Rave party, perché le istituzioni stanno a guardare

Il rave party che, nel comune di Valentano, ha devastato un’azienda agricola, provocato un morto, danneggiato le attività turistiche, messo a repentaglio la salute pubblica, ha giustamente sollevato parecchi interrogativi. Perché il Ministero dell’interno non ne sapeva nulla? Perché, una volta occupata illegalmente l’area, le forze dell’ordine hanno atteso ben cinque giorni prima di intervenire? Perché in Francia (il paese a partire dal quale vengono organizzati la maggior parte dei rave) la legge punisce i rave, mentre in Italia la Corte Costituzionale (con sentenza del 21 luglio 2017) ha ribadito che l’articolo 17 della Costituzione li tutela in quanto manifestazioni della libertà di riunione?

Sono domande giuste e naturali, ma possono anche essere fuorvianti. Se ci facciamo solo questo genere di domande, rischiamo di non cogliere l’aspetto più inquietante di questa vicenda. Che non è che le autorità abbiano chiuso un occhio in questa particolare circostanza, ma che lo stiano facendo sistematicamente da almeno 15 mesi, ossia da quando – nel maggio dell’anno scorso – è terminato l’unico vero lockdown, quello di marzo e aprile 2020.

Da allora la linea è sempre stata la medesima: emettere ogni sorta di obbligo e divieto, e farne rispettare solo alcuni.

Quali?

Fondamentalmente quelli che gravano sul settore privato: bar, ristoranti, palestre, parchi, esercizi commerciali, aziende. Quanto agli altri, che competerebbero all’autorità pubblica, nada de nada: nessun intervento incisivo sull’edilizia scolastica, nessun intervento sul trasporto locale, nessuna sorveglianza sugli assembramenti da movida, festeggiamenti calcistici, discoteche abusive, affollamenti vari sui traghetti, nelle isole, nei luoghi di vacanza. In breve: si è scelto di chiudere un occhio.

Di qui alcune conseguenze, tutte prevedibili. La gente ha capito subito che alcune regole erano grida manzoniane, che si potevano tranquillamente ignorare visto che nessuna autorità si prendeva la briga di farle rispettare. Nel nostro paese, come ha notato Carlo Nordio nei giorni scorsi, è montato un sentimento di ingiustizia, una frattura fra quanti sono costretti all’osservanza scrupolosa delle norme e quanti le possono impunemente trasgredire. E infine, conseguenza capitale, l’inerzia delle autorità politico-sanitarie ha confezionato una bomba a orologeria ad alto potenziale, pronta a deflagrare in autunno.

Poiché non a tutti è chiaro come tale bomba sanitaria sia stata predisposta, mi soffermo brevemente sull’aritmetica dell’epidemia. In un anno, ossia fra l’estate scorsa e oggi, il tasso di letalità del Covid si è ridotto di un fattore 4, grazie all’efficacia dei vaccini nel prevenire ospedalizzazione e decesso; ma il numero di contagiati è aumentato di circa 12 volte, grazie alla scelta politica di puntare sul green pass e chiudere un occhio sul rispetto delle regole. Il combinato disposto di questi due input è la triplicazione del tasso di mortalità: se oggi i morti per abitante sono 3 volte quelli di un anno fa è perché il freno dei vaccini (1/4 di letalità) è stato annullato e sovrastato dall’acceleratore del contagio (cresciuti di 12 volte). Né le cose vanno meglio se ragioniamo sul numero dei ricoveri ospedalieri o sulle terapie intensive, che nel giro di un anno sono circa quadruplicati.

Perché dico che quella che ci hanno preparato è una bomba a orologeria?

La ragione è semplice. Nell’autunno scorso, il disastro è stato innescato dal triplice impulso del rientro dalle vacanze, della ripresa del lavoro, del ritorno a scuola (e verosimilmente pure dall’appuntamento elettorale). Oggi siamo più preparati di allora a fronteggiare il disastro perché 1 italiano su 3 è vaccinato, ma in compenso l’onda che ci travolgerà è molto più alta (circa 12 volte più alta!) perché il virus circola molto di più. E’ come se allora fossimo stati sorpresi da una mareggiata, e oggi ci sentissimo più sicuri perché ci hanno dato un salvagente, e non volessimo capire che quel che è in arrivo è uno tsunami, non una mareggiata.

E qui torniamo alla domanda delle domande: perché non lo vogliamo capire? O meglio: perché chi ci governa ha scelto di non dircelo, e di lasciar correre il virus?

Temo che la risposta sia la stessa che si deve dare alla domanda sul rave di Valentano e sulle innumerevoli altre violazioni su cui, specie in questi mesi estivi, si è scientemente preferito lasciar correre. Ed è una risposta di natura sociologica o, se preferite, di natura storico-antropologica.

Nelle nostre società, ricche e arrivate, il divertimento, la vacanza, l’evasione, il rito dell’aperitivo sono assurti – nella coscienza dei cittadini, non meno che in quella dei governanti – a diritti fondamentali e inviolabili della persona. Nel caso dei giovani, categoria che ormai si prolunga ben oltre il traguardo della maggiore età, questo diritto fondamentale si arricchisce dell’ulteriore diritto a consumare il divertimento in massa, in forme più o meno sfrenate, di cui il ballo e i suoi annessi (alcol e sostanze) sono le manifestazioni più tipiche. Può succedere così che, in tv, una ragazzina milanese di 10 anni affermi, seriamente e senza un filo di ironia, che non andare al ristorante per ben due mesi “è stato terribile”, come se avesse subito un’aggressione o uno stupro. E che decine e decine di giovani intervistati sfilino ogni sera in tv a spiegarci che sì, lo sanno perfettamente che ballare è pericoloso e proibito, ma che loro no, proprio non possono farne a meno, dopo mesi di chiusure, limitazioni, sofferenze inenarrabili.

Eppure dovrebbero sapere che, nella storia dell’umanità e delle civiltà, non è mai esistita una generazione di giovani con tanti privilegi come quelli goduti da quella attuale. Buona parte dei loro padri, nonni e bisnonni dovevano andare in guerra, o iniziavano a lavorare a 14 anni,  non avevano alcuna “paghetta”, né le innumerevoli protezioni, esenzioni e facilitazioni che genitori e insegnanti di oggi riservano a ragazzi e ragazze. In un mondo normale, gli adulti glielo ricorderebbero, e la classe dirigente non spenderebbe il suo tempo a compatirli e a descriverne le indicibili sofferenze. Qualcuno troverebbe il coraggio di spiegare che sì, per tutti è stato ed è difficile, ma certi comportamenti, di cui il rave di Valentano è solo l’esempio più eclatante, hanno un costo tragico in termini di vite umane sacrificate. E che è esistito un tempo, neanche poi così remoto, in cui la maggioranza dei giovani era in grado di divertirsi e corteggiare senza sballarsi.

Quel tempo è finito, ma con esso è finito anche il tempo della solidarietà, una parola vuota che ha perso ogni concretezza e riferimento al mondo reale. Se solidarietà e spirito civico avessero ancora un posto nelle nostre vite, il rispetto delle elementari regole di prudenza sarebbe la norma, i nostri governanti e i media la smetterebbero di adularci (“durante il Covid gli italiani si sono comportati molto bene”), le violazioni delle regole sarebbero sanzionate con prontezza e severità. E forse, in questi giorni, anziché assistere a surreali dibattiti sulla crudeltà del Green pass e l’inaccettabile chiusura delle discoteche, vedremmo fiumi di ragazzi e ragazze, legioni di femministe, cortei di militanti LGBT, sfilare uniti a sostegno delle vittime delle violenze islamiche in Afghanistan. Una tragedia troppo lontana e vera per suscitare qualche emozione in una società arrivata.

Pubblicato su Il Messaggero del 21 agosto 2021




La prova di autunno

L’evoluzione dell’epidemia nelle ultime settimane riserva molte buone notizie, e altrettante cattive. E’ una situazione ideale per il cosiddetto cherry picking, che consiste nel selezionare solo i dati che supportano la posizione che si intende difendere: se vuoi rassicurare, selezioni solo le buone notizie, se vuoi terrorizzare solo quelle cattive.

Proviamo invece a non fare cherry picking, e a riferire sia le buone sia le cattive notizie, cominciando dalle buone.

La notizia più importante è che, fra le società avanzate (e in particolare nell’Unione Europea),  l’Italia è in questo momento uno dei paesi in cui il tasso di mortalità è più basso. Fra i grandi paesi con istituzioni occidentali fanno meglio dell’Italia solo Giappone, Australia e Canada, la Germania è pressappoco alla pari, mentre fanno decisamente peggio Francia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Israele. La circostanza interessante è che Israele, Regno Unito e Spagna hanno vaccinato più di noi, e cionondimeno hanno un tasso di mortalità più alto, nonché una dinamica della mortalità più preoccupante. Difficile spiegare perché, ma il minimo che si possa dire è che, evidentemente, vaccinare a tappeto può non essere sufficiente. Una conclusione supportata anche da un altro caso, piccolo ma significativo: l’Islanda ha vaccinato quasi tutta la popolazione vaccinabile (più ancora di Israele), ma questo non le ha impedito di registrare un’impennata dei nuovi casi non appena – a fine giugno –  ha deciso di riaprire le frontiere al turismo.

C’è anche un’altra buona notizia: il tasso di letalità del Covid (rischio di morire se contagiati) è diminuito sensibilmente rispetto all’anno scorso. Impossibile, con i dati disponibili, stabilire esattamente di quanto, ma è verosimile che la diminuzione sia almeno in parte imputabile ai vaccini (una parte della diminuzione è invece dovuta, banalmente, all’abbassamento dell’età mediana dei contagiati).

Le buone notizie importanti, però, si fermano qui, mentre quelle cattive abbondano.

La prima è che in questa estate la percentuale di persone contagiate, anche tenendo conto del diverso numero di tamponi, risulta molto più alta di quella dell’estate scorsa. Ciò è dovuto, innanzitutto, alle condizioni di riapertura: quando, a maggio, abbiamo riaperto le attività, il numero di contagiati era almeno 5 volte più alto che nel maggio 2020. Di qui una curva epidemica 2021 costantemente più alta di quella del 2020. In concreto ciò ha comportato una sorta di lotta fra le due forze fondamentali che governano l’epidemia: la probabilità di contrarre il virus, molto più elevata che l’anno scorso, e la probabilità di morire una volta contratto il virus (letalità), in discesa grazie ai vaccini.

Ma chi ha vinto?

Purtroppo ha vinto la probabilità di contrarre il virus, che è aumentata più di quanto sia diminuito il tasso di letalità. Noi oggi abbiamo un numero di morti giornaliero che è il triplo di quello di un anno fa, e un numero di ricoverati in terapia intensiva che è addirittura il sestuplo. Certo, qualcuno può provare a rassicurarci dicendo che a morire o finire in terapia intensiva sono prevalentemente i non vaccinati, ma resta il fatto che oggi – a dispetto dei vaccini – si muore molto di più che un anno fa.

La ragione di fondo è che il vaccino, pur efficace nel mitigare il decorso della malattia, non lo è a sufficienza nel limitare il contagio in presenza di una variante ad alta trasmissibilità come la variante indiana (o delta), massicciamente presente in Italia. E, se il numero di contagiati aumenta a ritmi insostenibili come quelli delle ultime settimane (Rt=1.5), anche il numero di decessi è destinato a riprendere la sua corsa, come del resto già si vede dai dati degli ultimi giorni.

Che succederà?

Quello che possiamo dire con ragionevole certezza è che, di qui all’inizio dell’autunno, le principali condizioni che determinano la dinamica dell’epidemia saranno in peggioramento. Il rientro dalle ferie infatti comporta, in successione: minore tempo trascorso all’aperto, trasmissione del virus dai giovani (per lo più asintomatici) agli adulti e agli anziani, maggiori possibilità di contagio a scuola e sui mezzi pubblici, per tacere dei rischi dell’appuntamento elettorale (3-4 ottobre). In breve: l’unica forza in contro-tendenza sarà il completamento della campagna vaccinale.

Così stando le cose è facile prevedere che, ancora una volta, la politica si troverà costretta a ricorrere a chiusure delle attività economiche, limitazioni della mobilità, didattica a distanza. In altre parole: l’ennesimo sacrificio sarà richiesto ai cittadini, e in particolare al settore privato.

Si sarebbe potuto evitare?

Forse sì, ma solo con una politica radicalmente diversa. La politica attuata da entrambi i governi che hanno gestito l’epidemia è stata basata su due pilastri: lasciar correre il virus finché gli ospedali sono vicini al collasso, scaricare sul settore privato i costi dell’aggiustamento. Ma con questi pilastri, domare l’epidemia è semplicemente impossibile, e salvare l’economia diventa difficile.

Il vero problema, infatti, è che cosa succede nella stagione fredda, quando la circolazione del virus non è più frenata dalla vita all’aperto. Non è detto che basterebbe, ma stupisce che quasi nulla si sia fatto per garantire la purificazione dell’aria nelle scuole, per diminuire gli assembramenti sui mezzi pubblici, per coinvolgere i medici di base nella gestione dei malati Covid. Eppure qualcosa si poteva fare, sia l’anno scorso che quest’anno, pensandoci in tempo. Se si fosse fatto qualcosa, i sacrifici richiesti ai lavoratori autonomi e al mondo della scuola sarebbero stati molto minori, e ora potremmo affrontare il rientro dalle vacanze con maggiore tranquillità.

Come mai quasi nulla è stato fatto, nonostante le proposte cruciali su scuola, trasporti e cure domiciliari siano state ripetutamente avanzate sia dagli studiosi, sia dall’opposizione parlamentare?

E’ una domanda alla quale non so fornire una risposta.

Pubblicato su Il Messaggero del 14 agosto 2021




Green Pass, la discriminazione non c’entra

Negli Stati Uniti, da qualche anno, l’accusa di “discriminazione” è divenuta ricorrente, onnipresente, ma soprattutto pervasiva. Di discriminazione si parla ormai sempre più sovente non solo per denunciare trattamenti differenziati in funzione di razza e genere, ma per segnalare qualsiasi disuguaglianza, indipendentemente dai meccanismi che l’hanno prodotta. Quanto all’Europa, la parola discriminazione è improvvisamente venuta alla ribalta nelle settimane scorse in relazione all’obbligo vaccinale (per determinate categorie, come medici e docenti) e al green pass come condizione di accesso a determinati servizi e attività fondamentali (come spostarsi o assistere a una lezione).

Ma che cosa è un atto discriminatorio? E che cosa non può essere ragionevolmente considerato un atto discriminatorio?

Nella tradizione delle scienze sociali il prototipo della discriminazione è l’esclusione, o la penalizzazione, di qualcuno in base a un carattere ascritto, come l’essere di un certo genere o di una certa etnia (non ti assumo perché sei nero, non ti promuovo perché sei donna, eccetera).

Per estensione, si parla di discriminazione quando l’esclusione o la penalizzazione sono semplicemente arbitrarie, ossia non giustificate dal gioco che si sta giocando. In questa accezione più ampia, non occorre che a determinare la esclusione o la penalizzazione sia un carattere ascritto, che il soggetto non può cambiare (genere, etnia, luogo di nascita, eccetera), ma basta che la base della discriminazione sia non pertinente: in un esame di stato da avvocato conta la preparazione, non può contare il fatto che il candidato sia vestito in modo casual o classico, sia gay o eterosessuale, sia bello o sia brutto.

Analogamente, non si può parlare di discriminazione se chi non ha la patente non può guidare un’auto, se un atleta maschio non può gareggiare con una atleta femmina, se un laureato in legge non può aprire uno studio da dentista. In tutti questi casi ci sono delle (ovvie) ragioni di sicurezza, equità, salute, che impongono determinate esclusioni: escludere, di per sé, non implica discriminare.

Ma nemmeno, a rigore, si può parlare di discriminazione per il solo fatto che una categoria è sottorappresentata in determinate posizioni più o meno ambite. Per parlare in modo non ideologico di discriminazione occorre provare che la sotto-rappresentazione sia frutto di abusi o usi distorti delle regole del gioco. Se determinate asimmetrie sono il frutto della divisione del lavoro, delle preferenze individuali, o della logica di determinate attività economiche, parlare di discriminazione è un abuso di linguaggio. Quindi, in questi casi, l’esistenza di una discriminazione è una eventualità da stabilire sulla base di evidenze empiriche, non certo sulla base della sotto o sovra-rappresentazione di determinate categorie.

Può accadere, quindi, che determinati squilibri siano (anche) frutto di discriminazione, e altri non lo siano. Non credo sia difficile dimostrare che vi è un po’ di discriminazione anti-femminile nell’accademia; credo sia difficile dimostrare che vi sia discriminazione antifemminile in ambito politico; credo sia impossibile dimostrare che vi sia discriminazione anti-femminile nell’assegnazione delle medaglie Fields (equivalenti al Nobel) della matematica.

E’ anche per queste ragioni che nelle società liberal-democratiche che ancora credono  nell’eguaglianza delle opportunità, la politica delle “quote” a favore di specifiche categorie come le donne, i neri, o altre etnie e gruppi può legittimamente essere considerata contro-discriminatoria, nella misura in cui impone un handicap ingiustificato a chi non fa parte delle categorie protette.

E il green pass? E’ discriminatorio pretendere la vaccinazione (o il tampone negativo) per esercitare diritti fondamentali come spostarsi, assistere a una lezione, e persino lavorare? E’ giusto che chi non vuole vaccinarsi, o non può permettersi tamponi ad ogni piè sospinto, sia fortemente limitato nelle sue libertà?

La mia riposta è che forse è ingiusto, ma non è “discriminatorio”. La discriminazione è una esclusione (o penalizzazione) arbitraria di una specifica categoria di persone pre-esistente. Se dico che chi non vuole prendere la patente non può guidare un’auto non sto discriminando la categoria dei “renitenti alla patente”, sto solo dicendo che per accedere a certi diritti (guidare un’auto) ci vogliono certi requisiti, più o meno sensati. I presunti discriminati sono semplicemente coloro che non intendono prendere la patente.

Il fatto che sia alquanto improprio parlare di discriminazione, però, non implica affatto che la richiesta di una patente (il green pass) per restare normali cittadini sia giustificata. Una norma può essere sbagliata, o eccessiva, senza essere discriminatoria. E’ il caso delle norme che non sono proporzionate rispetto agli scopi che si prefiggono.

Facciamo un esempio innocente: il limite di velocità in autostrada. A nessuno viene in mente che il limite di 130 sia discriminatorio verso gli italiani (parecchi milioni) che si sentono Niki Lauda e vorrebbero correre più forte. Però, se le nostre autorità ponessero il limite a 90 km all’ora adducendo l’argomento che così si risparmierebbero un sacco di morti sarebbe lecito chiedere loro se il costo per l’economia e per la qualità della nostra vita non sarebbe eccessivo. E, viceversa, se alzassero il limite a 180 km l’ora per lasciarci più liberi di scorrazzare sarebbe lecito chiedere loro se il costo in morti e feriti per incidenti stradali non sarebbe eccessivo.

La questione del green pass è molto più complessa e complicata, ma dal punto di vista logico è analoga a quella dei limiti di velocità: è un problema di bilanciamento fra salute e diritti individuali. Dove la complessità risiede in tre nodi inestricabili.

Primo, l’importanza relativa che ciascuno di noi dà alla protezione della salute e alla difesa dei diritti individuali varia da persona a persona, anche a seconda della sua condizione oggettiva (essere percettori di reddito fisso oppure no).

Secondo, l’entità del rischio che corriamo (varianti future ed efficacia delle misure di contenimento) è sconosciuta, e nessuno scienziato è in grado di valutarla con ragionevole approssimazione.

Terzo, allo stato attuale delle conoscenze, l’efficacia delle restrizioni connesse al green pass è impossibile da calcolare in modo affidabile.

E’ facile rendersi conto che, con un tale spettro di incertezze, la tenzone fra favorevoli e sfavorevoli al green pass non è razionalmente decidibile. Una cosa però la possiamo dire: la discriminazione non c’entra.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 agosto 2021




Covid, perché questa Babele informativa?

Che ci sia un conflitto fra favorevoli e ostili alla vaccinazione sta nell’ordine delle cose. Nessuno, infatti, può prevedere completamente le conseguenze delle varie linee di condotta possibili. Inoltre, anche ammesso che tutte le conseguenze siano accuratamente prevedibili, non esiste alcun punto di equilibrio ovvio fra i “beni” che si vogliono tutelare: salute, diritto al lavoro, socialità, libertà di movimento, democrazia, eccetera. E infatti siamo divisi fra quanti ritengono che stiamo dando troppa importanza alla salute, e quanti ritengono che ne stiamo dando troppo poca. Può succedere così che, su certi punti (green pass), Giorgia Meloni sembri pensarla come il filosofo Cacciari, e su altri (obbligo di vaccinazione per i lavoratori) Salvini sembri pensarla come il capo della Cgil Landini.

Questo stato di anarchia del pensiero non deve sorprenderci troppo. Le società democratiche sono per loro natura iper-pluraliste e, quanto alla comprensione del virus e dell’epidemia, le scienze medico-sociali operano con margini di incertezza fortissimi.

E tuttavia c’è, nel modo confuso e cacofonico in cui parliamo di pandemia, vaccinazione, libertà, economia, qualcosa di non ovvio e non giustificato: la proliferazione di credenze false e di tesi tendenziose. Perché è vero che sono tantissime le cose che non sappiamo, ma sono anche parecchie – e importanti – le cose che sappiamo, o di cui siamo ragionevolmente sicuri. Quello cui assistiamo, invece, è la diffusione, anche da parte delle autorità politiche e dei mass media, di informazioni poco chiare, ambigue, fuorvianti, talora semplicemente false. Sicché oggi non esiste un minimo comune denominatore di informazioni condivise da tutti o, perlomeno, dalla stragrande maggioranza della popolazione.

Vorrei fare tre esempi.

Primo: i completamente vaccinati possono infettarsi?

Molti credono di no. E c’è persino chi dice che, poiché sono protetti dalla vaccinazione, i vaccinati non possono imporre alcuna restrizione nei confronti dei non vaccinati (se sono vaccinato, non posso temere il contatto con un non vaccinato). Non solo: se sono immune in quanto completamente vaccinato, non ho alcun bisogno – per proteggermi – di usare la mascherina, né all’aperto né al chiuso.

Bene, questa è una credenza falsa, e lo sappiamo non da ieri, ma fin dall’inizio della campagna vaccinale. Perché è così diffusa? Perché così raramente viene detta la verità, e cioè che il vaccino protegge dall’infezione molto meno di quanto protegga dalla morte o dall’ospedalizzazione?

Fondamentalmente perché pensare di essere invulnerabili è rassicurante (per i vaccinati). E forse anche perché le autorità politico-sanitarie hanno ritenuto che esaltare le virtù del vaccino avrebbe favorito la campagna vaccinale e la ripresa dell’economia, e poco hanno badato alla ovvia obiezione: se non dici tutta la verità sui limiti dei vaccini, i vaccinati prenderanno la palla al balzo per abbassare la guardia.

Secondo: anche i completamente vaccinati, se positivi, possono contagiare gli altri?

Gli scienziati, in modo sostanzialmente unanime, rispondono di sì, aggiungendo che – fortunatamente – il contagio dovrebbe verificarsi con minore probabilità. Il premier Draghi, invece, dice di no, pensando di rassicurare tutti, vaccinati e no. Forse il retropensiero è che se si dicesse verità (anche i vaccinati possono contagiare) la distinzione fra i buoni (vaccinati) e i cattivi (non vaccinati) sarebbe meno netta, e la campagna vaccinale rischierebbe di perdere appeal.

Terzo: siamo a un passo dall’immunità di gregge?

Molti politici (ultimo in ordine di tempo: l’assessore alla sanità del Lazio) credono o fingono di credere di sì. Anche alcuni giornalisti, particolarmente solerti nel promuovere la campagna vaccinale, ne sembrano convinti.

Invece no. Per qualsiasi epidemiologo dotato di una calcolatrice da tavolo è evidente che, con la variante delta e i vaccini attuali (che non sono sterilizzanti) è praticamente impossibile. Se R0 è vicino a 7, si dovrebbe vaccinare con vaccini sterilizzanti (che non abbiamo) almeno l’85% della popolazione, obiettivo chiaramente irraggiungibile senza un vaccino per i bambini e senza obbligo vaccinale.

Che cosa hanno in comune queste tre false e assai diffuse credenze?

Essenzialmente una cosa: ci rassicurano, perché nascondono i lati più inquietanti dell’epidemia. Ma perché nasconderli?

Non lo so. Forse per non rattristare le nostre vacanze. Forse per prolungare il più a lungo possibile il periodo di apertura delle attività. Forse per darci una speranza nel futuro.

Io però vedo anche un’altra spiegazione, meno tranquillizzante. Forse il governo, sulla gestione dell’epidemia, si è già rassegnato a ripetere il film dell’anno scorso, quando il governo Conte scelse di non intervenire durante l’estate e di non preparare in alcun modo il rientro dalle vacanze. Il mix era ed è chiarissimo, ieri come oggi: tamponi insufficienti, nessuna messa in sicurezza delle scuole, nessun rafforzamento del trasporto locale, nessuna riorganizzazione dell’assistenza domiciliare, nessuna app (funzionante) per il tracciamento elettronico dei contatti. Tutte cose che richiedono molti mesi, e non possono certo essere realizzate all’ultimo momento, per di più in agosto.

Con un’importante differenza, fra oggi e ieri. Oggi la politica può brandire l’arma del vaccino, e ha assoluto bisogno di farci credere che basterà a fermare l’epidemia (o a trasformarla in un incomodo con cui potremo convivere), e che se le cose andranno male sarà essenzialmente colpa nostra, che non ci saremo vaccinati in numero sufficiente.

Purtroppo, però, la differenza fra il rientro di quest’anno e quello dell’anno scorso non è solo il vaccino ma è la variante delta, molto più trasmissibile di quelle prevalenti un anno fa (R0 vicino a 7, anziché vicino a 3). E non è tutto: se compariamo il luglio di quest’anno con il luglio dell’anno scorso dobbiamo registrare che il numero di soggetti contagiati è circa 5 volte quello di un anno fa, e il valore di Rt è drammaticamente più alto (prossimo a 1.5, un valore catastrofico, mentre un anno fa fluttuava nei pressi di 1).

Insomma, tutti gli indicatori segnalano che la quarta ondata è in corso dai primi di luglio. La campagna vaccinale è, colpevolmente, l’unica vera arma messa in campo. Usiamola, ma per favore smettiamola di demonizzare i dubbiosi e diffondere incertezza con informazioni false, incomplete, distorte, ambigue. Potrebbe essere proprio una migliore informazione, che non nasconde le ombre e le incertezze della scienza, l’arma vincente per convincere non tanto i pochi Novax (che non sentono ragioni), ma il popolo degli indecisi, che vogliono capire e decidere per il meglio.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 luglio 2021




Vaccini, ultima carta

Fino a qualche settimana fa speravo ancora in un cambio di strategia nella lotta contro il virus. Oggi non più. Oggi è evidente che la politica, tutta la politica, ha gettato la spugna. I segnali sono chiarissimi.

Sul versante europeo, innanzitutto. L’accordo su green pass e voli internazionali, secondo cui le compagnie aeree avrebbero dovuto assicurare i controlli, è stato una perfetta presa in giro. La stragrande maggioranza dei passeggeri non vengono controllati né alla partenza né all’arrivo, il che può significare solo due cose: le regole stabilite dalle autorità europee non erano vincolanti, oppure lo erano ma non prevedevano sanzioni.

Le cose non vanno meglio sul versante italiano. I tamponi sono la metà di quelli che si facevano a marzo; da ben 3 settimane l’Rt galoppa al di sopra di 1; da qualche giorno il numero di casi giornalieri ha oltrepassato la soglia (circa 4000 al giorno) che consente il tracciamento. Per tutta risposta il governo sta cambiando i parametri di allarme, puntando sulle ospedalizzazioni (che sono ancora poche, per fortuna) anziché sull’indice di trasmissione Rt e sul numero di casi (incidenza settimanale), che invece stanno crescendo a un ritmo preoccupante e, con le vecchie regole, costringerebbero a far passare alcune regioni in zona gialla. Dunque lo scenario è chiaro: si cercherà di tirare a campare fino a Ferragosto per salvare il turismo, poi, quando saremo arrivati a 30 mila casi al giorno (così dicono le proiezioni), improvvisamente si scoprirà che dobbiamo chiudere tutto il chiudibile.

E a quel punto?

A quel punto, come l’anno scorso, avremo elezioni e ritorno a scuola. E poiché nel frattempo nulla è stato fatto né sul versante del trasporto locale, né su quello della messa in sicurezza delle scuole (per non parlare della riorganizzazione della medicina territoriale), sarà difficile evitare un’ulteriore esplosione dei contagi, anche agevolati dalla fine della bella stagione e della vita all’aperto.

Dunque, non nascondiamocelo: vaccini e green pass a parte, poco si sta facendo per arginare l’esplosione dei contagi. E la scuola non è affatto “una priorità assoluta”, come vorrebbe farci credere il ministro Speranza, ma è l’agnello sacrificale che, per il secondo anno consecutivo, immoliamo in nome del sacro diritto alle vacanze e alla ripartenza.

Detto questo, però, la domanda resta: che fare per limitare i danni?

Spiace essere tranchant, ma – dal momento che le autorità sanitarie hanno deciso, a dispetto della pericolosità della variante indiana, di lasciar correre il virus – non si può che concludere che siamo soli, completamente soli. E ci resta un’unica cosa da fare: provare a limitare i danni vaccinando noi stessi e convincendo gli altri a fare la stessa cosa. La possibilità di scegliere serenamente fra vaccinarsi e non vaccinarsi è un privilegio riservato ai cittadini dei paesi – quasi tutti non europei – in cui l’epidemia è sotto controllo.

Il vaccino, infatti, è l’unica vera arma che ci resta in una situazione in cui, per mille ragioni, si è deciso di rinunciare a usare altre armi, perché giudicate troppo costose o complicate.

Quali sono i vantaggi del vaccino?

Sono essenzialmente tre, uno di tipo altruistico, gli altri due di tipo egoistico.

Il vantaggio altruistico è che le persone vaccinate, pur potendo trasmettere il virus, lo fanno in misura considerevolmente minore. Una persona vaccinata è meno pericolosa per gli altri di una persona non vaccinata. Questo significa che, più persone si vaccinano, più lentamente circola il virus. Il rallentamento indotto dal vaccino, dunque, può controbilanciare (anche se solo in parte) l’accelerazione indotta dalla variante delta.

E veniamo ai due vantaggi egoistici. Il primo è che chi è vaccinato ha minori probabilità di contrarre il virus. Il secondo è che, anche se lo contrae, di norma sviluppa sintomi meno gravi di chi non è vaccinato, e raramente viene ospedalizzato o muore. Sono due vantaggi enormi, che fanno la differenza – esistenzialmente cruciale – fra vivere nell’angoscia e vivere nella consapevolezza di un piccolo rischio.

Questo non significa che la vaccinazione piena (con 2 dosi, o con 1 di Johnson & Johnson) azzeri il rischio di infezione, ospedalizzazione, morte, come alcuni credono. Significa però, ed è decisivo, che i rischi si riducono in modo drastico.

In concreto tutto ciò implica che, ove la quota di pienamente vaccinati si avvicinasse all’80 o al 90%, almeno il numero di ospedalizzati e di decessi potrebbe essere fortemente limitato. E’ a questo che dobbiamo puntare, raggiungendo chi non si può muovere e ragionando con i dubbiosi. Vaccinarci è l’unica arma che ci è stata lasciata in mano, e quindi sarebbe stolto non usarla.

La vaccinazione di massa risolverà ogni problema?

Lo speriamo. Ma pensare che basti, e da sola ci garantisca anni di convivenza pacifica con il virus, potrebbe essere un tantino azzardato. Di per sé, la vaccinazione di massa non esclude due eventualità che dobbiamo sempre tenere presenti. Da un lato, è possibile che, proprio perché si è lasciato circolare il virus, si formino varianti che “bucano” la barriera dei vaccini, o che sono ancora più trasmissibili di quella indiana. Dall’altro, se il virus dovesse infettare quasi tutti, il rischio è che – oltre a scontare un numero di morti non trascurabile – si debba fare i conti con milioni di persone alle prese con il cosiddetto Long Covid, ossia con i postumi più o meno irreversibili della malattia (attualmente si stima che ne siano affetti il 10% dei guariti).

Da questo punto di vista la scelta di cambiare i parametri, abbandonando Rt e l’incidenza settimanale, appare un tantino imprudente. Se la gravità dell’epidemia viene valutata solo o prevalentemente con le ospedalizzazioni, il rischio è che – ancora una volta – ci si accorga del pericolo solo quando l’epidemia galoppa, e i costi economici e sociali per frenarla sono diventati proibitivi.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 luglio 2021