Ddl Zan, perché Renzi non dice la verità?

Credo che la stragrande maggioranza dei cittadini non abbiano letto un solo rigo del Ddl Zan sull’omotransfobia. Cionondimeno, i sondaggisti parlano degli orientamenti dell’opinione pubblica nei confronti della nuova legge, già approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, come se tali orientamenti avessero qualcosa di reale.

E’ un grosso equivoco. Non perché – in generale – la gente non possa avere un’idea su una legge se non ne ha letto il testo, ma perché c’è legge e legge. Ci sono leggi su cui si può avere un’opinione fondata anche senza averle lette (le chiamerò leggi “sondaggiabili”), e leggi su cui non è possibile avere un’opinione fondata finché non se ne sono compresi bene i meccanismi interni (leggi “non sondaggiabili”).

Perché?

Perché ci sono leggi che, nel loro titolo, indicano anche i mezzi usati per raggiungere un dato fine, e ci sono leggi che indicano solo il fine, senza chiarire i mezzi usati per raggiungerlo. Una eventuale legge di semplificazione del sistema fiscale che introducesse una flat tax al 25%, ad esempio, è una legge sostanzialmente sondaggiabile, perché permette a ciascuno di farsi un’idea di quel che succederebbe se dovesse passare. La legge Zan per la “prevenzione e il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” è invece una legge sostanzialmente “non sondaggiabile”, perché i fini sono chiari (e difficilmente contestabili) ma nulla lasciano indovinare sui mezzi impiegati per raggiungerli.

La discussione sulla legge Zan è complicata per questo. Tutti ne conosciamo le finalità, quasi tutti le approviamo, ma non tutti siamo informati adeguatamente sui mezzi che la legge mette in campo per raggiungere i suoi fini. Su alcuni di questi mezzi (inasprimento delle pene per i crimini d’odio) c’è sostanziale accordo fra tutte le forze politiche, di destra, di centro e di sinistra. Ma su altri mezzi, invece, non tutti sono d’accordo. Le critiche più frequenti si appuntano su tre articoli.

L’articolo 1, che pretende di fissare il significato di termini come sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale, sancendo per legge la possibilità di scegliere il proprio genere in base alla percezione che ognuno ha di sé.

L’articolo 7, che – tra le altre cose – introduce una giornata nazionale “contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia”, senza prevedere alcuna esenzione per le scuole elementari, le scuole cattoliche, e più in generale gli allievi minorenni.

L’articolo 4, che limita la libertà di manifestazione del pensiero se le idee espresse appaiono (a un giudice) “idonee a de­terminare il concreto pericolo del compi­mento di atti discriminatori o violenti”.

La maggior parte delle proposte alternative al Ddl Zan, compresi gli emendamenti dei renziani, si concentrano su questi tre articoli, per sopprimerli o riformularli. Sull’articolo 1 si osserva, anche da parte di autorevoli esponenti del mondo femminista, che lasciare al singolo la libertà di definire il proprio genere può determinare conseguenze inique o pericolose per le donne, come quando detenuti maschi pretendono di trasferirsi nei reparti femminili asserendo di sentirsi femmine, o come quando, con la medesima motivazione soggettiva, atleti maschi pretendono di gareggiare con le donne. Per non parlare dell’accaparramento da parte dei maschi dei benefici del welfare riservati alle donne.

Sull’articolo 7 si osserva che, stante che le credenze del mondo LGBT in materia di stereotipi di genere riflettono solo una delle tante possibili visioni del mondo, nulla assicura che la giornata contro l’omotransfobia non si tramuti, in parte o in tutto, in un tentativo di diffondere tali idee, in aperto contrasto con il comma 3 dell’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 (“I genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”.).

Sull’articolo 4, infine, si osserva che l’articolo 21 della Costituzione prevede che l’unico limite alla libertà di espressione sia la contrarietà “al buon costume”, e che è estremamente pericoloso delegare a un giudice la valutazione della pericolosità di un’idea.

Conclusione. Tutte le principali proposte alternative al Ddl Zan, comprese alcune precedentemente formulate da Ivan Scalfarotto e dallo stesso on. Zan, sono altrettanto incisive nella loro capacità di reprimere i crimini d’odio, e molto superiori nella tutela della libertà di espressione e di insegnamento (oltreché nella protezione del mondo femminile).

Non capisco quindi come Renzi e gli esponenti di Italia Viva possano presentare le proposte alternative come “un compromesso” fra la perfezione immacolata del Ddl Zan e la rinuncia ad avere una legge contro l’omotransfobia. No, la realtà è che le proposte alternative, nella misura in cui meglio tutelano la libertà, sono migliori del ddl Zan da qualsiasi punto di vista ci si ponga, eccetto il particolarissimo punto di vista del mondo LGBT, che ha tutto il diritto di difendere e promuovere le sue idee e la sua visione del mondo, ma non ha alcun titolo per imporla a tutti.

Ecco perché mi auguro che, quando proporrà i suoi emendamenti, Renzi la smetta di nascondersi dietro i rischi del voto segreto, che potrebbe affossare “la migliore delle leggi possibili”, e trovi il coraggio per dire forte e chiaro che quel che Italia viva ed altre forze politiche propongono non è un compromesso al ribasso, ma un miglioramento sostanziale del Ddl Zan.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 luglio 2021




Cultura e salute, interessano solo all’opposizione?

Circa un anno fa, era la fine di giugno, mi presi la briga di scrivere che, per salvare il turismo, stavamo facendo ripartire l’epidemia. Il timore che questo sarebbe potuto accadere mi aveva accompagnato fin dai primi di maggio, ossia da quando il governo Conte aveva dato il via alla stagione delle riaperture. Ma per azzardare quella previsione, poi rivelatasi purtroppo esatta, aspettai che i dati indicassero in modo inequivocabile che la curva epidemica stava svoltando.

Oggi la storia si ripete. Come altri studiosi sono stato perplesso di fronte alle riaperture di aprile, ma fino a non molto tempo fa ho continuato a sperare che avessero torto i profeti di sventura, e che il “rischio ragionato” di Draghi, alla fine, si sarebbe rivelato una scelta lungimirante, o quantomeno una scelta non troppo costosa in termini di salute. Arrivati a questo punto, invece, devo purtroppo gettare la spugna, e ripetere il discorso di un anno fa: per salvare il turismo stiamo riaccendendo l’epidemia.

Che cosa mi ha convinto che le cose si stiano mettendo per il verso storto?

Innanzitutto i dati degli altri paesi. Per molti mesi siamo stati rassicurati sull’efficacia dei vaccini, sulla loro capacità di proteggere dalle varianti e di frenare la trasmissione. Ma ormai l’evidenza che mostra che la campagna di vaccinazione non ferma la diffusione del virus è schiacciante: Israele, Regno Unito, Stati Uniti, Spagna, Portogallo, Danimarca sono tutti più avanti di noi nella campagna vaccinale, ma cionondimeno stanno tutti subendo un’impennata dei casi, con il valore di Rt che supera 1 (e in 5 casi su 6 è già su valori catastrofici). La ragione di questa inversione di tendenza è presto spiegata: tutti questi paesi sono sì ad alta vaccinazione, ma sono anche sopraffatti dalla variante indiana (o delta), che in tutti ha una penetrazione superiore al 40%, e in due casi (presso i primi della classe delle vaccinazioni: Israele e Regno Unito) sfiora il 100%.

Questi dati indicano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che anche la vaccinazione di massa – pur necessarissima e più che mai auspicabile – non è sufficiente a fermare l’epidemia se si permette alla variante indiana di diffondersi oltre una certa soglia, verosimilmente intorno al 30-35%. L’Italia a quella soglia è piuttosto vicina (secondo l’ultima stima siamo al 28.4%), e infatti accusa i primi segni di cedimento.  Da alcuni giorni il quoziente di positività tende a  salire, mentre il valore di Rt è in crescita da un paio di settimane, e si sta avvicinando pericolosamente al valore soglia 1, che separa la regione di sicurezza (Rt<1) da quella di pericolo (Rt>1).

E non è tutto. Nella prima settimana di luglio gli indicatori di diffusione dell’epidemia (numero di positivi, quoziente di positività) suggeriscono che il numero di persone contagiate sia circa il triplo di un anno fa. Detto altrimenti: non solo l’epidemia è in ripresa, ma la base su cui il contagio si espande è sensibilmente più ampia di quella del luglio scorso.

Difficile sfuggire alla conclusione che se, finora, le cose sono andate abbastanza bene non è solo grazie alla campagna di vaccinazione, che sicuramente ha dato una mano, ma è soprattutto a causa della stagione (vita all’aperto e caldo) e a causa del ritardo con cui la variante delta è penetrata in Italia. Quest’ultimo fattore sta già venendo meno, come mostrano le statistiche sulla penetrazione della variante delta. Quanto alla bella stagione, la situazione resterà stazionaria fino ad agosto, ma invertirà il suo corso a partire da settembre. Pensare che la prosecuzione della campagna di vaccinazione basti ad arginare questi processi è un tantino azzardato. Fatta 100 la popolazione vaccinabile (over 15) Israele è all’85% di persone pienamente vaccinate (e già si vede che non basta), noi siamo appena al 40%, con l’aggravante che nella popolazione vaccinabile il peso degli anziani è in Italia molto maggiore che in Israele.

Rispetto a tutto questo, come si stanno muovendo le nostre autorità politiche e sanitarie? Spiace doverlo dire, ma – vaccini a parte – io vedo un solo elemento di reale discontinuità rispetto alla sciagurata gestione dell’epidemia nell’estate scorsa: Draghi ammette che l’epidemia è tutt’altro che vinta, e il ministro Speranza – per quel che è dato sapere – non sta scrivendo un nuovo libro per lodare il proprio operato.

Per il resto non si può non osservare che stiamo ripetendo esattamente gli errori dell’anno scorso sia nella gestione dell’estate, sia nella preparazione dell’autunno.

Sulla gestione dell’estate impera la leggerezza: porte spalancate al turismo internazionale, forze dell’ordine latitanti, riduzione del numero di test (quasi dimezzato rispetto a marzo), imminente riapertura delle discoteche.

Quanto alla preparazione per l’autunno, dall’agenda del governo paiono sparite, ammesso che vi avessero mai trovato posto, le tre mosse fondamentali che potrebbero rallentare e mitigare la corsa del virus nella stagione fredda: rafforzamento del trasporto locale, messa in sicurezza delle aule scolastiche e universitarie, riorganizzazione della medicina territoriale. E fa una certa impressione constatare che il “governo dei competenti” di tutto questo poco si curi, e che a richiamarlo sui pericoli di una ripresa dell’epidemia in autunno debba essere la “estremista” Giorgia Meloni, a quanto pare – su questo – equipaggiata di maggiore senso di responsabilità, o forse semplicemente di maggiore concretezza.

Perché siamo di nuovo a questo punto? Perché la lezione dell’anno scorso non è stata imparata? Perché le autorità si cullano nell’illusione che i vaccini basteranno a fermare l’epidemia, o a renderne sopportabili le conseguenze?

La risposta credo stia, innanzitutto, in ciò che come italiani (e, in buona parte, come europei) abbiamo dimostrato in questo anno e mezzo di Covid: per noi il turismo, le vacanze, il divertimento, la possibilità di spostarci liberamente e senza controlli sono vitali, irrinunciabili. Per queste cose siamo disposti a pagare un prezzo molto alto in termini di salute, di cultura, di istruzione. Diversamente da altri popoli che – come i giapponesi, i coreani, gli australiani, i neozelandesi –  hanno accettato pesanti limitazioni e sacrifici per combattere la pandemia, noi non siamo disposti a rinunciare alle cose che per noi contano. Certo speriamo che in autunno pochi anziani perdano la vita, e che i nostri ragazzi tornino a scuola in presenza, senza la stramaledetta Dad. Ma se questo risultato, che tutti auspichiamo, ha un costo troppo elevato, allora pazienza: ogni lasciato è perso, quindi cominciamo a prenderci le vacanze (dopotutto ce le meritiamo), poi quando arriverà l’autunno si vedrà. Non possiamo certo fare vacanze di serie B per salvare qualche migliaio di vite umane e per restaurare la scuola di ieri.

Io tutto questo l’anno scorso non l’avevo capito, per questo ingenuamente auspicavo che imitassimo i paesi che l’epidemia l’hanno vinta e, accettando sacrifici tempestivi e temporanei, hanno reso meno drammatico sia il bilancio finale dei morti sia quello delle perdite economiche. Per questo ragionavo come se della salute, della cultura e della scuola importasse davvero molto a tutti, politici e cittadini. Per questo ero incredulo di fronte alla nostra incauta estate, e non mi davo pace di fronte all’inerzia delle autorità politiche e sanitarie.

Invece quest’anno mi è chiaro: salute e scuola sono priorità solo a parole, se ci tenessimo davvero ce ne preoccuperemmo adesso, e gestiremmo l’estate in tutt’altro altro modo. E, poiché questa è la realtà, nessun politico, oggi, può chiedere agli italiani di sopportare dei sacrifici, come ebbe il coraggio di fare Berlinguer nel 1977 per salvare il paese dalla bancarotta economica. Oggi è il tempo del debito (debito “buono”, naturalmente), oggi è il tempo della spesa, oggi è il tempo della ripartenza dell’economia, oggi è il tempo del pass vaccinale, oggi è il tempo del campionato europeo di calcio. Per questo è inutile chiedere che per viaggiare si debba essere pienamente vaccinati, per questo è inutile chiedere di fare controlli veri agli aeroporti, per questo è inutile chiedere di contenere gli assembramenti in strada, allo stadio, in discoteca. E’ inutile perché non siamo pronti, non siamo disposti, abbiamo troppo sofferto, sentiamo di aver diritto a un risarcimento.

E allora?

Allora capisco che i governanti non si suicidino, e non ci chiedano di fare ciò che toglierebbe loro popolarità e consenso. Però una cosa penso che potrebbero farla motu proprio, o sotto la spinta di un’opposizione curiosamente più responsabile dell’esecutivo: porci in condizione di limitare i danni quando l’epidemia riprenderà a correre, e nuove varianti metteranno a dura prova i vaccini.

Perché se, ancora una volta, non si faranno le cose che studiosi e opposizione chiedono di fare sui trasporti, sulla scuola, sui tamponi, sul sequenziamento, sulla medicina di base, l’autunno sarà molto duro. Molto più duro di quel che sarebbe se ci preparassimo in tempo.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 luglio 2021




L’autunno dipende dalla partita varianti-vaccini. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, l’anno scorso di questi tempi ci chiedevamo se il mondo dopo il Covid sarebbe stato lo stesso. Lei che risposta si è dato?
Come molti altri, mi ero augurato che il mondo, ferito dalla pandemia, avrebbe saputo riflettere e imparare qualcosa da una esperienza così drammatica. Nel caso dell’Italia, in particolare, mi ero chiesto se, dopo la pandemia, saremmo rimasti una “società signorile di massa” (il mio libro era uscito pochi mesi prima dello scoppio della pandemia).
A un anno e mezzo dall’inizio della crisi constato invece che questo tipo di riflessione, almeno in Occidente, non ha avuto minimamente luogo, e che anzi siamo impegnatissimi a riportare le lancette dell’orologio esattamente al punto in cui – 18 mesi fa – la festa è improvvisamente finita. Prima del Covid eravamo diventati una società signorile di massa, un anno e mezzo dopo lo siamo ancora di più. Come l’estate scorsa, su tutto domina la volontà di rilanciare il modello di vita precedente, basato sul turismo, le vacanze, i divertimenti di massa, il consumo di tempo libero ovunque divenuto sovrabbondante. Vogliamo essere come prima. Anzi più di prima. Le attività legate alla ristorazione si sono moltiplicate, come possiamo vedere a occhio nudo nelle nostre città con la proliferazione di tavolini e dehor che offrono colazioni, aperitivi, pasti, merende, pizze, focacce, panini, kebab. Nei luoghi di vacanza non si trova più posto, e gli operatori turistici non riescono più a fronteggiare la domanda, anche perché non si trovano abbastanza persone disposte a lavorare.
La ripartenza è diventato il nostro mantra collettivo, che ci ripetiamo e ci sentiamo ripetere.

Questa frenesia da ripartenza non potrebbe essere un fenomeno temporaneo? Un rimbalzo, come direbbero gli economisti. Oppure è qualcosa di strutturale?
Secondo me è strutturale, almeno in Italia e in buona parte dell’Occidente. Nel pre-covid mi chiedevo quali altre società avanzate si sarebbero, poco per volta, trasformate in società signorili di massa. Pensavo alla Francia, alla Spagna, alla Grecia, forse anche al Belgio. Oggi vedo il problema in modo completamente diverso: quasi tutto l’Occidente pare avviato a diventare un immenso lunapark, più o meno contornato da importanti arcipelaghi di duro lavoro, spesso affidato agli immigrati.

Tutte società signorili di massa, dunque?
Io intravedo solo due tipi di eccezioni, fra le società avanzate. Una prima eccezione è costituita dai paesi del Pacifico, sia nell’emisfero settentrionale (Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong), sia in quello meridionale (Australia e Nuova Zelanda). Lì la lezione del Covid ha lasciato tracce importanti, in parte durature: chiusura delle frontiere, riduzione della mobilità interna, limitazioni della privacy. Sono società capaci di imparare dall’esperienza, non completamente abbarbicate al proprio modello di sviluppo e ai propri stili di vita.

E la seconda eccezione?
Di questa sono meno sicuro, è solo una congettura. A giudicare però dal modo in cui hanno gestito la pandemia, e da come le cose stanno andando anche adesso, non escludo che i paesi scandinavi, fra i quali includo anche l’Islanda e la Danimarca, possano non evolvere verso il modello iper-consumistico e turismo-centrico dell’Europa e del Nord America. Forse anche aiutate, in questo, dalla tradizione luterana e da una cultura del lavoro ancora forte.

Il lato oscuro di questo iperconsumismo è che si basa sulla leva del debito, privato ma in larga parte pubblico. Ergo sull’assistenzialismo. S’avvera quindi la sua previsione sulla società parassita di massa. Non è preoccupante?
E’ estremamente preoccupante, anche perché nemmeno Draghi ha avuto il coraggio di dire agli italiani la verità: noi il lusso di “seppellire la civiltà del lavoro” (secondo l’efficace formula di Dahrendorf) non possiamo permettercelo. Quando i mercati finanziari rialzeranno la testa, nemmeno super-Mario basterà a evitarci una nuova crisi. Io temo che, alla fine, il ruolo di Draghi non sarà quello di riformare radicalmente il paese, ma semplicemente di assicurare che i soldi che l’Europa ci presta siano spesi in modo dignitoso, e il loro flusso non si interrompa per le nostre negligenze e sciatterie.

Passiamo al lato sanitario dell’epidemia. Continuiamo con l’analogia rispetto all’anno scorso. Il professore Tremonti sostiene che se andiamo a guardare i dati di morti e ospedalizzati, siamo più o meno ai livelli dello scorso anno. Lei che monitora i dati ogni giorno da 16 mesi a questa parte conferma?
Anche se Tremonti ne conclude – pessimisticamente – che stiamo messi come l’anno scorso, e quindi come l’anno scorso avremo delle sorprese in autunno, io penso che Tremonti resti, tutto sommato, ancor troppo ottimista. E’ vero che, se guardiamo i contagi e i decessi, non sembra esservi alcuna differenza apprezzabile fra la situazione di oggi e quella dell’anno scorso.
Ma è ingenuo guardare i contagi, perché il numero di casi diagnosticati è fortemente influenzato dal numero di persone testate, e il numero di persone testate, anziché aumentare (come sarebbe auspicabile), è in costante diminuzione dalla metà di marzo: in 3 mesi e mezzo si è quasi dimezzato.
Ed è ancora più ingenuo guardare il numero di decessi, che sono drasticamente diminuiti essenzialmente grazie alla campagna di vaccinazione, non certo perché il virus circoli di meno che un anno fa. Se vogliamo avere un’idea più realistica della situazione dobbiamo guardare tutti gli indicatori, compresi i ricoverati in terapia intensiva e il quoziente di positività (nuovi casi diagnosticati su 100 persone testate). Ebbene i ricoverati in terapia intensiva del mese di giugno 2021 sono stati il doppio di quelli di giugno 2020. E il quoziente di positività, oggi, è il quadruplo di quello di un anno fa.

Cosa sta facendo il ministero della Salute e il governo per contrastare questa situazione?
Poco, direi, campagna vaccinale a parte. L’unica novità significativa mi pare il tentativo, lodevole ma tardivo, di aumentare i sequenziamenti del virus, ma i risultati per ora sono imbarazzanti. Da un paio di settimane si parla di variante indiana (o variante delta), ma per accorgersi che la variante stava penetrando rapidamente in Italia c’è voluta un’analisi del Financial Times, di cui le nostre autorità sanitarie (e i nostri giornali) si sono accorti con imperdonabile ritardo: negli stessi giorni in cui il FT avvertiva che la variante indiana era ormai sopra il 20% i virologi italiani continuavano a ripetere stancamente le rassicurazioni dell’Istituito Superiore di Sanità, secondo cui la variante era sotto l’1%.

Quali differenze e similitudini fra Draghi e Conte?
Sul piano dell’economia non c’è partita: il governo Conte ha guidato con destrezza e coerenza la trasformazione dell’Italia in una società parassita di massa, con pochi lavoratori veri e un esercito di sussidiati; il governo Draghi sta tentando, timidamente e quando è ormai troppo tardi, di rimuovere alcuni dei tasselli dell’edificio assistenziale eretto del suo predecessore (su tutti: reddito di cittadinanza e blocco dei licenziamenti).
Sul piano sanitario, la differenza fondamentale è che il messaggio estivo di Conte era “stiamo vincendo la guerra contro il virus, siamo i migliori al mondo”, mentre il messaggio di Draghi è “l’epidemia non è finita, ci diamo da fare come gli altri paesi europei”. Ma, al di là di questo, vedo tantissima continuità: discoteche aperte, vacanze a tutto spiano, porti e aeroporti spalancati al turismo internazionale, forze dell’ordine in sordina. E in più: il campionato europeo di calcio.
Ma quel che mi preoccupa di più non è il fatto che Draghi stia facendo le stesse cose di Conte, ma il fatto che, esattamente come Conte, non stia facendo nulla, o quasi nulla, di ciò che andrebbe fatto se vogliamo evitare che la stagione fredda ci trovi ancora una volta impreparati.

Che cosa andrebbe fatto?
Tante cose, su cui la maggior parte della stampa tace, e solo l’opposizione prova a dire qualcosa. Indico solo le più importanti: triplicare il numero di soggetti testati con i tamponi molecolari; impianti di purificazione dell’aria in tutte le aule (a scuola e all’università); sostanziale rafforzamento del sistema dei trasporti urbani; riorganizzazione della medicina territoriale, anche in vista della campagna di rivaccinazione.

Insomma, Draghi immobile come Conte?
Sul piano sanitario sì, vaccini a parte. Quel che è diverso è soltanto che Conte stava fermo perché credeva che l’epidemia fosse in ritirata, mentre Draghi sta fermo perché crede che i vaccini gli toglieranno le castagne dal fuoco.

La vaccinazione non è uno scudo che ci protegge adeguatamente? L’Ema sostiene che tutti e 4 i vaccini, dopo la seconda dose, ci proteggono dalla variante Delta.
Supponiamo per un attimo che sia vero, e che chi si vaccina in modo completo non contragga il virus, non si ammali e non muoia (in realtà è falso, uno studio inglese recente ha dimostrato che, fra i morti con la variante delta, circa il 30% avevano ricevuto la seconda dose da almeno 14 giorni). Resta il fatto che difficilmente la percentuale di persone vaccinate supererà il 70% (in Israele, campione di vaccinazioni, è ferma in prossimità del 60% da ben due mesi). E nel gruppo dei non vaccinati, o dei vaccinati con una sola dose, non vi sono solo bambini, ragazzi, giovani adulti, ma anche anziani che non vogliono o non possono vaccinarsi.
Senza contare il problema delle rivaccinazioni: nel suo ultimo libro (Caccia al virus, Donzelli Editore) Andrea Crisanti solleva dubbi sulla capacità del sistema sanitario nazionale di assicurare, senza ridurre drasticamente la sua operatività, 50 milioni di vaccinazioni all’anno.

Sono tanti i virologi che sostengono che con i vaccini anche la più contagiosa variante Delta alla fine provocherà sintomi simili al raffreddore o all’influenza. Questa tesi non la convince?
Non sono un medico, né un virologo, né un microbiologo, né un infettivologo, quindi non ho gli strumenti per sostenere una tesi diversa. Però so distinguere fra una speranza e un risultato scientifico, basato su un un’evidenza empirica: e quella della riduzione a mero raffreddore o influenza è solo una speranza, nessuno sa quanto realistica.

Quindi le ragioni dell’economia e del turismo faranno ripartire il virus, come lei ha purtroppo previsto l’anno scorso a giugno proprio in un’intervista all’HuffPost?
L’anno scorso ero piuttosto sicuro della mia previsione, perché c’erano dati sufficienti per effettuare calcoli attendibili. Oggi fare una previsione robusta è impossibile…

Come mai ieri si poteva e oggi no?
L’estate scorsa non erano ancora comparse le due incognite fondamentali che rendono incerta qualsiasi profezia oggi: la nascita di nuove varianti, molto più contagiose e/o virulente, e il successo della campagna vaccinale. Se non vi fossero queste due incognite, e stante l’inerzia del governo sulla preparazione alla stagione fredda, mi sentirei di ripetere la profezia dell’anno scorso: per salvare il turismo, stiamo rilanciando l’epidemia.
Ma le due incognite ci sono, e giocano a braccio di ferro tra loro. La campagna vaccinale frena la circolazione del virus, la nascita di nuove varianti la accelera. Chi possa risultare vincitore in questo braccio di ferro nessuno può saperlo. Quel che sappiamo, però, è che se la sfida fra vaccini e varianti dovesse finire in un pareggio, ovvero se le due forze si dovessero elidere a vicenda, allora saremmo fritti.

Perché mai?
E’ molto semplice. Oggi, superficialmente, la situazione è simile a quella di un anno fa, salvo i vaccini e le varianti. Stesso numero di casi, stesso numero di morti. Dunque, se vaccini e varianti si elidono, e nulla si fa per preparare il rientro dalle vacanze, quel che ci potrebbe aspettare è uno scenario non troppo dissimile da quello dell’anno scorso, anche se – verosimilmente – con un mix diverso: più infetti, a causa delle varianti, meno morti, grazie ai vaccini (secondo Mario Menichella, che ha provato a fare i conti: non più di 60 mila morti).
Questo significa che la scommessa del governo è un po’ azzardata: l’autunno e l’inverno potranno essere sensibilmente migliori di quelli scorsi solo se il braccio di ferro fra vaccini e varianti fosse vinto dai vaccini. Il che è possibile, ma tutt’altro che certo.

Ma non si può proprio capire chi è più forte fra la variante delta e i vaccini?
No, non si può capire con i dati che abbiamo al momento. Però una cosa possiamo farla, e certamente la faremo nei prossimi mesi come Fondazione Hume: studiare come evolve l’epidemia nei paesi in cui la variante delta è divenuta dominate, come il Regno Unito, il Portogallo, Israele, gli Stati Uniti. Quel che possiamo dire fin d’ora è che in tali paesi il contagio ha preso a galoppare, con valori di Rt sempre maggiori di 1, ma il numero dei decessi giornalieri – fortunatamente – non presenta ancora una dinamica preoccupante. In breve: la variante delta pare in grado di accelerare la circolazione del virus, anche a dispetto dei vaccini (in tutti e 4 i paesi considerati la campagna di vaccinazione è più avanti che in Italia), ma per ora non sembra produrre effetti apprezzabili sulla mortalità.

La politica è condannata a essere impotente? O qualcosa ancora si può fare? Ci si può mettere contro la spinta della società signorile di massa?
Diciamolo chiaramente: la società italiana è diventata una società signorile di massa e, dopo un anno di Covid, ha mostrato nel modo più chiaro possibile che intende restarlo, a costo di trasformarsi – più o meno lentamente – in una società parassita di massa, meno ricca e spensierata di quello che oggi riesce ancora ad essere.
Rispetto a tutto questo la politica, qualunque politica, e chiunque ci governi, non può nulla. Non perché non si possa gestire diversamente un’epidemia – altrove è stato fatto – ma perché, nelle democrazie, la politica fa ciò che la società le consente di fare. Può fare più o meno bene, massimizzare i danni o minimizzarli, ma sempre entro i limiti che la cultura e la mentalità di un determinato popolo le consentono.
E, anche questo converrà ammetterlo, i limiti che la cultura e la mentalità degli italiani pongono all’azione della politica sono piuttosto stretti. Draghi o non Draghi.

Intervista rilasciata a Gianni Del Vecchio, HuffPost, il 3 luglio 2021




Legge Mancino e competizione vittimaria

Sul disegno di legge Zan contro l’omofobia stanno emergendo tre posizioni. La più infantile è quella del segretario del Pd, che pretende di approvare la legge così com’è, quasi fosse un testo perfetto e non migliorabile. Una seconda posizione suggerisce di eliminare o modificare gli articoli più discutibili (1, 4, 5, 7). Una terza posizione punta sulla sostituzione con altro disegno di legge, come quelli di Zan stesso e Annibali, Scalfarotto-Zan, o Ronzulli-Salvini, tutti testi su cui sarebbe facile coinvolgere anche buona parte dei parlamentari di centro-destra.

Al di là di queste differenze, l’impianto logico comune di tutte le proposte di legge è quello di estendere il campo di applicazione della legge Mancino del 1993, che conteneva “misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica o religiosa”. L’idea è di limitare la libertà di espressione non solo nei casi in cui idee violente e discriminatorie siano basate su motivi “razziali, etnici, nazionali o religiosi”, ma anche nei casi in cui siano riconducibili a motivi fondati su “sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere, disabilità”. In breve: la tutela contro le idee discriminatorie viene assicurata allungando la lista delle categorie protette.

Ebbene, forse è giunto il momento di porci una domanda: non sarà che il difetto stia nel manico?

Detto altrimenti: è ragionevole una strategia che affida la lotta contro la violenza e le discriminazioni alla individuazione di categorie dotate di speciali protezioni?

Secondo me no, per almeno due motivi.

Tanto per cominciare la lista delle categorie meritevoli di una speciale protezione è arbitraria e potenzialmente illimitata. Aggiungere alle appartenenze nazionali, etniche, religiose, il fatto di essere donna, gay, lesbica, bisessuale, transessuale, disabile, non esaurisce certo lo spettro delle categorie che, sulla base di qualche visione del mondo più o meno accreditata, potrebbero aspirare a una speciale protezione. Perché i disabili sì e i barboni no? Forse perché vivere sotto i ponti è una scelta, e dunque se ti pestano a sangue è perché “te la sei cercata”?

Pensiamo al bullismo nelle scuole. Gli estensori del ddl Zan credono che il bullismo prenda di mira solo ragazzini o ragazzine LGBTQ+ (la demenziale sigla, degna delle più ottuse burocrazie, che designa le nuove categorie da proteggere)? Non sanno che, nelle scuole, ad essere presi di mira sono da sempre anche i grassi, i secchioni, i timidi, e ora grazie a internet anche quegli infelici che hanno pochi like e pochi follower?

Ma c’è anche un’altra ragione per cui la strada di moltiplicare le categorie degne di una speciale protezione è pericolosa. Ed è che essa innesca, innanzitutto nell’opinione pubblica, una grottesca “competizione vittimaria”, nella quale non conta nulla il fatto che la vittima sia semplicemente una persona, un essere umano che riceve un’offesa, e diventano cruciali le categorie di appartenenza degli aggressori e delle vittime.

Vogliamo fare degli esempi?

Ve ne sono due recentissimi. La stampa progressista, sempre molto circospetta nel criticare l’Islam, dopo aver snobbato per giorni la (quasi certa) uccisione di Saman da parte dei suoi familiari pakistani, è stata costretta a tornare sui propri passi solo allorché alcune femministe, a partire da Ritanna Armeni, sono insorte facendo notare che la vittima era una donna. La carta “essere donna” è stata giocata contro la carta “essere immigrati” o “essere islamici”, come se uccidere una persona perché non accetta un matrimonio imposto dalla famiglia non fosse un comportamento esecrabile in sé, a prescindere dalle categorie di appartenenza dei soggetti coinvolti.

Secondo esempio: le polemiche (con o senza inginocchiamento dei calciatori) sulla solidarietà a George Floyd, il nero soffocato e ucciso da un poliziotto americano. Gli ostili al movimento BLM (black lives matter: le vite dei neri hanno importanza) non si sono accontentati di ricordare che Floyd aveva parecchi precedenti penali, ed era stato condannato per una rapina a mano armata, ma hanno ritenuto di dover sottolineare che la vittima era una donna, qualche volta aggiungendo persino il particolare (falso) che fosse incinta. Di nuovo: la carta della categoria protetta “donne” contro la carta della categoria protetta “neri”, come se il male commesso nei due casi (l’uccisone e la rapina a mano armata) avesse bisogno di una categorizzazione dei protagonisti per essere pienamente riconosciuto nella sua negatività.

Ma c’è anche un altro elemento, nella discussione del ddl Zan, che forse meriterebbe più attenzione, soprattutto in campo progressista. Le parti più discutibili del disegno di legge sono quelle nelle quali la visione del mondo elaborata da una parte del mondo LGBTQ+ (dico “una parte” perché molte femministe contestano il ddl Zan) viene istituzionalizzata e imposta nelle scuole (articolo 7). Il nucleo di tale visione del mondo altro non è che una versione, particolarmente estrema e settaria, dei dogmi del politicamente corretto in materia sessuale e di genere.  Ebbene, può darsi che il mondo progressista non se ne sia ancora accorto, ma giova ricordare che il politicamente corretto è quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità popolare, e che l’adesione acritica dei democratici americani al politicamente corretto è stata, quattro anni fa, una delle determinanti della sconfitta di Hillary Clinton e della vittoria di Donald Trump.

Detto altrimenti: il fondamentalismo con cui il partito di Letta ha abbracciato le ragioni del ddl Zan “così com’è”, difficilmente aiuterà il Pd a recuperare consenso fra i ceti popolari. E, temo io, ancora più difficilmente aiuterà la giusta battaglia contro ogni discriminazione. Una battaglia che si vince sul piano culturale, non imponendo a tutti la visione del mondo di una minoranza che si sente depositaria del bene.

Pubblicato su Il Messaggero del 3 luglio 2021




Bullismo etico

Quando, nel 1957, il grande politologo americano Anthony Downs pubblica La teoria economica della democrazia, il gioco della competizione politica è ancora pulito. Per lui la differenza chiave fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è che gli uni vogliono meno intervento pubblico nell’economia, gli altri ne vogliono di più. La destra vede l’espansione dello Stato (e delle tasse) come un’ingerenza, che limita la libertà economica, la sinistra vede l’espansione dello Stato (e della spesa pubblica) come uno strumento di redistribuzione della ricchezza, che promuove l’eguaglianza.

Il gioco è pulito perché le due parti competono alla pari. Libertà ed eguaglianza, infatti, non sono l’una un valore e l’altra un disvalore, ma sono semplicemente due ideali distinti in competizione fra loro. Ciò produce una conseguenza logica fondamentale: il rispetto dell’avversario politico. Questo tipo di situazione è interessante perché in essa coesistono due elementi apparentemente inconciliabili: la credenza nei propri valori, e il riconoscimento della legittimità dei valori altrui.

Non è questo il luogo per stabilire quale sia il momento storico in cui il gioco si è rotto, ma credo non possano esservi dubbi sul fatto che oggi, nella maggior parte delle società occidentali, la competizione politica non funziona più secondo lo schema di Downs. Oggi la sinistra non si sente come la rappresentante di determinati ideali, contrapposti a ideali diversi dai propri, ma come la depositaria esclusiva del bene. Di qui il suo peculiare rapporto con l’avversario, che non viene più percepito come il difensore di ideali distinti da quelli progressisti, ma come il difensore di disvalori, o ideali negativi. Dunque, come l’incarnazione del male. Detto ancora più crudamente, e con specifico riferimento alla società italiana: la sinistra pensa di rappresentare “la parte migliore del paese”, contrapposta alla “parte peggiore del paese”, rappresentata dalla destra.

Come è stato possibile?

E’ abbastanza semplice. La mossa chiave che ha permesso di cambiare radicalmente il gioco della politica è stata quella di autodefinirsi come anti-qualcosa. Da un certo punto, che collocherei negli anni ’80, nel mondo progressista al posto degli antichi valori e simboli – l’uguaglianza, la classe operaia, i deboli – hanno progressivamente preso piede due totem definiti negativamente: l’anti-razzismo e l’anti-discriminazione. Essere di sinistra ha significato sempre di meno occuparsi delle difficoltà degli strati bassi, e sempre di più percepirsi come nemici irriducibili dei due (presunti) vizi capitali del nostro tempo: il razzismo e la discriminazione. Il primo, esercitato contro gli immigrati, il secondo contro le cosiddette minoranze LGBT+ (per chi non fosse familiare con l’acronimo: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, eccetera).

Ed ecco fatto: il gioco, che almeno fino agli anni ’70 era rimasto pulito, ora è sporco. Perché se io mi autodefinisco come anti-qualcosa di negativo, allora è automatico che il mio avversario politico sia a favore di quel negativo contro cui io mi batto. E’ un problema logico, più volte messo in luce dal grande filosofo Alain Finkielkraut: l’ideologia anti-razzista crea un’anomalia nella competizione politica, perché se il mio avversario si autodefinisce anti-razzista, io che la penso diversamente da lui divento anti-antirazzista, dunque razzista. E come tale impresentabile, oggetto di riprovazione e disprezzo. Lo stesso, identico, cortocircuito logico si presenta con il problema delle minoranze LGBT+: se i progressisti ne difendono le battaglie, chi quelle battaglie non condivide, o contrasta, passa automaticamente nella schiera degli omofobi, accusato di odio verso le minoranze sessuali e di genere (con curioso slittamento della lingua, visto che “fobia” in greco significa paura, non certo odio). Di qui, infine, il disprezzo dell’avversario politico, che diventa il nemico, che attenta alla causa del bene.

Ecco perché il gioco, oggi, è truccato, non solo in Italia. Chiunque si intesti una causa ovvia, sia essa la lotta contro la mafia, il salvataggio del pianeta, il contrasto del razzismo, e la trasformi in un appello, una petizione, un simbolo, un meme, un messaggio pubblico, si sente autorizzato a pretendere che anche gli altri aderiscano alla sua causa, la sostengano, prendano posizione pubblicamente a suo favore. Chi non lo fa, sia esso un personaggio famoso che non firma, un calciatore che non si inginocchia, un disegnatore che si permette una vignetta irriverente, passa ipso facto nel novero degli incivili, su cui l’establishment degli illuminati si sente in diritto di riversare quotidianamente il proprio disprezzo.

Può accadere così che chi ha delle critiche verso il disegno di legge Zan sia bollato come omofobo e odiatore delle minoranze. Che chi dissente sulle politiche di accoglienza sia tacciato di razzismo e disumanità. E può accadere persino che il segretario di un partito che si crede progressista si permetta di redarguire in tv sei calciatori che hanno osato non inginocchiarsi a comando, facendo mancare il proprio sostegno ad una delle tante sigle che si contendono le decine di cause giuste che competono fra loro per l’attenzione dei media e degli elettori.

Eppure dovrebbe essere chiaro. L’ostentazione della propria adesione a una causa ovvia, accompagnata dalla lapidazione morale di chi sceglie di non aderirvi, non è un modo sano di condurre la lotta politica. Perché la politica – quella vera, non quella degenerata dei nostri giorni – è innanzitutto libertà di espressione, e rispetto della diversità di opinioni, sentimenti, modi di vita. Il resto è bullismo. Bullismo etico, se volete. Ma sempre bullismo, ossia sopraffazione da parte di chi si sente il più forte.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 giugno 2021