa delle follie della campagna vaccinale. Se ai primi di marzo avevamo 270 morti al giorno e oggi ne abbiamo 450 è perché per mesi e mesi abbiamo giocato ai 4 colori, baloccandoci nell’ingenua illusione che lo stop and go ci avrebbe permesso di convivere con il virus. Ma è proprio perché quasi nulla di incisivo si è fatto per fermare la circolazione del virus che la carta di una vaccinazione ultra-tempestiva e ultra-selettiva degli anziani non doveva essere sprecata.

Né le cose appaiono più confortanti in prospettiva. La corsa all’accaparramento del vaccino, cui partecipa con entusiasmo la popolazione non anziana, punta dritto alla nobile meta delle “vacanze serene”, non certo al prosaico obiettivo di fermare l’ecatombe di anziani. Di qui l’attesa messianica del passaporto vaccinale, italiano o europeo che sia: l’idea è che, una volta vaccinati, si possa tornare a una vita quasi normale, con conseguente allentamento di restrizioni e limitazioni che metterebbero a repentaglio le lunghe (peraltro meritatissime) vacanze estive. Vista da un marziano, che giudicasse solo dai fatti e non dalle intenzioni, la campagna vaccinale italiana – con la sua dimenticanza per gli anziani e la sua attenzione ad assicurare la mobilità di produttori e consumatori – non somiglia a uno sforzo titanico per ridurre i decessi, ma a una macchina per riaccendere l’economia.

Ma c’è un equivoco: per ora nulla assicura che i vaccinati, oltre ad assicurare a sé stessi una protezione dalla malattia, non contagino gli altri. Detto in termini un po’ tecnici, un vaccino può benissimo essere molto ‘efficace’ (nel proteggere dal virus) e al tempo stesso poco ‘efficiente’ (nel bloccare la trasmissione). Se questo fosse il caso, potremmo persino assistere, nei prossimi mesi, a un ulteriore aumento (o mancata riduzione) dei morti in quanto sarebbero i vaccinati stessi, grazie al falso senso di sicurezza indotto dalla vaccinazione, a favorire la circolazione del virus. E molto mi sorprende che questo interrogativo (i vaccini bloccano la trasmissione oppure no?), sia quasi del tutto espunto dal dibattito pubblico, come se si trattasse di un’eventualità che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione.

E non è tutto. Come hanno talora, più o meno cripticamente, avvertito diversi esperti, l’eventualità che i vaccini non siano sterilizzanti (ossia capaci di bloccare la replicazione e la trasmissione) rende particolarmente insidioso il rischio che la vaccinazione di massa, attuata senza aver prima abbattuto la circolazione del virus, favorisca la formazione di nuove varianti, più trasmissibili e/o più resistenti ai vaccini.

Ed eccoci a un’altra cosa che non stiamo ancora facendo in misura adeguata: potenziare la capacità di sequenziamento dei laboratori italiani. Avere una elevata (e tempestiva) capacità di sequenziamento, infatti, potrebbe diventare il nostro principale strumento di difesa se, il prossimo autunno, dovessero emergere varianti ancora più trasmissibili di quelle attualmente più diffuse in Italia (inglese, brasiliana, sudafricana). A quel punto, non potendo bloccare per l’ennesima volta un intero paese, la nostra unica arma di difesa (a parte nuovi vaccini, che richiedono tempo) diventerebbe l’isolamento tempestivo e totale delle zone in cui emergono le varianti più pericolose.

Viste da questa angolatura, le discussioni attuali sulle riaperture, che qualcuno vorrebbe rimandare a maggio, altri anticipare ad aprile “se i dati miglioreranno”, appaiono completamente fuori strada. Se una cosa è certa, perché ce la insegna l’esperienza degli altri paesi, è che i dati non potranno migliorare in modo apprezzabile prima di un mese o due, e che anche solo l’obiettivo minimale di avere meno di 100 morti al giorno richiede parecchio tempo, o sacrifici che quasi nessuno è disposto a fare, meno che mai con la bella stagione alle porte. Raggiunto il picco dei contagi, nessun paese è riuscito a dimezzarli in meno di un mese. Ma, al tempo stesso, non mancano i paesi che, intervenendo al momento giusto con la necessaria energia, sono riusciti ad abbattere il numero dei casi di oltre il 90% in meno di 2 mesi, a dispetto delle varianti e senza l’aiuto della vaccinazione di massa (in Europa, ad esempio, Irlanda, Portogallo, Danimarca, Islanda).

Ecco perché, a mio parere, la domanda se i dati siano in miglioramento o meno è futile e fuorviante. La vera domanda è: abbiamo quasi 500 morti al giorno, di quanto li vogliamo ridurre prima di riaprire tutto o quasi?

Ma a questa domanda nessuno ha voglia di rispondere.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 aprile 2021




Riaprire le scuole?

Da qualche tempo si riparla di aprire le scuole, o perlomeno le scuole materne ed elementari. Il tema della riapertura delle attività culturali sta particolarmente caro alla sinistra, come quello della riapertura delle attività commerciali alla destra. E’ dunque probabile che, nelle prossime settimane, assisteremo a esperimenti di riapertura su entrambi i fronti.

Ma che cosa ci dicono i dati dell’epidemia?

I dati dell’epidemia parlano purtroppo piuttosto chiaro. Fra le società avanzate, l’Italia continua a primeggiare sia in termini di nuovi casi sia in termini di decessi. Quel che è più grave, però, è il trend: in Italia, come in molti altri paesi avanzati, dopo un periodo di rallentamento dell’epidemia (gennaio-febbraio), è partita una nuova ondata: la terza, dopo quelle di marzo-aprile e ottobre-novembre dell’anno scorso.

Perché, ancora una volta, siamo stati colti di sorpresa? Perché non riusciamo a contenere la circolazione del virus? Perché gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo al collasso?

La spiegazione prevalente, su cui convergono mass media, autorità sanitarie e politici di ogni schieramento, punta il dito sui ritardi della campagna vaccinale. Questa spiegazione trova (apparente) sostegno nel fatto che nei tre paesi che sono più avanti nella campagna vaccinale, e cioè Israele, Regno Unito, Stati Uniti l’epidemia è in ritirata. Ma è una spiegazione fasulla, per almeno due motivi. Primo, perché la inversione delle loro curve epidemiche è avvenuta a gennaio, ben prima del decollo delle campagne vaccinali. Secondo, perché ci sono almeno quattro paesi importanti (Portogallo, Irlanda, Canada, Sud Africa) in cui la campagna vaccinale arranca almeno quanto in Italia ma l’epidemia è in ritirata spettacolare fin da gennaio. In tutti e sette i paesi che abbiamo ricordato l’epidemia è stata riportata sotto controllo nel giro di poche settimane.

C’è anche una spiegazione di riserva, però. Secondo molti la colpa delle difficoltà dell’Italia e di altri paesi starebbe nella diffusione delle varianti, e in particolare di quella cosiddetta inglese. La loro crescente trasmissibilità e letalità sarebbe all’origine della terza ondata, e spiegherebbe l’aumento dei casi e dei morti che stiamo osservando in Italia. Ma, di nuovo, è una spiegazione incompatibile con i dati. La variante inglese si è diffusa innanzitutto nel Regno Unito e in Irlanda, e ciò nonostante entrambi i paesi sono riusciti a far retrocedere rapidamente l’epidemia. Quanto alla variante sudafricana, non ha impedito al Sud Africa di invertire la curva fin dal 12 gennaio, senza alcun aiuto da parte delle vaccinazioni, che sono tuttora abbondantemente sotto l’1% (noi siamo vicini al 15%). Del resto un’analisi statistica più generale, che correla diffusione delle varianti e andamento dell’epidemia, rivela che le differenze nella capacità dei vari paesi di contrastare l’epidemia non dipendono in modo apprezzabile né dalla diffusione delle varianti, né dallo stato di avanzamento della campagna vaccinale.

Spiace doverlo ammettere, ma è inevitabile concludere che quel che ci differenza dai paesi che stanno efficacemente contrastando l’epidemia non è né il ritardo della campagna vaccinale né la diffusione delle varianti, ma sono le nostre politiche e i nostri comportamenti.

In che senso?

In due sensi. Primo, non abbiamo fatto e continuiamo a non fare le molte cose che potrebbero servire a contrastare il virus senza lockdown, dalla messa in sicurezza di scuole e traporti pubblici alle politiche di sorveglianza attiva. Secondo, il nostro lockdown – reso inevitabile dall’inerzia del governo Conte – non è un vero lockdown. Se, usando i dati di mobilità resi pubblici da Google, proviamo a misurare il grado di confinamento effettivamente messo in atto nei vari paesi, scopriamo che nei mesi critici di gennaio e febbraio siamo rimasti a casa circa la metà del tempo dell’Irlanda. Non solo, ma se facciamo una graduatoria dei paesi in base al grado di rispetto del lockdown troviamo ai primi posti precisamente i paesi che più hanno avuto successo nel contrastare l’epidemia: Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Sudafrica, Canada, Israele. In questa graduatoria l’Italia è solo 21-esima (su 36 paesi). Detto altrimenti, l’andamento dell’epidemia nelle società avanzate è strettamente connesso al rispetto delle misure di confinamento, specie nei mesi critici di dicembre-gennaio-febbraio (figura 1).

Né le cose vanno in modo sostanzialmente diverso se, anziché guardare ai comportamenti della popolazione, ci rivolgiamo ai provvedimenti adottati dalle autorità politico-sanitarie. Una comparazione sistematica fra paesi mostra che la misura più efficace nel contenere l’epidemia è stata la chiusura più o meno totale delle scuole, seguita dalla limitazione degli spostamenti sui trasporti pubblici: la capacità di contenimento dell’epidemia migliora man mano che le chiusure delle scuole diventano più sistematiche e generalizzate (figura 2).

Questo, purtroppo, dicono i dati se li si analizza senza pregiudizi (cosa sempre più difficile, stante la spinta bipartisan alle riaperture). Dobbiamo concludere che il lockdown è l’unica strada?

No, il lockdown non solo non è l’unica strada, ma è la strada sbagliata. Il lockdown è semplicemente l’arma dei governi inerti, che a un certo punto se lo ritrovano come unica arma disponibile perché – prima – non hanno fatto nulla o quasi nulla di quel che avrebbero dovuto fare. E’ quel che è successo a noi in autunno (ai tempi della seconda ondata), ed è risuccesso quest’anno, quando – non avendo di nuovo fatto nulla – ci siamo esposti alla terza.

E ora?

Ora è tardi, perché nel governo la linea del lockdown breve ma durissimo, invano caldeggiata da Walter Ricciardi (consulente di Speranza) fin da ottobre scorso, è stata definitivamente sconfitta, a favore di una linea del tipo “apriamo appena possibile”, che tradotto in pratica significa: apriamo appena c’è abbastanza posto negli ospedali e nelle terapie intensive per accogliere i nuovi malati. E’ possibile che questa linea, che già ci è costata almeno 40 mila morti non necessari da dicembre a febbraio, ce ne costi ancora “solo” alcune migliaia in più nei prossimi mesi, perché un miracolo farà improvvisamente decollare la campagna vaccinale, abbassando drasticamente il numero di morti quotidiano, e perché nessuna nuova variante riuscirà ad eludere i vaccini.

Ma è anche possibile che le cose non vadano così, e che una campagna vaccinale zoppicante combinata con un’altra estate incauta ci espongano, a settembre-ottobre, all’arrivo di una quarta ondata, ancora una volta amplificata dal ritorno a scuola. Possiamo, almeno questa volta, sperare che si faccia finalmente qualcosa, e che lo si faccia in tempo?

Ad alcune misure si sta già per fortuna pensando, ad esempio a tamponi e test periodici a studenti e professori. Poco si sta facendo, invece, sulle due misure chiave: garantire il distanziamento sui mezzi pubblici e mettere in sicurezza le aule. Eppure, se si vuole davvero riaprire definitivamente le scuole, sarebbero due mosse cruciali. Perché le misure di sicurezza dentro le scuole non sono sufficienti se il contagio avviene fuori, nel tragitto casa-scuola e ritorno. E, quanto alle misure interne, quella cruciale è garantire la qualità dell’aria, o mediante filtri che la depurano, o mediante impianti di ricambio con l’esterno (il costo sarebbe inferiore a quello sostenuto per i banchi a rotelle).

Speriamo tutti che, quest’autunno, l’epidemia sia sostanzialmente sotto controllo. Ma sarebbe imperdonabile che la prossima stagione fredda, per sua natura favorevole al virus, dovesse trovarci ancora una volta spiazzati, traditi dalla nostra attitudine ad auto-illuderci.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 marzo 2021




Quer pasticciaccio brutto de AstraZeneca

Mentre milioni di cittadini europei, spaventati dalle notizie sui decessi avvenuti dopo la somministrazione del vaccino AstraZeneca, si interrogano sui rischi della vaccinazione, le autorità sanitarie nazionali ed europee aspirano all’impossibile: rassicurare senza fornire i dati completi.

In questo articolo proverò a dire come vede la situazione un sociologo abituato a lavorare con i dati, ma prima di qualsiasi cosa devo fare una premessa. Oggi nel mondo una discussione aperta e disinibita su vantaggi e rischi dei vaccini è possibile solo in una manciata di paesi, e precisamente nei paesi che, avendo sostanzialmente estirpato il virus, sono in grado di scegliere fra avviare e non avviare una vaccinazione di massa. In Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud, sembra che, finora, sia prevalsa la scelta di vaccinare molto poco, non sappiamo se per aspettare di vedere come andranno le cose altrove, o per il timore che proprio la vaccinazione di massa favorisca la formazione di nuove varianti, più trasmissibili e/o più pericolose.

La nostra situazione, in Italia e nella maggior parte dei paesi europei, è del tutto diversa. Noi abbiamo scelto di mitigare l’epidemia, non di sradicare il virus. E avendo scoperto che non siamo in grado né di convivere con il virus, né di sradicarlo, ci siamo trovati di fronte ad un’unica alternativa: quella di avviare una campagna di vaccinazioni di massa in piena pandemia, sperando che basti a sconfiggere il virus, e non provochi guai ancora maggiori. Quindi è normale che politici ed autorità sanitarie, non avendo (o non volendo considerare) le alternative, facciano tutto il possibile per convincerci a vaccinarci, e a farlo con qualsiasi vaccino già autorizzato. Ed è altrettanto normale, ancorché profondamente anti-scientifico, che ogni portatore di dubbi sia visto come disertore, o sabotatore della campagna vaccinale.

Ecco perché è difficile, in questa contingenza, parlare del caso AstraZeneca in modo veramente libero. Ci proverò lo stesso, a partire dalla mia professione, che è quella di leggere i dati con freddezza, senza parteggiare per un’ipotesi contro un’altra.

Riassumo la questione: i casi di decesso dopo una vaccinazione (non necessariamente mediante AstraZeneca) sono o non sono attribuibili al vaccino?

La prima risposta, incontrovertibile, è che una parte dei decessi sono sicuramente non dovuti al vaccino. Ogni giorno in Italia muoiono quasi 2000 persone, di cui circa 1700 per cause diverse dal Covid. Se vaccinassimo un italiano su 10 (è più o meno quel che abbiamo fatto finora), e i vaccinati fossero scelti a caso, osserveremmo circa 170 decessi al giorno fra le persone vaccinate, ed è del tutto logico immaginare che, per puro caso, alcune delle morti che vi sarebbero state comunque avvengano a ridosso del giorno di vaccinazione, e vengano classificate come sospetti effetti del vaccino. E poiché i vaccinati non sono scelti a caso, ma sono prevalentemente vecchi e soggetti fragili, è perfettamente ragionevole attendersi che il numero di decessi per cause indipendenti dal vaccino sia ancora maggiore.

Ed eccoci al punto cruciale: come si fa a sostenere che una parte dei morti dopo la vaccinazione sia morta a causa della vaccinazione? O, ancora più analiticamente, come si fa a sostenere che i (pochi) decessi avvenuti a seguito di determinati eventi avversi (eventi tromboembolici, ad esempio) siano stati causati dal vaccino?

Qui le strade sono due. La strada del medico è lo studio clinico dei singoli casi, anche mediante autopsia. La strada dello statistico è l’analisi dei dati. Se ci sono dati a sufficienza, e se non vengono secretati, si può valutare se in una certa classe di casi (ad esempio le morti per eventi tromboembolici) la frequenza dei decessi fra i vaccinati sia superiore a quella che ci si può aspettare per i non vaccinati a parità di condizioni (ossia per una popolazione che ha la medesima composizione per genere, età, condizioni di salute, eccetera).

Un’analisi di questo tipo, se condotta rigorosamente e con onestà intellettuale, può fornire una risposta al nostro interrogativo iniziale. Risposta che può essere di molti tipi, alcuni rassicuranti altri meno. Può emergere che i decessi dei vaccinati sono di più, e che l’eccesso non è attribuibile a fluttuazioni casuali. Ma può anche emergere che la differenza è imputabile al caso, o non è casuale ma è così piccola da poter essere trascurata. L’esito dell’analisi statistica, in altre parole, può aiutare le autorità nei loro sforzi di rassicurazione, oppure può far emergere verità preoccupanti, che minano la fiducia della popolazione nei vaccini, e costringono quindi le autorità a frenare o rimodulare la campagna vaccinale, magari puntando su altri vaccini.

Insomma: fornire i dati, e fornirli completi, è un’opportunità ma è anche un rischio. Può restituire fiducia alla gente, ma anche legare le mani alle autorità.

Ma qual è la strada finora seguita?

Dipende dai paesi. Ci sono paesi in cui alcune informazioni minime (insufficienti, ma utili) sono note. Per esempio sappiamo che nei primi due mesi della campagna vaccinale il sistema di sorveglianza britannico (basato sulle segnalazioni spontanee, mediante la cosiddetta “yellow card”) ha registrato 227 decessi nei vaccinati con Pfizer, e 275 nei vaccinati con AstraZeneca, e che il tasso di decessi rispetto alle segnalazioni è un po’ maggiore con AstraZeneca. Inoltre, tutti i decessi sono suddivisi fra centinaia di categorie estremamente analitiche, che permettono di conoscere qual è il tipo di evento (ad esempio trombosi) che ha preceduto il decesso.

In Italia, ad oggi, sappiamo molto poco. A quel che ho potuto vedere, il sistema di sorveglianza dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) segnala nei primi due mesi 40 decessi su 4 milioni di vaccinazioni, ma non indica neppure se sono decessi Pfizer o AstraZeneca, né a quale evento avverso è associato ogni singolo decesso. In compenso il rapporto AIFA, non diversamente dall’omologo britannico, è ossessivamente costellato di affermazioni che tendono ad escludere qualsiasi nesso di causa-effetto fra vaccinazione e sospette reazioni avverse.

Che fare?

Le strade sono solo due: continuare nella pratica di non rendere pubblici tutti i dati disponibili su reazioni avverse ed effetti collaterali, così alimentando la diffidenza del pubblico, le perplessità degli scettici, la propaganda No Vax. Oppure mettere a disposizione i dati, tutti i dati. Un tracciato minimo, ma già sufficiente a consentire analisi statistiche accurate, potrebbe includere, per ogni segnalazione: data di vaccinazione, tipo di reazione avversa, data dell’evento avverso, genere, età, tipo di vaccino, lotto, dose (prima o seconda), comune in cui è avvenuta la somministrazione.

L’ideale sarebbe avere queste 9 semplici informazioni (vedi tabella) per ogni soggetto per cui è stata segnalata una reazione avversa, ma sarebbe già un buon risultato averle per il piccolo sottoinsieme dei decessi, o per quello degli eventi tromboembolici. E’ difficile pensare che AIFA non disponga di questo tipo di dati, e sarebbe inquietante scoprire che non è disposta a condividerli.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 marzo 2021