Da Palermo a Napoli: a proposito degli stupri di gruppo

  1. Inferno nel parco verde di Caivano. Vittime sono delle bambine di 10 e 12 anni. Sembrava che il caso di Palermo fosse stato l’ultima storia di stupri. Siamo in un Paese malato?

Sì, ovviamente. Ma in Europa, e più in generale in occidente, sono tanti i paesi in cui i femminicidi, o gli stupri, o entrambi i reati sono più frequenti che in Italia. Anche le civilissime Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Olanda hanno numeri inquietanti. Come la mettiamo?

  1. Già, come la mettiamo?

Forse è giunto il momento di farci la domanda cruciale: non siamo ancora abbastanza civili, o è il nostro tipo di civiltà che rende endemica la violenza sulle donne?

  1. Lei come risponde?

Propendo per l’idea che la nostra civiltà, che si basa sempre più su un mix sbilanciato fra diritti e doveri (tutto a favore dei diritti individuali), sia sempre meno capace di contenere le pulsioni individuali. Abbiamo un bel criticare il patriarcato, ma dimentichiamo che il padre non è solo il maschio-bianco-eterosessuale prepotente che sottomette la povera femmina indifesa, ma è anche il super-io che limita le richieste dell’es. Siamo in una “società senza padre”, come aveva profetizzato Alexander Mitscherlich fin dall’inizio degli anni ’60 con il suo libro omonimo (Verso una società senza padre, uscito nel 1963), e questo significa necessariamente due cose complementari, che non possono andare l’una senza l’altra: più libertà, ma anche meno freni.

  1. Quali sono, a suo parere, i motivi che spingono i giovani verso comportamenti così inspiegabili?

Veramente io non li trovo inspiegabili. Direi anzi che sono spiegabilissimi, e sono solo la punta dell’iceberg. A quel che risulta da alcune indagini statistiche, per ogni stupro denunciato ve ne sono almeno 10 non denunciati. Senza contare tutti i casi di prevaricazione sessuale, ai confini dello stupro. La spiegazione ovviamente non può essere condensata in una formula, ma credo che il fattore più importante, la matrice di tutto, sia la completa mancanza di una “educazione sentimentale”, per usare un termine ottocentesco. Dove per educazione sentimentale intendo un percorso lungo e accidentato di avvicinamento al sesso, un percorso che aveva nel pudore e nell’arte del corteggiamento i suoi caposaldi.

Quello che la mia generazione e quella successiva non paiono aver compreso è che la liberazione da ogni inibizione e da ogni autorità ha ottime ragioni dalla sua parte, ma ha anche un costo. Se i genitori non fanno più i genitori, se la scuola diventa ostaggio delle famiglie, se le istituzioni rinunciano a esercitare l’autorità, certo che si vive in una società più tollerante e meno repressiva, ma non ci si può stupire che una frazione della gioventù sia senza freni, e lo sia molto precocemente. E non importa dove: può essere nei quartieri chic di una grande città, come in una periferia degradata ostaggio della criminalità organizzata

  1. Quanto influiscono i social?

Direi che sono decisivi. I media, piuttosto ingenuamente, parlano della scuola e dell’università come luoghi di competizione sfrenata, dove l’ansia da prestazione divorerebbe una gioventù fragile e infelice, tentata dal suicidio. Non si accorgono che la competizione c’è, ma non è per ottenere buoni voti, bensì per eccellere nel gruppo dei pari, massimizzando il numero di like, facendo circolare video più o meno spinti (il cosiddetto sexting), compiendo gesta clamorose: atti vandalici, risse di strada, scippi, stupri individuali e di gruppo. Ragazzi e ragazze sono sottoposti a una pressione mostruosa per evitare lo stigma di compagni e amici, l’incubo di non essere nessuno.

  1. I ragazzi di oggi sono più violenti di quelli di ieri?

Probabilmente sì, ma io userei un altro termine: direi più spregiudicati.

  1. Le istituzioni cosa possono fare rispetto a quanto si sta verificando?

Qui voi vi aspettate la ricetta del sociologo. Ma, proprio come sociologo, vi rispondo: quasi nulla. Inutile aumentare le pene, se poi lo stupratore non finisce in carcere, o ci resta poco. Patetico dire che deve cambiare la mentalità, che è un problema culturale, che bisogna educare. Educare? Adesso ce ne accorgiamo? C’è bisogno di uno stupro di gruppo per farci accorgere che non lo facciamo più da mezzo secolo?

  1. Non le sembra che il dibattito politico affronti questioni marginali, ignorando le problematiche vere del Paese?

Non credo che le questioni affrontate dalla politica siano marginali, semmai il problema è che le “problematiche vere” (compresa la violenza sulle donne) sono troppe.

[intervista uscita su L’Identità il 27 agosto 2023]




A proposito del caso Vannacci – Il grande boomerang

Per un sociologo come me il caso Vannacci è estremamente interessante. Esso infatti illustra in modo plastico uno dei concetti chiave della sociologia: quello di conseguenze non intese (o non volute) dell’azione sociale (una variante moderna del concetto hegeliano di “eterogenesi dei fini”). Introdotto da Robert Merton fin dagli anni ’30, ripreso e sviluppato da Raymond Boudon negli anni ’70 con la sua teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale, il concetto si riferisce a quelle situazioni nelle quali un’azione, concepita in vista di un certo fine, produce risultati diversi – quando non opposti – rispetto a quelli desiderati.

Nel caso Vannacci è andata così. Il 10 agosto il libro, autopubblicato e acquistabile su Amazon, esce senza particolare clamore. Dopo qualche giorno, però, numerosi media progressisti mettono in atto una delle pratiche meno scientifiche (e meno professionali) del mondo dell’informazione: individuato come nemico un determinato testo, lo si sottopone a una sorta di Tac, o meglio scintigrafia (esame accuratissimo, in grado di individuare le minime anomalie) per isolarne i passaggi più scottanti e discutibili; identificati tali passaggi, li si estrae dal contesto, li si ritocca un po’, e li si dà in pasto all’opinione pubblica, trascurando del tutto le argomentazioni (spesso assai articolate) del libro; dopodiché, incuranti della pubblicità gratuita che così si offre al testo incriminato, si dà inizio alla lapidazione del suo autore, che per giorni e giorni prosegue sulla carta stampata, sui social e in tv.

Risultato: il libro, anziché suscitare l’attesa ondata di indignazione nell’opinione pubblica, balza in testa alla classifica dei libri più venduti, posizionandosi davanti ai libri di Michela Murgia che, anche in seguito alla commozione per la morte della scrittrice, stavano ampiamente dominando le classifiche. Le prime stime suggeriscono che, grazie alla solerte vigilanza dei media progressisti, il generale Vannacci abbia venduto oltre 25 mila copie, con un guadagno di almeno 200 mila euro.

E non è tutto. La immediata reazione delle autorità militari e del ministro della Difesa, che rimuovono il Generale dal suo incarico e avviano un’azione disciplinare, pone le basi per farne un eroe nazionale, o meglio una sorta di “profeta armato” della parte più conservatrice del Paese. In breve: un’azione concepita per screditare un autore, un libro, una concezione del mondo, produce effetti opposti a quelli desiderati, in perfetto accordo con la teoria degli “effetti perversi” dell’azione sociale.

Questa però non è l’unica ragione per cui il caso Vannacci è interessante. Al di là del merito (per pronunciarmi aspetto di aver letto tutto il libro), la questione che si pone è quella dei limiti della libertà di espressione. In quali casi si possono punire le persone per le loro idee? E soprattutto: chi è titolato a punire? Solo la magistratura, o anche i superiori gerarchici di chi esprime idee inaccettabili? E inaccettabili per chi?

Come si vede, è un bel guazzabuglio. E che la questione sia ingarbugliata lo segnala il fatto che, a difesa del generale Vannacci, sono scesi in campo non soltanto esponenti politici di destra, ma anche personalità dell’area progressista: Piero Sansonetti, direttore dell’Unità; Antonio Padellaro, tra i fondatori del Fatto Quotidiano; Enrico Mentana, Direttore del TG La 7; Elisabetta Trenta, ex ministro della difesa durante il primo governo Conte; Marco Rizzo, presidente onorario del Partito Comunista.

Insomma, la questione è davvero aperta e controversa. Quello che la rende tale, a mio parere, è soprattutto una circostanza: l’intervento contro il Generale Vannacci si basa sì sui contenuti del suo libro (definiti “deliranti”, o “farneticanti”), ma non poggia sulla individuazione di alcun reato, né di opinione né di altro tipo, connesso alle idee ivi espresse.

Il punto è importante perché la Costituzione, dopo aver enunciato il principio della libertà di manifestazione del pensiero (articolo 21), è piuttosto precisa nell’indicare i casi nei quali il principio può essere sospeso, a tutela di altri principi che con esso possono confliggere. I casi principali sono l’offesa al buon costume (menzionato nell’articolo 21) e la commissione di un ben circoscritto insieme di reati: minaccia, vilipendio, istigazione a delinquere, calunnia, diffamazione, ingiuria (dal 2016 declassata da reato penale a illecito civile).

Dunque, quello cui ci troviamo di fronte, in questo come in numerosi casi consimili nelle aziende, nelle università, negli apparati pubblici, è un intervento contro la libertà di manifestazione del pensiero che non viene esercitato in sede penale o civile, ma su base per così dire amministrativa, semplicemente lungo la catena di comando di una istituzione. Si punisce, si sospende, si multa, si traferisce, si licenzia un dipendente non perché il suo comportamento sul lavoro va contro una policy, un regolamento, un codice etico, ma perché – al di fuori del lavoro – ha espresso un pensiero che non integra alcun reato ma dai superiori è ritenuto incompatibile con la sua posizione nell’istituzione.

È ragionevole? Forse sì, forse no, ma penso che non possiamo sottrarci alla domanda.




Sul partito di Giorgia Meloni – Il grande abbaglio

La sinistra è spiazzata. Sia pure a denti stretti, ha dovuto lodare l’intervento del governo sugli extra-profitti delle banche. E sul problema dei bassi salari, del lavoro povero, del salario minimo, non ha potuto non prendere atto della disponibilità di Giorgia Meloni ad aprire un confronto costruttivo.

Non è la prima volta che il Governo dà segni di apertura sul versante sociale: era già successo con la Legge di bilancio, zeppa di misure a favore dei ceti bassi, e più recentemente con il taglio del cuneo fiscale per i dipendenti con redditi medio-bassi. Ma è la prima volta che l’opposizione non sa che cosa ribattere. Ai tempi della Legge di bilancio poteva prendersela con la cancellazione del reddito di cittadinanza, con i condoni più o meno mascherati, con le nuove regole sul contante. In occasione del decreto del 1° maggio sul taglio del cuneo fiscale aveva provato a criticarlo perché temporaneo, e perché accompagnato da misure “precarizzanti”.  Oggi non più. Oggi l’opposizione non ha frecce retoriche al proprio arco perché il governo di centro-destra, uno dopo l’altro, le sta soffiando i cavalli di battaglia: riduzione del cuneo fiscale, tassa sugli extra-profitti, lotta allo sfruttamento.

È dunque giunto il momento di chiedersi: come è potuto accadere? Perché l’opposizione non è riuscita a prendere le misure al governo di Giorgia Meloni?

Io credo che la risposta sia semplice da formulare, anche se non semplicissima da spiegare: i partiti di opposizione e il sistema mediatico che li sostiene hanno commesso, fin dalla campagna elettorale dell’anno scorso, un clamoroso e sistematico errore di classificazione nei confronti della coalizione di destra in generale, e del partito di Giorgia Maloni in particolare. Anziché parlare di centro-destra, come avevano fatto dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi in poi, hanno iniziato a parlare di destra-centro, di destra-destra, di estrema destra, quando non a evocare il fascismo. E il bello è che quasi nessuno degli innumerevoli politologi e sociologi della politica che scrivono sui grandi media ha fatto notare l’abbaglio.

Eppure doveva essere chiaro. Il partito di Giorgia Meloni, che si avviava a diventare di gran lunga il primo partito italiano, è il meno a destra dei tre principali partiti che costituiscono la coalizione di centro-destra, almeno finché accettiamo la classica definizione dell’asse destra-sinistra di Anthony Downs e della sua “teoria economica della democrazia” (1957). Secondo questo modo di vedere – che non è l’unico possibile ma è ancora quello più autorevole – il criterio fondamentale per collocare i partiti lungo l’asse destra-sinistra è la quantità di intervento pubblico desiderato: il minore possibile quanto più ci si muove verso destra, e il maggiore possibile quanto più ci si muove verso sinistra. A un estremo la ricetta liberista meno tasse e meno spesa pubblica, all’altro estremo la ricetta assistenzialista più tasse e più spesa pubblica.

Ebbene, basta un minimo di conoscenza della storia di Fratelli d’Italia per rendersi conto che la flat tax non è mai stata una sua bandiera, e che le sue radici stanno semmai nella destra sociale, per la quale l’intervento dello Stato nell’economia a sostegno dei più deboli non è certo un tabù. Sull’asse destra-sinistra quale lo caratterizza la teoria economica della democrazia, Fratelli d’Italia non sta più a destra di Lega e Forza Italia, ma più a sinistra. Ecco perché è stato un clamoroso errore di classificazione quello di descriverlo come collocato all’estrema destra.

Ora quell’errore presenta il conto. Non avendo capito che Fratelli d’Italia non è, come viene ingenuamente dipinto, un partito che aspira a tutelare i ricchi e punire i poveri, l’opposizione si trova a dover fare i conti con uno scenario imprevisto: l’irruzione della questione sociale, resa esplosiva dal caro-vita e dal caro-mutui, in un contesto in cui i partiti più importanti – Fratelli d’Italia, Pd, Cinque Stelle – sono tutti in qualche misura statalisti e interventisti, anche se ciascuno a modo suo.

È questo che ha spiazzato l’opposizione. È su questo che, presumibilmente, si giocherà la partita di autunno.




Umanizzazione del software e professione dello psicologo – L’impero del verosimile

Quando chiacchiero con una psicologa o uno psicologo che esercita la professione (anziché limitarsi a far lezione all’università), immancabilmente registro la medesima credenza: che il paziente, per guarire, abbia necessità di interagire sistematicamente con il terapeuta. Fino a qualche tempo fa, questi discorsi tendevano ad escludere, limitare, o sminuire il ruolo degli psicofarmaci, tipicamente somministrati dai neurologi. Oggi è diverso: lo spettro che si aggira sulle professioni dell’aiuto psicologico non è la concorrenza delle cure neurologiche, ma quella delle applicazioni dell’intelligenza artificiale.

La possibilità che in futuro i pazienti accettino di farsi curare da un chatbot – ossia da un programma che conversa più o meno amabilmente con loro – o da un avatar dello psicologo, che si presenta con il medesimo aspetto del terapeuta ma è animato da un algoritmo soggiacente, non è affatto una eventualità remota. Verso questo esito, infatti,  sospingono e convergono almeno tre grandi processi storici.

Il primo è la crescente tendenza dei pazienti a fidarsi di tutto ciò che trovano in rete, senza la mediazione di operatori umani. Se sei abituato a curare l’insonnia, la gastrite, o il mal di testa consultando direttamente uno degli innumerevoli siti di consigli medici, sei già predisposto ad accogliere con entusiasmo qualsiasi programma che, presentandosi in vesti umane, renda ancora più agevole la tua ricerca di una cura.

Il secondo processo storico è la perdita della capacità di distinguere ciò che è vero da quel che è solo verosimile, o spudoratamente fake. Ma forse sarebbe più esatto dire: la perdita di interesse per la distinzione fra reale e artificiale, fra autentico e artefatto. Se un video è divertente, a nessuno interessa che sia reale o inventato. Se Musk e Zuckerberg, padroni rispettivamente di Twitter e Facebook, si affrontano in un sito archeologico, a nessuno interessa se combattono per finta o per davvero. Se un film piace, a pochi importa che i protagonisti siano attori in carne e ossa, o siano invece attori virtuali generati da un software di grafica 3D (da tempo esiste la tecnologia per far recitare attori scomparsi).

Del resto, è l’evoluzione stessa della tecnologia che rende sempre più velleitaria l’antica pretesa di distinguere il vero dal fake. È dei giorni scorsi la notizia che una donna americana è riuscita a scoprire i tradimenti del fidanzato con un software capace di trasformare la voce della donna stessa in quella di uno specifico maschio: è bastato assumere l’identità vocale di un amico del fidanzato fedifrago per farsi raccontare la scappatella. E basta giocare per qualche ora con ChatGPT per rendersi conto di quanto la produzione di informazioni verosimili ma false stia diventando la norma della comunicazione online.

Il terzo processo che mette a repentaglio il futuro professionale degli psicoterapeuti è il meno facile da intercettare, ma è il più pericoloso. Poco per volta, e per ora in modo appena percettibile, ci stiamo abituando a umanizzare il software, o meglio i personaggi virtuali con cui il software basato sull’intelligenza artificiale cerca di sedurci. Non mi riferisco solo agli assistenti virtuali, come Alexa (Amazon) e Siri (Apple), che da tempo dialogano amabilmente con noi e ci accompagnano nei gesti della vita quotidiana. Il vero “salto di umanizzazione” lo fanno i programmi di intelligenza artificiale che si presentano direttamente come persone, con tanto di sentimenti, capacità di dialogo, amicizia, empatia. È il caso di Replika, un chatbot nato alla fine del 2017 che – a pagamento – può fornire all’utente un partner “romantico”, con tendenza a virare sul sessualmente molesto. Negli Stati Uniti ci sono casi di donne che lo hanno usato per trovare (si può dire così?) il compagno ideale, fino all’innamoramento e alla pagliacciata di celebrare un “matrimonio” con il partner virtuale.

Il punto interessante non è che il chatbot riesca a interagire come un essere umano, che sappia corteggiare, molestare, chiedere foto sessualmente esplicite, ma che milioni di utenti (non si sa esattamente quanti) lo usino, e siano disposti a pagare per farlo passare dallo stadio dell’amicizia a quelli più spinti del corteggiamento, della pornografia, dell’adescamento. In breve: la attribuzione al software di caratteristiche umane, e la connessa disponibilità a impegnarsi in relazioni sentimentali ed emotive con chatbot più o meno spregiudicati, non è un rischio del futuro, ma una realtà perfettamente attuale. Perché accada che lo psicoterapeuta, lo psicanalista, lo psichiatra vengano rimpiazzati da un chatbot-psicologo, meno costoso e sempre a disposizione, non occorre costruire una macchina in grado di provare sentimenti: basta che sempre più esseri umani imparino a credere che lo sia.




Strage di Bologna – Il silenzio degli innocentisti

Nel 43-esimo anniversario della strage di Bologna, suscitano qualche sorpresa due fatti nuovi. Il primo è la dissonanza fra le dichiarazioni dei principali esponenti della maggioranza. Mentre il premier Meloni e il ministro Piantedosi hanno evitato accuratamente di usare l’espressione “matrice neo-fascista”, il presidente del Senato La Russa e il ministro Nordio vi hanno fatto ricorso, sia pure delimitandone la portata in quanto “accertata in sede giudiziaria”.

In realtà, a leggere le dichiarazioni integrali, le differenze non sono poi così clamorose. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno auspicato un pieno accertamento della verità, che si auspica possa emergere grazie alla completa desecretazione degli atti coperti dal segreto di Stato, e (utopisticamente?) grazie al lavoro di una ennesima istituenda commissione di inchiesta parlamentare. È come dire: ok, la verità giudiziaria è quella che è, ma è tutta la verità?

In realtà anche la verità giudiziaria, quale emerge dall’ultima sentenza dell’ennesimo processo (concluso l’aprile scorso), è più sfumata di quel che è apparsa a molti: gli esecutori sarebbero neo-fascisti assoldati per compiere la strage, ma i mandanti sarebbero apparati dello Stato deviati e la massoneria (Licio Gelli e la loggia P2). Dunque, a essere precisi, la matrice della strage è quantomeno composita e, se si deve usare una espressione sintetica e più aderente alla sentenza, forse sarebbe più esatto parlare di “strage di Stato”.

Ma c’è anche un altro fatto nuovo nelle discussioni di questi giorni: il quasi completo venir meno, nei principali media, di ogni dubbio sulla effettiva colpevolezza dei due principali imputati per l’esecuzione materiale dell’attentato, ovvero Francesca Mambro e Giusva Fioravanti. È la prima volta che succede. Eppure in passato i dubbi si sono sprecati, fin dai tempi dello storico appello E se fossero innocenti? firmato nel 1994 da decine di personalità illustri, per lo più collocate a sinistra: ad esempio Luigi Manconi, Sandro Curzi, Oliviero Toscani, Liliana Cavani, Franca Chiaromonte. Per non parlare delle perplessità di Marco Pannella e di tanti esponenti radicali.

Oggi, di quella galassia di persone assalite dal dubbio ho trovato traccia soltanto in Piero Sansonetti (direttore dell’Unità, a quanto pare in conflitto con la sua redazione) e in Mattia Feltri, autore di un (piuttosto) criptico intervento in cui rimpiange la stagione in cui destra e sinistra si parlavano, e prende le distanze dall’invito di Elly Schlein a evitare ogni “tentativo di riscrivere la storia”. A quel che ne so, nessuno di coloro che in passato avevano sollevato dubbi ha ritenuto di intervenire, o di spiegare che aveva cambiato idea e perché.

Perché questa unanimità? Perché questo silenzio? Perché questo muro inespugnabile che viene opposto a chiunque inviti ad andare fino in fondo nella ricerca della verità? Perché la richiesta di togliere il segreto di Stato da tanti documenti non suscita il più largo consenso?

L’unica risposta che riesco a darmi è che il governo è cambiato, e la priorità è diventata mettere in difficoltà l’esecutivo, considerato espressione della medesima cultura politica neo-fascista che sarebbe all’origine della strage di Bologna. Come ai tempi dello stalinismo e della “doppia verità”, la verità che si cerca di affermare non è quella storica, ancora in parte sconosciuta, ma quella utile alla causa, conosciutissima e perfettamente chiara: affinché i conti politici tornino, la strage deve essere di matrice neo-fascista. Ogni dubbio va rimosso. Ogni voce che, anche timidamente, provi a fare qualche domanda va zittita.

Capisco perfettamente che, per i parenti delle vittime, dopo decenni di dolore e di attesa, dopo un calvario di processi e sentenze contraddittorie, una qualche verità sia meglio di una verità forse più vera, ma spostata in un futuro incerto. Ma per tutti gli altri? Per gli studiosi, i giornalisti, i cittadini che vogliono sapere? Possibile che l’etichetta “matrice neo-fascista” plachi ogni desiderio di verità?