Il caso Stock e la nostra libertà

In Italia se ne è parlato poco, ma il caso Stock merita una riflessione. Kathleen Stock è (anzi era) una docente di filosofia dell’Università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’ordine dell’impero britannico per i suoi meriti accademici.

Qualche mese fa è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, intimidazioni, persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. Non si pensi, però, alle solite campagne denigratorie, basate su tweet e cancelletti, di cui ci dilettiamo in un paese comparativamente mite e tutto sommato ancora bonaccione come l’Italia: le cronache raccontano che le intimidazioni verso la professoressa Stock erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle   ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché ricorrere a un numero di emergenza in caso di pericolo.

Il caso della Stock è solo l’ultimo di una serie impressionate di episodi di censura e di intimidazione che, specie nel mondo anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni, hanno colpito la libertà di espressione nelle università, nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione, nel cinema, nello spettacolo.

Ma la libertà di espressione di chi?

Un po’ di tutti, a quel che si apprende dalle cronache. Ma in misura assolutamente preponderante la libertà delle donne, specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come scrittrice, giornalista, professoressa universitaria. La ragione di tale accanimento è semplice: i più radicali tra gli attivisti LGBT+, che legittimamente propagandano le proprie idee e rivendicazioni in materia di sesso e di genere, non tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse, o opposte, rispetto a quelle prevalenti nei segmenti più estremi del loro mondo. Materia del contendere, soprattutto, la richiesta degli uomini che si sentono donne di accedere agli spazi tradizionalmente riservati alle donne, come bagni, spogliatoi rifugi/centri anti-violenza, reparti femminili nelle carceri, competizioni sportive fra donne. Chiunque osi difendere tali spazi, è bollata come TERF (Trans-Exclusionary Radical Feminist), un acronimo usato quasi sempre in chiave denigratoria e dispregiativa.

Di qui tutta una serie di insulti, minacce, aggressioni, cancellazioni di conferenze, richieste di dimissioni o di licenziamento che hanno colpito, in particolare, tre categorie: scrittrici celebri, come Margareth Atwood e Joanne Rowling, l’inventrice di Harry Potter; giornaliste come Suzanne Moore, Julie Bindel, Marina Terragni; ma soprattutto una schiera di professoresse universitarie, specialmente britanniche: Rosa Freedman, Germaine Greer, Kate Newey, Jo Phoenix, Janice Raymond, Selina Todd, solo per citare i casi più noti.

Questa vicenda presenta, a mio parere, due aspetti sociologicamente interessanti. Il primo è che l’attacco alla libertà di espressione, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne, specie se   femministe e/o impegnate in una professione intellettuale. Ed è paradossale che questo attacco alla libertà delle donne, tradizionalmente descritte come discriminate, avvenga proprio in nome dei diritti di una minoranza a sua volta discriminata.

Il secondo aspetto interessante è il fatto che l’accusa di transfobia, fuori luogo quando viene rivolta a donne che esprimono la loro opinione in materia di identità di genere, finisca per funzionare come una profezia che si auto-avvera. Etimologicamente, transfobia non significa odio per i trans, ma paura (dal greco phobos) nei loro confronti, ed è quantomeno curioso che sia invalso l’uso di dire ‘paura’ e intendere ‘odio’. Ma nel momento in cui una donna viene minacciata, fisicamente e moralmente, in nome dei diritti di una comunità (in questo caso quella trans), è normale che la medesima donna cominci davvero, quali che fossero i suoi sentimenti precedenti, a provare paura dei membri di quella comunità. Una paura che prima non provava, e che è stata suscitata dalle intimidazioni cui è stata sottoposta. La professoressa Stock ha lasciato l’università precisamente perché aveva paura degli studenti, dei colleghi e degli attivisti che la minacciavano per le sue idee. Con un singolare contrappasso: la lotta al fantasma della transfobia finisce per secernere transfobia vera e letterale, pura e semplice paura fisica dei membri di una comunità.

Come se ne esce?

Dipende da dove si vive. Nel Regno Unito è il Governo stesso, anche sotto la pressione del caso Stock, che si sta interrogando su come garantire i diritti delle donne e la libertà di espressione nelle università esistenti, proteggendo professori e studenti dalla prepotenza degli attivisti.

Negli Stati Uniti molti professori ormai pensano che la battaglia per ripristinare la libertà di espressione nelle loro università sia perduta, e che per cambiare le cose occorrerebbe troppo tempo. Quando un’istituzione come un grande e prestigioso ateneo comincia a credere che la sua missione sia la “giustizia sociale”, anziché la ricerca disinteressata della verità, della conoscenza, della cultura, è inutile sperare che sia in grado di proteggere la libertà di pensiero. Di qui l’idea di fondare università libere, in cui professori e studenti possano esprimere senza timore le loro idee, anche se radicali, eterodosse, controcorrente, abrasive. Sta succedendo a Austin, in Texas, e forse la professoressa Stock troverà rifugio proprio lì.

E nell’Unione europea? E in Italia?

Vedremo. L’importante è che non si metta la testa sotto la sabbia, e si affronti il problema. Senza paura.

Pubblicato su Repubblica del 20 novembre 2021




Quant’è difficile parlare di vaccini con libertà. Intervista a Luca Ricolfi

Professore, perché stampa e talk show sul Covid sembrano prigionieri di una logica da «curva»? Inscenando lo scontro tra opposti estremismi – vaccino «sola salus» contro no vax per principio – non ci si preclude la possibilità di una discussione seria e informata?
La possibilità di una “discussione seria” non interessa granché neppure i cosiddetti scienziati, troppo spesso prede di faziosità (e di conflitti di interesse), figuriamoci la grande stampa e i talk show. La realtà è che tutta la comunicazione pubblica risente del clima di guerra che si è instaurato dopo l’arrivo del vaccino. E in guerra chi solleva dubbi è trattato come un disertore.

Lo scontro, comunque, non è simmetrico: c’è una posizione, quella di totale adesione alle scelte del governo, che ha dalla sua una sorta di «bollinatura». È per questo che, dall’altro lato, si sovrarappresentano le voci più grottesche, dai negazionisti ai complottisti del vaccino? Insomma, si dà l’impressione che l’unica alternativa all’agenda governativa sia un coacervo di tesi deliranti…
E’ una precisa strategia, specie nei talk show. I paladini della campagna vaccinale vengono selezionati fra gli studiosi autorevoli, o comunque insediati in posizioni apicale del sistema sanitario, e per ciò stesso guardati con rispetto. Per quanto riguarda gli “infedeli” si alternano tre tecniche principali: non dar loro la parola; invitare solo i personaggi da operetta; farli parlare, ma affiancati da personaggi che li interrompono continuamente, insultando e screditando.

Al contrario, gli elementi che potrebbero incrinare la narrativa dominante e che provengono da fonti qualificate sono prontamente minimizzati. Il caso più recente mi sembra il tentativo di liquidare l’inchiesta del British medical journal sulle gravi lacune in uno dei trial di Pfizer. Questo atteggiamento non rischia di privarci di elementi di riflessione importanti?
Certo, questo atteggiamento priva il pubblico di informazioni cui avrebbe diritto ad accedere. Con la complicazione che il pubblico rischia di trovarle lo stesso (su internet), senza però essere in grado di soppesarle. Però…
Forse la deluderò, ma voglio provare a fare l’avvocato del diavolo dei grandi media, giusto per mettere a fuoco un meccanismo (e un problema). Supponiamo che la stampa e le tv non stendessero il velo pietoso che sono solite stendere sulle numerose controindicazioni della campagna vaccinale, a partire da quelle sulla vaccinazione di massa dei bambini: lei pensa che avremmo la medesima copertura? Crede davvero che il generale Figliuolo sarebbe riuscito a superare l’80% di vaccinati?
Se lei fosse convinto (come molti) che senza un’altissima copertura vaccinale avremmo decine di migliaia di morti in più, non sentirebbe la pressione a censurare le informazioni che disincentivano la vaccinazione? Forse è anche questa convinzione che induce una parte dei media a rinunciare alla completezza e imparzialità dell’informazione, che pure dovrebbero essere imperativi categorici della professione di giornalista.

In suo articolo sul sito della Fondazione Hume, lei ha deplorato il modo in cui è stata frettolosamente accantonata un’ipotesi, discussa in seno alla comunità scientifica, sulla possibilità che la vaccinazione di massa favorisca la selezione di varianti più resistenti del virus. Un altro tabù pericoloso?
Più che deplorarlo, ho messo in evidenza questa ed altre omissioni, alcune innocue (frutto di pura sciatteria), altre influenti e presumibilmente intenzionali. Quello che mi dà fastidio è il paternalismo di questo modo di fare informazione: si assume che noi popolo-bue non capiremmo, ci spaventeremmo, e agiremmo in modo sconsiderato. A me invece piace credere che le persone vadano aiutate a vagliare le informazioni, e a prendere decisioni difficili. Qualche volta tragiche.

Tragiche?
La decisione di una madre che vaccina un bambino di 6 anni è tragica, come quella di Antigone: proteggere il figlio, o proteggere la città?

È apparentemente impossibile, a livello mediatico, separare il giudizio sul vaccino e quello sul green pass. Indipendentemente da come la si pensi sulla tessera verde, perché non si possono avanzare obiezioni al passaporto Covid senza essere accusati, se non di essere dei no vax, di servire assist alle tesi di questi ultimi?
Per il solito motivo: si ritiene che se si critica il green pass si finisce per indebolire la campagna vaccinale. Ma potrebbe esserci anche un altro motivo…

Quale?
Che il governo abbia il problema di trovare un capro espiatorio in caso di fallimento della campagna vaccinale: e i critici del green pass sono “un colpevole quasi perfetto”, come l’uomo bianco nel bel libro di Pascal Bruckner.

Lei non crede che i no-pass siano la causa dell’attuale esplosione dei contagi?
Sono una concausa. E forse nemmeno la più importante. Lei lo sa che l’epidemia galoppa, con un Rt preoccupante, anche nei paesi che hanno vaccinato quasi tutti, come ad esempio il Portogallo, che ha una copertura del 98%?

E allora qual è la causa principale?
Il “generale inverno”, e la scelta del governo di non contrastarlo con la messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire da aule scolastiche e metropolitane. Avessero dato retta ai sostenitori della ventilazione meccanica controllata nelle scuole (studiosi, medici, ingegneri e, fra i partiti, ahimè solo Fratelli d’Italia) forse non saremmo a questo punto. Dico “forse” perché l’impatto protettivo dei filtri Hepa e della Vmc (ventilazione meccanica controllata) nessuno lo conosce ancora con esattezza.

Anche sulla vaccinazione dei bambini si è determinata una curiosa coincidenza: ora che si vuole spingere su questo fronte, dei piccoli, finora descritti come sostanzialmente al riparo dalla malattia grave, si è iniziato a dire che finiscono in terapia intensiva, che sviluppano il long Covid e che sono «untori» per i nonni, peraltro già vaccinati. È ancora legittimo esprimere dubbi sul programma di iniezioni sui bambini?
Lo sarà ancora per qualche giorno, approfittando del fatto che gli esperti sono divisi, poi non più. La libertà di parola finisce quando, nel mondo della cosiddetta scienza, la politica riesce a far emergere una posizione nettamente dominante, che mette fuori gioco tutte le altre.

La comunicazione scientifica è stata caratterizzata da una quantità spropositata di giravolte. Più si va indietro, più si trovano casi clamorosi: ad esempio, gli esperti che snobbavano la mascherina sono gli stessi che dopo l’hanno santificata. Cambiare idea può essere il risultato di un avanzamento nelle conoscenze, ma allora perché ogni affermazione dei tecnici ci viene presentata in modo apodittico? Con questo metodo, alla fine, i progressi appaiono, invece, come delle contraddizioni.
E’ esattamente così. La scienza dice di coltivare il dubbio e la discussione critica, ma questo avviene solo finché il dubbio e la discussione critica non urtano contro interessi economici o politici soverchianti. Quando questo accade, il dubbio si può esprimere solo a condizione che gli utenti che possono accedervi siano pochi, come nei giornali a bassa tiratura e nelle riviste. E’ una delle cose che mi ha insegnato Piero Ostellino, il padre spirituale della Fondazione Hume.

E poi ci sono i toni trionfalistici, seguiti da altrettante inversioni a U nella narrativa. Gli stessi vaccini, fino a pochi mesi fa, ci venivano presentati come l’unica via d’uscita dalla pandemia (con un’aperta sottovalutazione del ruolo delle terapie), come la sola salvezza che ci avrebbe riconsegnato la libertà. Adesso, il vento è cambiato: la protezione cala, serve un’altra dose, ma poi vi promettiamo che basterà così, tornerà veramente la libertà. Ecco, questo approccio alla comunicazione non è controproducente? È proprio questo il modo di fornire un assist ai no vax – e poi ci si ritrova a dover «convincere» gli indecisi con un obbligo vaccinale surrettizio…
E’ la conseguenza della sfiducia nella gente. Pensano che noi non capiremmo, se ci dicessero tutto.

Franco Locatelli, alcuni giorni fa, in conferenza stampa ha affermato che non ci sono under 59 vaccinati in terapia intensiva. Sono gli stessi dati Iss a smentirlo. È lecito, o almeno utile, rimaneggiare un po’ i numeri a scopi persuasivi? Non è sempre meglio essere precisi e dire la verità? Anche perché bastano i numeri reali a dimostrare l’efficacia dei vaccini…
Sì, ma è anche colpa della stampa e dei media, che sulle bugie dei potenti raramente hanno il coraggio di chiedere dimissioni che in altri paesi sarebbero scontate.

È indubbio che le vaccinazioni – e, auspicabilmente, questo effetto sarà consolidato dai richiami sulle fasce di popolazione più a rischio – abbiano mitigato enormemente l’impatto del Covid su ricoveri e decessi. Ma in questo contesto, ha senso tenere in piedi lo stato d’emergenza? Se i vaccini funzionano, perché ogni «ondata» viene accompagnata da una massiccia offensiva «terroristica» sui canali d’informazione, e si tiene in piedi anche sul piano giuridico una sorta di regime speciale? Non sarebbero opportuni un approccio più sobrio e un’uscita anche de iure dalla logica emergenziale?
Su questo sono completamente d’accordo con lei (e con Cacciari!). Non possono continuare a dirci che dovremo convivere con il virus, che i vaccini ci consentiranno di farlo, e poi mantenere ad oltranza lo stato di emergenza. O meglio: possono anche farlo, ma allora ci dicano quali sono le soglie di morti-ricoverati-infetti-Rt al di sotto delle quali “lorsignori” si degneranno di rinunciare ai poteri speciali.

Intervista rilasciata a La Verità, del 14 novembre 2021




L’illusione vaccinale

Chi ha meno di 50 anni non può ricordarselo, ma c’è stato un tempo in cui molto si discuteva, in Italia e non solo, di “illusione monetaria”.

Di che cosa si tratta?

L’illusione monetaria è la credenza che il nostro reddito cresca, mentre in realtà sta diminuendo a causa dell’inflazione, che si mangia gli aumenti e ci lascia con meno potere di acquisto di prima. Succedeva negli anni ’70 e nei primi anni ’80, sotto la spinta delle dissennatezze politiche e sindacali, che facevano lievitare i salari nominali e i rendimenti dei titoli di Stato ma non abbastanza da pareggiare un’inflazione galoppante e fuori controllo.

Oggi qualcosa di simile si sta ripetendo, ma in ambito sanitario. Da mesi scrutiamo con ansia la curva della percentuale di vaccinati, dandoci obiettivi ogni volta più ambiziosi, nella più o meno segreta speranza che, raggiunta una data copertura vaccinale (80%? 90%?), si arrivi a una situazione di equilibrio, in cui l’epidemia, pur non spegnendosi, rimanga sotto controllo e ci permetta un ritorno alla normalità, o a una quasi-normalità. Ma questo approccio è fuorviante, come lo era, negli anni ’70, guardare ai nostri redditi nominali anziché a quelli reali, depurati dall’inflazione. Per capire come stano andando le cose sul piano sanitario, non dobbiamo guardare alla copertura vaccinale nominale, ma a quella effettiva, che tiene conto dell’anzianità di vaccinazione, ossia del grado di protezione che ogni vaccinato conserva in funzione del tempo trascorso dall’ultima vaccinazione.

In termini un po’ tecnici: come il reddito nominale va corretto con il livello dei prezzi, così la copertura vaccinale effettiva andrebbe corretta con la durata della protezione.

Se si prova a farlo, si scopre che la curva della copertura vaccinale effettiva non sta più crescendo e anzi, verosimilmente, da un mese a questa parte sta diminuendo (vedi grafico). Noi ci illudiamo di star percorrendo l’ultimo miglio, ma in realtà stiamo retrocedendo, come il gambero. E questo per una ragione molto semplice: i nuovi vaccinati aumentano molto lentamente, perché stiamo raschiando il fondo del barile, mentre i vecchi vaccinati che stanno perdendo la protezione sono sempre di più, perché la campagna per la terza dose è partita in ritardo, e sta procedendo a passo di lumaca.

E’ questa la ragione per cui, in Europa, l’epidemia sta rialzando la testa?

Sì e no. Una copertura vaccinale effettiva elevata, con terza dose a chi si è vaccinato all’inizio dell’anno, è sicuramente – in questo momento – una condizione necessaria di stabilizzazione dell’epidemia. Non a caso l’epidemia è completamente fuori controllo, con tassi di mortalità quotidiana altissimi, nella maggior parte dei paesi dell’est, che sono indietrissimo nelle vaccinazioni.

Ma è anche sufficiente?

Non è detto. L’attuale aumento dei casi in tutta Europa non è solo dovuto all’attenuazione della copertura vaccinale effettiva, ma anche, molto più banalmente, all’arrivo della stagione fredda e all’incremento del tempo passato al chiuso. Era un effetto prevedibile, anche nella sua entità: grazie all’analisi statistica dell’andamento dell’epidemia in tutti i paesi del mondo, oggi sappiamo che il mero passaggio dalle condizioni di vita di settembre a quelle di gennaio-febbraio può moltiplicare i casi di un fattore compreso fra 2 e 4. Dunque, nessuno stupore che, con il ritorno a scuola e al lavoro, il numero di focolai abbia preso ad aumentare.

Ecco perché puntare tutte le carte sul rilancio in grande stile della campagna di vaccinazione e rivaccinazione potrebbe essere imprudente. Molto più saggio sarebbe stato, e ancora sarebbe, affrontare di petto il problema – fin qui sostanzialmente rimosso – di frenare la circolazione del virus almeno in alcuni degli ambienti chiusi più pericolosi: scuole, mezzi di trasporto, uffici.

Gli scienziati che si occupano di trasmissione aerea del virus (mediante aerosol, e non solo mediante goccioline), hanno impiegato circa un anno a convincere l’OMS che quel tipo di trasmissione è non solo possibile, ma è la modalità fondamentale negli ambienti chiusi. Ma nessuno è ancora riuscito a convincere le autorità politiche a varare un piano serio di messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire dalle scuole.

Eppure si può fare, e in alcune realtà locali (nelle Marche, ad esempio) si sta cominciando a fare su piccola scala. Gli ingegneri e gli scienziati hanno indicato con precisione alcune soluzioni tecnologiche (filtri Hepa; Vmc, ossia ventilazione meccanica controllata). Dotare tutte le scuole di dispositivi di controllo e ricambio della qualità dell’aria abbatterebbe i rischi di trasmissione del virus. E renderebbe pure meno drammatica la scelta, che presto si porrà, se vaccinare o non vaccinare pure i bambini.

Sotto questo profilo, non si può non osservare con preoccupazione la decisione, annunciata in questi giorni dalle autorità politico-sanitarie, di rendere molto più blande le regole che fanno scattare l’obbligo di quarantena per tutta la classe. Evidentemente l’obiettivo politico di limitare il ricorso alla Dad (didattica a distanza) sta prevalendo sull’obiettivo di contenere la diffusione del virus nelle scuole. Ma è una scelta miope, e assai pericolosa: perché aspettare che si arrivi a 3 casi per classe prima di correre ai ripari con la quarantena significa lasciar campo libero all’epidemia, per di più nella stagione più favorevole al virus.

Purtroppo è un film già visto: si sa perfettamente che si dovrà chiudere, si ritarda per salvare momentaneamente qualche attività, poi – quando la situazione precipita – si finisce per pagare un conto molto più salato di prima. Non solo in termini di morti, ma anche in termini di nuove chiusure.

Pubblicato su Repubblica del 6 novembre 2021




Politicamente corretto: 5 mutazioni pericolose

Quando, esattamente, sia nato il “politicamente corretto” nessuno lo sa. Sul dove, invece, siamo abbastanza sicuri della risposta: negli Stati Uniti. La sinistra americana, un tempo concentrata – come la nostra – sulla questione sociale, ossia sulle condizioni di lavoro e di vita dei ceti subalterni, a un certo punto, collocato tra le fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, ha cominciato a occuparsi sempre più di altre faccende, come i diritti civili, la tutela delle minoranze, l’uso appropriato del linguaggio. Lo specifico del politicamente corretto delle origini era proprio questo: riformare il linguaggio.

Questa posizione, profondamente idealistica e anti-marxista, condusse, nel giro di un decennio, a conferire una centralità assoluta ai problemi del linguaggio, e a creare un fossato fra la sensibilità dei ceti istruiti, urbanizzati, e tendenzialmente benestanti, e la massa dei comuni cittadini, impegnati con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario. Fu così che venne bandita la parola “negro” (sostituita con nero), e per decine di altre parole relativamente innocenti (come spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio), vennero creati doppioni più o meno ridicoli, ipocriti o semplicemente astrusi: operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare.

In Italia, che io ricordi, solo Natalia Ginzburg ebbe il coraggio e la lucidità di notare, fin dai primi anni ’80, l’ipocrisia e la natura anti-popolare di questa svolta linguistica, che non solo preferiva cambiare il linguaggio piuttosto che la realtà, ma creava una frattura fra linguaggio pubblico e linguaggio privato, fra l’élite dei virtuosi utenti della neo-lingua e i barbari che continuavano a chiamare le cose come si era fatto per secoli e secoli senza che nessuno si offendesse.

Ebbene, questa storia a noi può sembrare ancora attuale, ma è una storia del secolo scorso.  Chi crede che, oggi, il politicamente corretto sia usare una parola giusta al posto di una sbagliata si è perso la parte più interessante del film. Un film che in Italia è ancora alle prime battute, ma in America è andato molto avanti, in un tripudio di scene estreme e di effetti speciali.

Oggi il politicamente corretto si è trasformato in qualcosa di radicalmente diverso, e assai più pericoloso per la convivenza democratica. Il politicamente corretto di oggi sta al politicamente corretto delle origini come le varianti più recenti del virus stanno al virus originario (quello di Wuhan).

Per capire perché dobbiamo individuare le mutazioni che, nel giro di un ventennio, lo hanno completamente trasformato.

La prima mutazione (da cui la variante alpha) è intervenuta all’inizio del XXI secolo, con internet e la creazione del nuovo spazio pubblico dei social. Fino a ieri, per risentirti se uno ti chiama spazzino dovevi incontrare una persona in carne e ossa, e accorgerti della sua eventuale intenzione di offenderti. Oggi, se navighi su internet o stai sui social, hai mille occasioni quotidiane per offendere e sentirti offeso. L’arena dei social, dove imperversano volgarità e offese alla grammatica, è un perfetto brodo di coltura delle suscettibilità individuali. Lo ha descritto benissimo Guia Soncini nel suo ultimo libro (L’era della suscettibilità, Marsilio). La variante alpha è la più trasmissibile.

La seconda mutazione (da cui la variante beta) è l’espansione della dottrina del “misgendering” in tutti gli ambiti. Che cos’è il misgendering? E’ chiamare qualcuno con un genere che non gli va, ad esempio maschile se è o si sente una donna (o viceversa); o plurale maschile (cari colleghi) se ci si riferisce a un collettivo misto. Secondo le versioni più demenziali della correttezza politica in materia di generi, assai diffuse nelle università americane, i professori dovrebbero chiedere ad ogni singolo allievo come preferisce essere indicato: he, she, zee, they, eccetera.  Gli epigoni meno dotati di senso del ridicolo, da qualche tempo attivi anche in Italia, aggiungono regole di comunicazione scritta tipo usare come carattere finale l’asterisco * (cari collegh*), la vocale u (gentilu ascoltatoru), o la cosiddetta schwa (ə) (benvenutə in Italia) per essere più “inclusivi”, ovvero non escludere o offendere nessuno.

La nascita di codici di scrittura “corretti” procede, anche in Italia, in modo del tutto anarchico, in una Babele di autoproclamati legislatori del linguaggio, che si arrogano il diritto di dirci come dovremmo cambiare il nostro modo di esprimerci, non solo riguardo ai generi ma su qualsiasi cosa che possa offendere o turbare. Università, istituzioni culturali, aziende, compagnie aeree, associazioni LGBT, spesso in disaccordo fra loro, fanno a gara e sfornare codici di parola cui tutti – se non vogliamo essere accusati di sessismo-razzismo-discriminazione – saremmo tenuti a adeguarci.

Fra i più deliranti di tali codici quelli emersi recentemente nell’industria delle comunicazioni audio e in ambito informatico. D’ora in poi un operaio, se non vuole essere accusato di sessimo, non potrà più parlare di jack maschio e jack femmina, e dovrà sostituire questi termini con spina e presa. Quanto agli informatici, guai parlare di architettura master-slave, che evocherebbe il dramma della schiavitù. E guai pure a parlare di quantum supremacy (supremazia dei calcolatori quantistici su quelli tradizionali): la parola supremacy è proibita, perché rischia di evocare il suprematismo bianco.

La terza mutazione (da cui la variante gamma) è la cosiddetta cancel culture, secondo cui tutta l’arte e la letteratura, compresa quella del passato, andrebbe giudicata con i nostri attuali parametri etici, e censurata o distrutta ogniqualvolta vi si trovano espressioni, immagini, o segni potenzialmente capaci di turbare la sensibilità di qualcuno. Le case editrici si dottano di sensitivity readers, che passano al setaccio i manoscritti non per valutare il loro valore artistico, ma per vedere se contengono anche la minima traccia di idee che potrebbero urtare qualcuno. Le statue dei grandi personaggi del passato vengono distrutte o imbrattate. I dipinti di Paul Gaugin vengono censurati perché il pittore aveva sposato una minorenne. Il finale della Carmen di Bizet viene capovolto, perché nel finale la protagonista viene uccisa da don Josè, e noi non ce la sentiamo di mettere in scena un femminicidio (ma un omicidio messo in atto da una donna sì).

La quarta mutazione (da cui la variante delta) è la discriminazione nei confronti dei non allineati. Professori, scrittori, attori, dipendenti di aziende, comuni cittadini perdono il lavoro, o vengono sospesi, o vengono sanzionati, non perché abbiano commesso scorrettezze nell’esercizio della loro professione, ma perché in altri contesti, o in passato, hanno espresso idee non conformi al pensiero dell’élite dominante. Non solo: nella politica delle assunzioni, in particolare nelle facoltà umanistiche, vengono esclusi gli studiosi non allineati all’ortodossia politica dominante.

La quinta mutazione (da cui la variante epsilon) è forse la più preoccupante. E’ la cosiddetta identity politics. Un complesso di teorie, filosofie, rivendicazioni, secondo cui quel che conta veramente non è che persona sei ma a quale minoranza oppressa appartieni. Da qui derivano le idee più strampalate, ad esempio che per tradurre un romanzo di una autrice nera tu debba essere nera (è successo). Che per parlare di donne tu debba essere donna; per parlare di omosessualità essere omosessuale; per parlare dell’Islam essere islamico; per palare dell’Africa essere africano. Se osi parlare di qualcosa senza essere la cosa stessa sei accusato di “appropriazione culturale”,

Ma da qui deriva, soprattutto, l’idea che nell’accesso a determinate posizioni non contino il talento, la preparazione, la competenza, le abilità, l’esperienza, ma che cosa hanno fatto i tuoi antenati. Se sono maschi bianchi eterosessuali devi lasciare il passo a chi ha antenati più in linea con l’ideologia dominante. Perché i discendenti delle minoranze doc hanno diritto a un risarcimento, e i discendenti dell’uomo bianco (anche se non hanno alcuna colpa) devono pagare per le colpe, vere o presunte, dei loro progenitori colonialisti, oppressori, schiavisti, in ogni caso privilegiati.

All’ideale dell’eguaglianza, generosamente perseguito da Martin Luther King, che pensava che tutte le differenze di razza, etnia, genere dovessero diventare irrilevanti, perché a contare dovevano essere solo le altre differenze (quelle che fanno di ogni individuo quel che è, con i suoi pregi e i suoi difetti), subentra l’idea opposta che solo le differenze di razza, etnia, genere contino. Lo scopo delle grandi istituzioni educative, a partire dalle università, non è più promuovere la conoscenza e ricercare la verità, ma combattere le ingiustizie sociali, riequilibrando le diseguaglianze con azioni positive, che privilegiano determinate minoranze e penalizzano maggioranza e minoranze non protette, prescindendo dai meriti e dalle capacità di ogni individuo.

Così la parabola della cultura liberal si compie. L’ideale di Martin Luther King e di tanti leader illuminati del passato (compreso Barack Obama), sconfiggere le discriminazioni con l’eguaglianza, si capovolge nel suo contrario: instaurare l’eguaglianza attraverso le discriminazioni.

Il risultato finale è il razzismo al contrario: la più reazionaria e aggressiva fra le ideologie contemporanee.

 

 Pubblicato su Repubblica del 1° novembre 2021


 

BIBLIOGRAFIA MINIMA

Beatrice L.
2020   Arte è libertà?, Roma, Giubilei Regnani.

Bruckner P.,
2020   Un coupable presque pafait, Paris, Grasset (trad. it. Un colpevole quasi perfetto), Milano, Guanda 2021.

Siti W.
2021   Contro l’impegno, Milano, Rizzoli.

Soncini G.
2021   L’era della suscettibilità, Venezia, Marsilio.




La sinistra che non segue Letta

Non ho idea di che cosa abbia spinto Enrico Letta e il suo partito a rifiutare, fin da prima dell’estate, ogni compromesso sul Ddl Zan. Errore di calcolo? Voglia di inasprire lo scontro con il centro-destra? Manovre sull’elezione del presidente della Repubblica?

Chissà.

Ora che la frittata è fatta, e che l’approvazione di una legge conto l’omotransfobia è rimandata alle calende greche, forse varrebbe la pena che il Pd – esaurita la raffica di contumelie contro la destra retrograda, razzista e omofobica – si fermasse un attimo a riflettere. Tema della riflessione: come mai i dubbi sul Ddl Zan, anziché essere esclusivi della destra, sono così diffusi anche dentro il campo progressista?

Già, perché al segretario del Pd forse è sfuggito, ma la realtà è che le perplessità sul Ddl Zan sono piuttosto diffuse in diversi settori della sinistra. E in molti casi non sono di tipo tattico, come quelle espresse da Renzi e dai suoi, per cui sarebbe meglio una legge imperfetta che nessuna legge.

No, ci sono movimenti, associazioni, politici, studiosi di area progressista che sono convinti che si possa fare una legge a tutela delle minoranze migliore e non peggiore del Ddl Zan. Chi sono?

Diverse associazioni femministe, tanto per cominciare. Non solo italiane (Udi, Se non ora quando, Radfem, Arcilesbica) ma oltre 300 gruppi in più di 100 paesi, riuniti sotto la sigla Whrc (Women’s Human Rights Campaign). La rappresentante italiana nella Whrc è Marina Terragni, da decenni impegnata nelle battaglie per i diritti delle donne, degli omosessuali e dei transessuali. A queste associazioni non piace che le donne, che sono la metà dell’umanità, siano trattate come una minoranza; ma soprattutto non piace che il mondo femminile, con i suoi spazi e i suoi diritti, sia arbitrariamente colonizzato da maschi che si autodefiniscono donne, come è già capitato – ad esempio – in ambiti come le carceri e le competizioni sportive; per non parlare dei dubbi sui rischi di indottrinamento (e di cambiamenti di sesso precoci) dei minori.

Poi ci sono gli studiosi, e specialmente i giuristi, che hanno analizzato l’impianto della legge, e ne hanno individuato almeno tre criticità: rischi per la libertà di espressione, difetto di specificità e tassatività dei reati perseguiti con il carcere, conflitto con l’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 (“i genitori hanno diritto di priorità nella scelta del genere d’istruzione da impartire ai loro figli”). Fra i giuristi che hanno sollevato obiezioni, oltre a diversi costituzionalisti, c’è anche Giovanni Maria Flick, ex ministro della giustizia del primo Governo Prodi.

Ma forse il caso più interessante, e clamoroso, di disallineamento con l’integralismo LGBT di Letta e del Pd è quello dell’estrema sinistra, in Europa ma anche in Italia. Forse non tutti sanno che, non da ieri, in una parte della sinistra radicale le battaglie LGBT, e più in generale le battaglie per i diritti civili, sono guardate con ostilità come “campagne di distrazione di massa”, che la sinistra riformista – irrimediabilmente compromessa con il capitalismo e con le logiche del mercato – utilizzerebbe per spostare l’attenzione dal vero problema, ossia l’arretramento dei diritti sociali. Su questa linea, ad esempio, troviamo filosofi come Jean Claude Michéa e, in Italia, Diego Fusaro. Ma anche uomini politici di sicura fede progressista, come Mario Capanna (assolutamente contrario, perché “la legge aggiunge reati, non diritti”) o il sempre comunista Marco Rizzo, forse la voce più severa sui diritti LGBT e sulle celebrities che di quei diritti si servono per autopromuovere sé stesse (ma, è il caso di notare, osservazioni del medesimo tenore senso sono talora venute anche da un riformista doc come Federico Rampini).

E poi ci sono i (pochi) politici progressisti fuori dal coro, che hanno il coraggio di dire la loro anche se il partito non è d’accordo. Penso ad esempio a Paola Concia (Pd, sposata con una donna), che nello scorso aprile sollevò varie e argomentate obiezioni, chiedendo di modificare il testo della legge. O Valeria Fedeli (Pd), che nello scorso maggio sollevò perplessità analoghe, pure lei convinta che le modifiche avrebbero potuto migliorare la legge.

Ma forse il caso più interessante di posizionamento politico è quello di Stefano Fassina, ex parlamentare Pd, poi transitato in Sinistra italiana e approdato a LEU. In una conversazione con Il Foglio, giusto il giorno prima dell’affossamento del Ddl Zan, Fassina non solo osserva che l’articolo 4 (sui limiti alla libertà di espressione) andrebbe eliminato per “il suo portato di arbitrio giurisdizionale”, ma afferma che “sarebbe gravissimo per il nostro stato di diritto non intervenire sull’articolo 1” (quello che definisce l’identità di genere come scelta soggettiva). Quell’articolo, infatti, introduce “norme che si configurano come visione antropologica – legittima ma di parte”. Una visione che “non è stata esplicitata, condivisa e discussa, e quindi non può stare nel disegno di legge e diventare progetto educativo universale”.

Che dire?

Forse una cosa soltanto: una parte del mondo progressista, Letta o non Letta, continua a ragionare con la propria testa. Ed è un bene, perché certe battaglie, come quelle sul pluralismo e sulla libertà di espressione e di educazione, hanno più probabilità di essere vinte se non diventano proprietà esclusiva di una sola parte politica.

 Pubblicato su Il Messaggero del 29 ottobre 2021