Utile una federazione di tutto il centrodestra. Intervista a Luca Ricolfi

Si voterà nel 2023. Il sociologo Luca Ricolfi, studioso di sinistra fuori dal coro del conformismo anti destra, si è fatto un’idea precisa di come sta mutando il quadro politico dopo il Covid e sotto la guida di un governo di unità nazionale che ingloba tutte le forze politiche, tranne Fdi.

Professor Ricolfi, gli ultimi sondaggi indicano che la maggioranza degli italiani torna a fidarsi dei partiti dopo anni di “vaffa” e pulsioni anti casta. È un miracolo di Draghi?
A me sembrano i miracoli di tre anni di governi Cinque Stelle, che alla fine hanno aperto gli occhi un po’ a tutti. Certo, Draghi ha completato l’opera, ma il grosso del lavoro pro-partiti tradizionali l’avevano fatto i disastri dei grillini, dal reddito di cittadinanza allo sprofondamento di Roma sotto il regno di Virginia Raggi.

Le grandi manovre nel centrodestra sulla federazione Lega-Fi preludono a una semplificazione del quadro politico?
Forse sarebbe un bene, ma non mi pare probabile, a meno che la legge elettorale tagli le ali ai partiti sotto il 5%, e renda molto convenienti le aggregazioni. Sul piano tecnico, però, il punto è che una semplificazione è elettoralmente neutrale solo se avviene in entrambi i campi. Se a compattarsi fosse solo il centro-destra, i voti raccolti dal partito unico della destra sarebbero di meno della somma dei consensi ai singoli partiti. E comunque Fratelli d’Italia non ci starebbe: non dobbiamo dimenticare che, come racconta Giorgia Meloni nel suo libro, Fratelli d’Italia è nata precisamente dall’insoddisfazione per l’esperienza del Pdl. Il progetto di una Federazione di tutto il centro-destra è realistico e utile, quello di un partito unico a me pare irrealistico, e un tantino autolesionistico.

Berlusconi sogna un partito unico liberale entro il 2023. Sarebbe positivo il ritorno al grande bipolarismo, attuato in Italia fino alle elezioni del 2008, le ultime che espressero un premier indicato direttamente dagli elettori?
Sì, sarebbe positivo, ma non mi pare che dalla fusione Lega-Forza Italia possa nascere un partito liberale di massa. La Lega di liberale ha ben poco, ed è inevitabile che un eventuale nuovo partito assomigli più alla Lega che a Fi. Semmai quel che la fusione potrebbe portare con sé è una maggiore accettazione della Lega in Europa, a sua volta favorita da un graduale incivilimento del linguaggio (e dei programmi) di Salvini.

Anche il centrosinistra comincia a studiare l’opportunità di aggregazioni, a costo di ripescare il nemico interno Renzi. A quale tipo di contenitore possono arrivare insieme Pd, Italia viva, Leu e le altre formazioni minori?
Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che per il Pd sia molto più facile costruire un fronte anti-destre con la sinistra più massimalista e giustizialista (dai Cinque Stelle a Leu e dintorni) che con i cespugli riformisti, come Italia Viva, Azione, +Europa. Programmaticamente, Calenda mi sembra più vicino a Forza Italia che al Pd. E non sono sicuro che, se fosse costretto a scegliere, preferirebbe andare con un centro-sinistra grillizzato che con un centro-destra federato.

Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia stanno salendo nei consensi di settimana in settimana. Sono i benefici legati al ruolo solitario di opposizione o c’è un elettorato trasversale che si si sta spostando stabilmente all’ala destra?
Una delle poche previsioni elettorali azzeccate che ho fatto in vita mia è che Giorgia Meloni sarebbe arrivata al 20% dei consensi. La feci da Porro, a Quarta Repubblica, circa un anno e mezzo fa, subito prima del Covid. Quella previsione era basata su un’analisi dei programmi e delle proposte di Fdi, che da diversi anni mi appaiono più equilibrate di quelle della Lega (ad esempio in materia di tasse e mercato del lavoro), e più coraggiose di quelle di Fi (ad esempio in materia di immigrazione). Per me, in altre parole, il centro dello schieramento conservatore è Fdi, non certo la Lega. In breve, per venire alla sua domanda, credo che l’essere all’opposizione conti poco, e che a pesare sia il fatto di avere idee chiare (e stabili!) su parecchie cose.

Anche lei avverte la sensazione che l’anomalia dell’Italia tripolare possa scomparire per la continua perdita di consensi del Movimento 5 Stelle?
Sì, anzi direi che l’anomalia è già scomparsa, perché l’eventualità di un governo populista puro non c’è più, da quando Salvini ha smesso di digrignare i denti e il Movimento Cinque Stelle, per non scomparire, si è auto-ridefinito come una costola della sinistra.

C’è ancora spazio per l’ex premier Giuseppe Conte come leader politico dei 5 Stelle o di una formazione nuova?
Temo di sì, per quanto incredibile la circostanza appaia a chiunque conservi un minimo di capacità di giudizio. Conte è un personaggio come Chance, il giardiniere di Presenze (romanzo di Jerzy Kosinski), magistralmente interpretato da Peter Sellers nel film Oltre il giardino. Che sia stato preso sul serio per tre anni, e ancora sia l’interlocutore privilegiato del Pd è una circostanza che mi lascia senza parole.

Professore, si lanci in una previsione: quando si ritornerà a votare per il rinnovo del Parlamento? Nel 2022 dopo le elezioni per il Quirinale o alla scadenza naturale del 2023?
Non ho elementi concreti, ma solo sensazioni. La mia impressione è che il Pd farà di tutto per non anticipare le elezioni, che nel 2022 perderebbe, e per assicurarsi che al Quirinale salga, come di consueto, una personalità vicina alla sinistra (Mattarella-bis subito, poi si vedrà). Dunque: si voterà nel 2023.

Intervista rilasciata a Gabriele Barberis, Il Giornale, il 25 giugno 2021




Variante delta, qualcosa è cambiato

Premetto che posso sbagliarmi, e che il futuro potrebbe rivelarsi – speriamo – più roseo di come io l’immagino. Però penso che non sia opportuno nascondere, o minimizzare, alcuni dati che stanno emergendo negli ultimi tempi riguardo all’andamento dell’epidemia.

Comincio da quel che sta accadendo nel Regno Unito, ossia nel paese europeo più avanti con la vaccinazione. Ebbene, passata l’euforia da riaperture del mese di aprile, da qualche settimana le autorità sono preoccupate perché tutti i principali indicatori dell’andamento dell’epidemia sono in risalita. Negli ultimi 15 giorni sono cresciuti il numero di morti, gli ingressi in terapia intensiva, le ospedalizzazioni, il numero di nuovi casi, il quoziente di positività, nonché il valore di Rt (quest’ultimo abbondantemente sopra 1 da oltre un mese). In breve: a dispetto della campagna di vaccinazione più avanzata del continente europeo, e nonostante il favore della stagione (sole + vita all’aperto), l’epidemia sta rialzando la testa.

Perché?

Difficile attribuire la responsabilità alle timide riaperture di maggio, o alla indisciplina degli inglesi, non certo superiore a quella degli italiani. Secondo la maggior parte degli osservatori, la causa del riaccendersi del contagio è la cosiddetta variante indiana (ora ribattezzata delta, per non offendere gli indiani: ci mancava pure il “vaccinalmente corretto”…), che nel Regno Unito nel giro di pochissimi mesi è diventata largamente dominante (98%). La sua velocità di trasmissione è circa il 60% maggiore di quella della variante inglese, cha a sua volta era del 50% più veloce di quelle dominanti durante il primo lockdown. Alla diffusione della variante ha certamente contribuito il ritardo con cui il governo inglese ha limitato gli ingressi dall’India, e probabilmente anche la scelta (imitata dalle autorità sanitarie italiane) di allungare il tempo fra una dose e l’altra, allo scopo di ampliare la platea dei vaccinati almeno con una dose, senza valutare adeguatamente che il fatto che la protezione assicurata dalla prima dose è sensibilmente inferiore a quella delle due dosi.

Che la variante indiana c’entri con la ripresa dell’epidemia è confermato da quel che sta succedendo in Portogallo, un paese che aveva gestito benissimo l’epidemia a inizio anno, ma che nel giro di pochi mesi è divenuto il secondo paese europeo (dopo il Regno Unito) per diffusione della variante delta (96%). Ebbene in Portogallo, dopo una discesa spettacolare di tutti gli indicatori fra febbraio a maggio, da una decina di giorni la tendenza si è invertita, e quasi tutti sono di nuovo in aumento.

E in Italia?

Da qualche tempo le autorità sanitarie provano a rassicurarci ripetendo che, qui da noi, la variante indiana è marginale (sotto l’1%), e non desta quindi particolari preoccupazioni. Peccato che i dati usati siano un po’ vecchiotti, e che giusto in questi giorni un’analisi del database Gisaid condotta dal Financial Times riveli che la penetrazione della variante indiana nel nostro paese è del 26%, in base all’ultimo aggiornamento dei dati. In concreto questo significa che la sua velocità di diffusione è altissima (meno di due settimane fa la variante delta era ferma al 2.8%), e che nel giro di un mese o due potremmo trovarci in una situazione simile a quella di Regno Unito e Portogallo, con una curva epidemica che tende a risalire nonostante la campagna vaccinale e il caldo. Il che significa: nuovo aumento dei casi, degli ospedalizzati, dei morti, eccetera.

A quanto pare anche una campagna di vaccinazione molto avanzata come quella del Regno Unito non basta a frenare l’avanzata della variante indiana. Ciò peraltro non deve stupire, per (almeno) tre motivi. Primo, anche nel Regno Unito, e a maggior ragione in Italia, una frazione considerevole della popolazione non è vaccinata, o è vaccinata con una sola dose. Secondo, la variante indiana pare più capace di eludere i vaccini. Terzo, le analisi più recenti condotte dalle autorità sanitarie inglesi suggeriscono che chi è vaccinato con una sola dose conservi una elevata capacità di tramettere il virus ad altri, sia con AstraZeneca, sia con Pfizer (per i vaccinati con due dosi non si sa, perché non ci sono abbastanza dati).

Se proiettiamo queste tendenze nel periodo medio-lungo, uno degli scenari che non possiamo escludere è lo scenario del tipo “quasi tutti si infettano – quasi nessuno muore”: la vaccinazione di massa riesce ad abbattere la letalità dell’infezione, ma  non basta a fermare la circolazione del virus. Uno scenario che a molti può apparire rassicurante, ma lo sarebbe davvero solo se fossimo certi che non emergeranno varianti più letali di quelle attuali, e la ricerca medica ci assicurasse che, per i vaccinati, l’infezione non solo non conduce alla morte, ma non lascia danni seri e durevoli a chi si è infettato.

Che dire, in conclusione?

Forse, semplicemente che stiamo ripetendo esattamente gli errori di un anno fa, quando la maggior parte dei paesi occidentali, per rilanciare l’economia, scelsero di assecondare il turismo internazionale, che è benzina sul fuoco di una pandemia.

Oggi quell’errore, ai nostri governanti ma anche a noi comuni cittadini, non appare più tale “perché questa volta abbiamo i vaccini”. Io penso invece che stiamo facendo male i nostri calcoli. Perché è vero che i vaccini abbattono sensibilmente il rischio di ospedalizzazione e di morte per una frazione della popolazione (quella dei pienamente vaccinati), ma è altrettanto vero che i pienamente vaccinati sono solo 1 su 4, e la trasmissibilità del virus è enormemente aumentata rispetto a un anno fa. E’ come se un antico cavaliere pensasse di poter battere l’avversario perché, ora, dispone finalmente di una robusta armatura di ferro, e non si accorgesse che l’avversario non combatte più con la spada, ma con una moderna mitragliatrice.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 giugno 2021




Sta cambiando qualcosa?

Da quando la campagna vaccinale è entrata nel vivo, e la mortalità ha cominciato a diminuire (circa due mesi fa), un sentimento di fiducia e di ottimismo ha progressivamente preso il posto dei fantasmi che ci avevano perseguitato nei mesi precedenti. La speranza di tutti è che le vaccinazioni siano sufficienti a sconfiggere l’epidemia, e che nel giro di qualche mese la vita possa tornare alla normalità, o quasi.

Ma andrà così?

Nessuno può saperlo, per almeno tre motivi. Primo, è impossibile prevedere con quali varianti dovremo fare i conti nei prossimi mesi e anni. Secondo, nessuno è stato ancora in grado di quantificare il rischio di trasmissione da parte dei vaccinati. Terzo, non sappiamo quanti verranno vaccinati, e in particolare se lo saranno anche i bambini.

Dunque la sconfitta del virus è nell’ordine delle possibilità, ma è difficile dire se si tratti di un’eventualità probabile oppure no. I motivi per essere ottimisti non mancano, ma ce ne sono anche per non esserlo affatto.

Un primo motivo di preoccupazione viene direttamente dal Regno Unito, ossia dal paese europeo in cui la campagna vaccinale è più avanti. Lì è da un po’ di settimane che l’epidemia ha smesso di regredire, e anzi alcuni indicatori sono in aumento. I decessi hanno cessato di diminuire, il quoziente di positività (nuovi infetti su test effettuati) è in aumento, e alcune stime di Rt sono prossime a 1.5, un livello quanto mai pericoloso. E’ possibile che la ragione stia nei comportamenti della popolazione, che ha abbandonato troppo presto le cautele, ma è più verosimile che la causa sia la diffusione massiccia (più del 70%) della variante indiana, ancora più contagiosa della variante inglese, che a sua volta era più contagiosa delle varianti precedenti.

E in Italia?

In Italia tutto sembra andare per il meglio: meno morti, meno nuovi casi, meno ricoverati, quoziente di positività in discesa, Rt ampiamente sotto 1. Però ci sono anche alcune ombre.  Il numero dei casi, ad esempio, sta scendendo anche perché si fanno sempre meno tamponi (presumibilmente in quanto ogni Regione compete con le altre per entrare in zona gialla o in zona bianca). Ma il dato più inquietante è la dinamica dei morti: sono scesi in modo regolare e molto pronunciato per 8 settimane, ma nell’ultima settimana hanno bruscamente smesso di diminuire. Può essere una fluttuazione statistica, ma non è detto. Non si deve scordare, infatti, che sulla mortalità al momento agiscono due potentissimi fattori di contenimento: l’aumento del numero di persone vaccinate, l’aumento del tempo trascorso all’aperto. Se, nonostante questi due fattori, il numero di decessi non cala, vuol dire che ci sono importanti controtendenze che elidono i benefici delle vaccinazioni e della bella stagione.

La variante indiana, anche qui da noi?

Direi proprio di no, visto che le stime più recenti la dànno sotto il 3% (contro il 70% del Regno Unito). Molto più plausibile, e confermato dai dati di mobilità di Google, è che lo stallo dei decessi, tuttora compresi fra 50 e 100 persone al giorno, sia dovuto a un genarle abbassamento della guardia da parte della popolazione, rassicurata dal miglioramento degli indici e dal buon andamento della campagna di vaccinazione.

Dobbiamo preoccuparci?

Pe ora non troppo, secondo me. Ma per questo autunno sì. Perché il vero pericolo non è che l’epidemia esploda nell’estate, ma che riprenda vigore non appena il clima sarà di nuovo favorevole al virus. Nulla esclude che il cocktail “autunno + nuove varianti” torni a metterci a dura prova. In quel caso sarà decisivo essere pronti su tutti i fronti che abbiamo lasciato sguarniti fin qui: sequenziamento, tamponi molecolari, cure domestiche, rafforzamento dei trasporti, messa in sicurezza delle scuole.

Ma lo siamo? Stiamo facendo tutto ciò che occorre per evitare di essere presi di nuovo alla sprovvista?

Direi proprio di no. E la cosa più sorprendente è che le forze politiche che, quando  erano all’opposizione, non perdevano occasione per ricordare al governo Conte i suoi ritardi e le sue inadempienze, ora restino sostanzialmente silenti, come se la mera presenza di Draghi bastasse a garantirci una ripresa autunnale sicura, al riparo dai rischi di una risorgenza dell’epidemia.

Pubblicato su Il Messaggero del 12 giugno 2021




Lega e Forza Italia, la fusione fredda

Non appassiona per niente il balletto che, da qualche giorno, Forza Italia e Lega stanno inscenando intorno all’ipotesi di fondersi o federarsi. Ed è giusto così: tutto, infatti, si sta svolgendo senza alcun coinvolgimento di militanti ed elettori, senza alcun vero confronto di idee e programmi, senza alcun dibattito sul futuro dell’Italia e sulle cose da fare.

Che il gioco in atto appassioni solo i parlamentari e le nomenklature di partito non significa, però, che l’esito di tali manovre non abbia ripercussioni anche su di noi.  Quel che accadrà in queste settimane, infatti, cambierà l’offerta politica e, per questa via, potrà produrre conseguenze per tutti.

Vediamo, dunque, di che cosa stiamo parlando. A dar credito alle dichiarazioni ufficiali, la proposta di federare Lega e Forza Italia sarebbe venuta da Salvini, e Berlusconi la starebbe valutando.

Ma è un racconto fuorviante: la realtà è che l’idea di conferire Forza Italia alla Lega risale a due anni fa, e si deve a Berlusconi stesso, che ebbe ad avanzarla in una riunione dei parlamentari azzurri a Palazzo Grazioli. Era il 12 giugno del 2019, Forza Italia veniva da un risultato deludente alle Europee (8.8%), i sondaggi la davano al 6%, e Berlusconi dichiarava: “Forza Italia è destinata a stare con la Lega o attraverso un’alleanza o con una fusione (…). Con Salvini sono in costante contatto. Mi è sembrato interessato a ragionare sull’ipotesi di una federazione di centrodestra”.

Le cronache dell’epoca (2 anni fa esatti) raccontano che, in quella occasione, Berlusconi aveva addirittura calcolato i seggi uninominali conquistabili, e commissionato ben tre sondaggi per la scelta del nome: Centrodestra unito in caso di partito unico, Centrodestra italiano in caso di federazione. Alla fine quest’ultimo nome gli era parso il più promettente, perché i sondaggi gli attribuivano la capacità di aumentare del 25% i voti.

E’ anche il caso di ricordare che, nei due mesi successivi, avvengono alcuni cambiamenti decisivi dentro e intorno a Forza Italia. Il 19 giugno Giovanni Toti e Mara Carfagna vengono nominati coordinatori di Forza Italia, con il compito di riorganizzare il partito e modificarne lo statuto, anche in vista di un congresso da tenersi a settembre.

Non essendo addentro alle faccende di Forza Italia, non ho idea delle ragioni per le quali questa operazione, nel giro di poco più di un mese, ebbe ad incepparsi. Sta di fatto che, già ai primi di agosto del 2019, il piano salta e Giovanni Toti avvia la costruzione di Cambiamo!, piccola formazione politica cui nel tempo aderiranno diversi big di Forza Italia (fra gli altri Paolo Romani e Gaetano Quagliariello), fino alla recentissima confluenza di varie sigle e persone in Coraggio Italia, il partito fondato dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

In breve: il progetto di fusione con la Lega è farina del sacco di Berlusconi, risale a ben due anni fa, ed ha già provocato la formazione di un’area di resistenza alla fusione stessa, area attualmente capeggiata da Toti e Brugnaro.

Ma veniamo al punto. Perché si torna a parlare di fusione?

Difficile rispondere con sicurezza. Per quanto riguarda Berlusconi, la mia sensazione è che, più che la (ingenua?) speranza di essere candidato alla presidenza della Repubblica, conti l’esigenza di sistemare le cose della sua vita, in un tempo in cui la salute è malferma e il futuro è incerto. Forse non è un caso che la prima idea di consegnare Forza Italia alla Lega maturi, un paio di anni fa, in un periodo in cui Berlusconi prepara o conclude altre liquidazioni, come la cessione del Milan ai cinesi, o di Panorama a “La Verità”, o la chiusura della sede romana del Giornale. Insomma: mi pare comprensibile che, non avendo trovato un leader in grado di succedergli, Berlusconi trovi più onorevole mettere il suo suggello a un marchio nuovo di zecca che assistere mestamente al tramonto del suo giocattolo.

Per quanto riguarda Salvini, ci sono almeno tre ragioni, due buone e una meno, per guardare con interesse alla annessione con Forza Italia. La prima è che “a caval donato non si guarda in bocca”, posto che Berlusconi non pare richiedere contropartite significative. La seconda è che la ibridazione con Forza Italia non può che rafforzare  la credibilità della Lega in Europa. La terza è che, agli occhi di Salvini, una eventuale fusione con Forza Italia potrebbe allontanare lo spettro del sorpasso da parte di Fratelli d’Italia, con conseguente passaggio della leadership del Centrodestra da lui stesso a Giorgia Meloni.

Ma è un calcolo ben fondato?

Io ne dubito. Trent’ anni di analisi dei flussi elettorali permettono, infatti, di azzardare due previsioni piuttosto solide: primo, la somma dei voti dei due partiti diminuirà; secondo, i voti perduti resteranno nel centro-destra (secondo la dottrina della “fedeltà leggera”, copyright Paolo Natale).

Dunque la domanda è: dove andranno i voti perduti?

Fondamentalmente verso due destinazioni. La prima è la galassia di centro, dove sarà interessante capire chi sarà più lesto ad acciuffarli (potrebbe essere Coraggio Italia, ma anche Azione di Carlo Calenda, se si posizionerà sufficientemente lontano dal Pd). La seconda destinazione, ahimè per Salvini, è proprio Fratelli d’Italia, che già ha il vento in poppa, e potrebbe trarre ulteriore slancio dall’arrivo di quanti non gradiranno la fusione fredda fra Lega e Forza Italia.

Insomma, se lo scopo è impedire a Giorgia Meloni di assumere la guida del centro-destra, la fusione non sembra l’arma più appropriata. Quanto allo scopo stesso, lo si può ritenere più o meno condivisibile, ma è difficile non vedere che, stante la popolarità della Meloni (di gran lunga superiore a quella di Salvini e Berlusconi), “fermare Giorgia” renderà meno e non più agevole la vittoria del centro-destra alle prossime elezioni.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 giugno 2021




Una lezione di Carla Fracci

Mi è capitato, qualche sera fa, di assistere a una trasmissione televisiva in cui Ritanna Armeni (ex firma del Manifesto) sosteneva, in modo assai accorato, che la propria generazione era stata fortunata, molto fortunata, mentre le nuove generazioni sarebbero sfortunate, molto sfortunate. Questa tesi lasciava alquanto perplessa, per non dire di stucco, la conduttrice Barbara Palombelli (ex firma di Repubblica), che ricordava alla collega che anche per la loro generazione – quella dei cosiddetti baby-boomers – farsi largo nella vita non era stato semplicissimo, e spesso era costato anni e anni di duro lavoro, senza facilitazioni e scorciatoie.

In realtà l’idea che i giovani abbiano diritto oggi a una sorta di risarcimento per il destino cinico e baro cui gli adulti li avrebbero condannati, è molto diffusa. E qualche fondamento ce l’ha pure: non c’è dubbio che, se l’Italia è nello stato penoso in cui si trova, è perché così l’hanno ridotta coloro che l’hanno governata e guidata fin qui.

E tuttavia, di qui a dire che i baby boomers sono una generazione fortunata e i giovani di oggi una generazione sfortunata c’è un salto logico. Quel che è difficilmente controvertibile, perché lo dicono i dati, è che le opportunità di ascesa sociale si sono ridotte, e che passare dai ceti medio-bassi a quelli medio-alti è diventato più difficile. Questo già solo per il fatto che lo stock di posizioni sociali pregiate, che grazie all’industrializzazione prima e alla terziarizzazione poi era impetuosamente cresciuto nei primi decenni del dopoguerra, ha ormai da tempo smesso di espandersi. E anche per una seconda ragione, su cui si preferisce sorvolare: in cinquant’anni lo scarto fra titolo di studio rilasciato e competenze effettivamente acquisite è cresciuto a dismisura, e con esso il divario fra ciò cui un giovane è autorizzato ad aspirare (perché ha il pezzo di carta) e ciò che il mercato del lavoro è disposto a riconoscergli.

Molto più controvertibile, invece, è la tesi che la condizione giovanile sia  sostanzialmente peggiorata. Chi sostiene questa tesi dimentica il dato sociologico fondamentale della “classe disagiata”, mirabilmente descritta da Raffaele Alberto Ventura in un libro di qualche anno fa (Teoria della classe disagiata, Minimum Fax 2017): la possibilità, per molti, di dilazionare le scelte fondamentali e, al tempo stesso, usufruire di un tenore di vita relativamente elevato, con poche responsabilità e molti paracadute. Tecnicamente: una condizione “signorile di massa” che nessuna delle generazioni del passato aveva mai sperimentato.

Detto più crudamente: il lusso di consumare senza lavorare, la generazione dei baby boomers non se lo poteva permettere. Quel lusso, invece, è divenuto una caratteristica distintiva delle ultime generazioni, un lusso che – in questi giorni di riaperture – ha assunto tratti grotteschi allorché migliaia di esercenti, provati da 15 mesi di chiusure e alla disperata ricerca di personale da assumere, si sono sentiti rispondere che loro – giovani e meno giovani – preferivano il reddito di cittadinanza, o addirittura volevano essere assunti in nero per non perderlo (come faccia, in questo contesto, il segretario del Pd a proporre una “dote” di 10 mila euro a metà dei 18-enni è per me un mistero). Una situazione che esisteva già prima, ma che nel dopo-Covid, con l’enorme allargamento dei sussidi intervenuto nell’ultimo anno, ha assunto tratti ancora più patologici, coinvolgendo un po’ tutte le generazioni. Quasi a significare che il “paradigma vittimario”, ben descritto dallo storico Giovanni De Luna in un libro di una decina di anni fa (La Repubblica del dolore, Feltrinelli 2011), fosse ormai il solo registro in cui sappiamo pensarci e riconoscerci.

Naturalmente questo non significa che tutti i giovani consumino senza lavorare, o che non vi sia anche un robusto settore di giovani che lavorano con serietà e impegno (non di rado all’estero!). Ma è certo che il tenore di vita medio dei giovani italiani è oggi nettamente più alto di quello dei loro padri e nonni alla medesima età, e la quota di giovani che non studiano e non lavorano (i cosiddetti Neet), o ancora studiano in età nelle quali si dovrebbe lavorare, è enormemente aumentata rispetto a cinquant’anni fa.

Ed ecco il paradosso: a fronte di condizioni economiche indubitabilmente migliori e privilegiate rispetto a quelle delle generazioni precedenti, la politica e i mass media hanno cucito addosso ai giovani un abito falso e ingannevole, che li dipinge come vittime da compiangere e da risarcire, anziché come persone dotate di autonomia e padrone della loro vita. Come se le generazioni del passato avessero beneficiato di privilegi non dovuti, e come se quel che – nel bene e nel male – hanno costruito fosse stato sottratto alle generazioni attuali. Soprattutto, come se gli obiettivi più alti si potessero raggiungere senza fatica, impegno e duro lavoro, e il successo fosse un diritto da esercitare, anziché un traguardo da conquistare.

Lo aveva capito bene Carla Fracci, figlia di un tranviere e un’operaia, che di sé stessa ha detto: “Sa qual era la mia forza? Sapevo da dove venivo. E volevo farcela. Ecco: decoro, dignità, voglia di fare. Non la rabbia, il disfattismo, l’invidia sociale, non il rancore che oggi è così diffuso”.

Un giudizio severo, su cui varrebbe la pena meditare.

Pubblicato su Il Messaggero del 1 giugno 2021