Tre domande su Israele

Dopo una lunga stagione di incertezze, ora anche il governo italiano pare essersi deciso a prendere posizione contro il piano di occupazione di Gaza City annunciato da Netanyahu, ma osteggiato dall’esercito israeliano. A differenza di altri paesi, tuttavia, l’Italia non ha sospeso gli accordi di cooperazione con Israele, non ha riconosciuto lo Stato palestinese, né ha annunciato di volerlo fare a breve termine (come invece ha fatto la Francia).

Le ragioni della svolta si comprendono facilmente: i media occidentali e l’opinione pubblica sono schierati senza incertezze con i Palestinesi, visti come vittime innocenti della crudeltà di Netanyahu. In questa situazione, per qualsiasi governo europeo occidentale, non condannare la nuova operazione militare israeliana equivarrebbe a un suicidio politico (una situazione simile, mutatis mutandis, a quella del 1992, quando era impossibile non stare con Mani Pulite contro i politici corrotti). Di qui la corsa a schierarsi con i deboli (palestinesi) contro i forti (israeliani).

Se sul piano comunicativo il gioco è chiaro, e fin troppo scoperto, non così sul piano politico-militare. Chi, come la maggior parte dei governi europei, sostiene il riconoscimento dello stato di Palestina e la soluzione “due popoli, due Stati”, si guarda bene dal rispondere ad alcune domande cruciali.

Prima domanda: qual è il governo che i paesi europei vorrebbero riconoscere? È il governo di Gaza, anti-democratico e in mano ai terroristi? O è la debole e corrotta Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che governa una piccola porzione della Cisgiordania? O il riconoscimento è una finzione, che non si rivolge a nessun governo, e serve semplicemente a rabbonire le sensibili opinioni pubbliche europee?

Seconda domanda: qual è il territorio su cui dovrebbe sorgere il nuovo Stato Palestinese? Se è Gaza, è una presa in giro, visto che la Striscia è un cumulo di macerie. Se è la Cisgiordania, c’è un piccolo inconveniente: per cederla interamente ai Palestinesi occorrerebbe sgomberarla da centinaia di migliaia di coloni e soldati israeliani, che controllano interamente la zona C (59% del territorio), hanno il controllo militare della zona B (24% del territorio), e con innumerevoli posti di blocco sorvegliano tutti gli spostamenti fra le oltre 200 aree separate che costituiscono le zone A e B in cui vivono la maggior parte dei Palestinesi.

Terza domanda: esiste un percorso politico-diplomatico-militare che ha ragionevoli possibilità di imporre la soluzione dei due Stati?

Quel che voglio dire è che è troppo comodo lavarsi la coscienza con l’atto puramente simbolico di riconoscere lo Stato palestinese, senza specificare quali sono i territori che gli israeliani dovrebbero sgomberare, qual è l’autorità di governo che siamo disposti a riconoscere, qual è il processo che può condurre alla meta.

Da questo punto di vista, l’Europa non è certo senza peccato. Dov’eravamo quando, specie sotto Netanyahu, i governi israeliani permettevano la frantumazione della Cisgiordania in innumerevoli enclave? Che cosa abbiamo fatto per impedire gli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania, una terra che l’Onu fin dal 1947 aveva assegnato ai Palestinesi? Come abbiamo fatto a chiudere gli occhi di fronte all’uso che, per ben due decenni, Hamas ha fatto dei miliardi di aiuti concessi dall’Europa?

Sono tutti interrogativi cui nessun governo europeo, finora, ha avuto il coraggio di rispondere. Perché se provasse a farlo, dovrebbe scoprire che il male è stato fatto ben prima dell’invasione di Gaza, e in quel male anche noi abbiamo avuto una parte. Oggi ci commuoviamo per le sofferenze del popolo palestinese e invochiamo una soluzione – due popoli, due Stati – che con la nostra indifferenza passata abbiamo contribuito a rendere (quasi) impossibile.

[articolo inviato alla Ragione il 10 agosto 2025]




A proposito di suicidio assistito – Uscita di sicurezza

Di fine vita, suicidio assistito, testamento biologico, eutanasia si è tornati a parlare con particolare intensità nelle ultime settimane. Ad accendere l’attenzione sono stati non solo alcuni recenti passaggi legislativi e giudiziari – in particolare i disegni di legge che il Parlamento, con colpevole ritardo, discuterà a settembre – ma anche gli accorati, commoventi, appelli di alcune donne la cui volontà di porre fine alla loro vita si è scontrata con l’assenza di una legge organica e con le pastoie delle procedure previste dalle leggi vigenti.

Ma qual è l’oggetto del contendere?

Per quel che ho capito leggendo le proposte di legge, fondamentalmente il conflitto è fra quanti vorrebbero estendere il più possibile il diritto a essere aiutati a morire, coinvolgendo il sistema sanitario nazionale e riducendo al minimo i requisiti per esercitare tale diritto, e quanti invece vorrebbero introdurre requisiti stringenti ed escludere il servizio sanitario nazionale,

Nella versione più restrittiva, il diritto al “suicidio assistito”, oltre ad alcuni requisiti ovvi (come la gravità della patologia e la volontà di morire liberamente espressa) prevede che il paziente si sottoponga a cure palliative, sia tenuto in vita da “trattamenti di sostegno vitale” (senza i quali morirebbe), e sia in grado di autosomministrarsi il farmaco letale. Nella versione più permissiva, invece, si consente l’accesso al suicidio assistito anche a chi non dipende da trattamenti vitali, rifiuta le cure palliative, e non è in grado di auto-somministrarsi il farmaco. Quanto al requisito della volontà liberamente espressa dal paziente, alcuni ritengono che siano sufficienti le indicazioni fornite nelle disposizioni anticipate di trattamento (DAT, o testamento biologico), altri pensano che non si possa “somministrare la morte” sulla sola base di disposizioni formulate in un passato più o meo remoto.

Entrambe le posizioni, quella permissiva e quella restrittiva, hanno le loro buone ragioni. La posizione permissiva difende il diritto all’autodeterminazione e al rifiuto dei trattamenti sanitari, entrambi costituzionalmente garantiti (art. 13 e 32). La posizione restrittiva poggia sulla preoccupazione che, indebolendo sempre di più i requisiti di accesso al suicidio assistito, si finisca per aprire la strada a suicidi indotti dalle pressioni familiari verso quei malati che il welfare domestico non è più in grado di gestire (una preoccupazione forse irrilevante in un paese scandinavo, ma più che comprensibile in Italia, dove lo Stato scarica sulle famiglie l’onere dell’assistenza agli anziani).

Se però esaminiamo da vicino i principali disegni di legge proposti – in particolare quello governativo e quello dell’associazione Luca Coscioni – possiamo notare, in entrambi i testi, una comune presenza e una comune assenza. La comune presenza è quella di una asfissiante burocrazia etico-sanitaria-giudiziaria. Chi vuole essere aiutato a morire è costretto a infilarsi in una trafila estenuante, umiliante, e piena di incertezze. Una trafila che, si noti, non riguarda solo i casi controversi, in cui il dubbio è più che legittimo, ma affligge chiunque, compresi i casi eclatanti e per così dire ovvi di cui si è parlato tante volte (Luana Englaro, Piergiorgio Welby, Dj Fabo, e nei giorni scorsi Martina Oppelli e Laura Santi).

La comune assenza è quella di misure che prendano sul serio i meccanismi di formazione della volontà suicidaria, che non dipende solo dalla gravità della malattia, ma anche dalle condizioni in cui i malati si trovavo a vivere e interagire con gli altri. Anche su questo vi sono state, nei mesi scorsi, testimonianze toccanti, ma di segno opposto. Pazienti come Dario Mongiano, Maria Letizia Russo, Lorenzo Moscon, hanno chiesto di essere ascoltati dalla Corte Costituzionale, allora in procinto di pronunciarsi sul fine vita. Il loro ragionamento ribalta completamente la prospettiva. Anziché chiedere allo Stato di permettere loro di esercitare il diritto alla morte, chiedono allo stato di proteggerli dalla tentazione di ricorrervi. È vero che si tratta di pazienti in condizioni meno estreme di quelle che hanno afflitto i casi più noti, da Englaro e Welby in poi. Ma il loro ragionamento merita attenzione. Per loro quella del suicidio è una tentazione che nasce anche dall’abbandono, dalla mancanza di cure e sostegno. E il concedere il diritto al suicidio rischierebbe di diventare una comoda scorciatoia che lo Stato imbocca perché né lo Stato stesso né la società civile riescono a fare abbastanza per sostenere la volontà di vivere. Se passasse l’idea del suicidio assistito, dice uno di loro (affetto da tetraparesi spastica), “io potrei richiederlo. E non voglio che lo Stato mi dia questa possibilità. La mia vita sarebbe meno protetta perché tutto dipenderebbe esclusivamente dalla mia capacità di resistere al dolore. Sarei lasciato solo, ricadrebbe tutto sulle mie spalle e in alcuni momenti è molto difficile fare affidamento soltanto sulla propria forza di volontà” (corsivo mio).

È una mossa paradossale: si chiede meno libertà, per ritrovare la forza di esercitare la vera libertà, che è quella di voler vivere, nonostante tutto e a dispetto di tutto. Un po’ come Ulisse che chiede ai marinai di legarlo all’albero della nave, perché sa che – se fosse libero – cederebbe al canto delle sirene e morirebbe.

Chi ha ragione?

Forse tutti e nessuno. Il suicidio è l’uscita di sicurezza da una condizione insopportabile e non di rado umiliante. Uno Stato civile non può ergersi ad arbitro di chi può e chi non può passare per quella porta. Ma nemmeno può continuare a fare così poco perché non siano troppi a volervi transitare per quella porta.

[articolo uscito sul Messaggero il 3 agosto 2025]




Chi ha paura di lavorare?

Hanno suscitato qualche stupore i dati di giugno sul mercato del lavoro che l’Istat ha rilasciato pochi giorni fa. Da essi, infatti, risulta che negli ultimi 12 mesi gli aumenti di occupazione, che continuano ormai da oltre 3 anni, hanno riguardato solo la fascia dei lavoratori più anziani (50-64 anni), mentre tutte le altre fasce d’età accusano un calo occupazionale. Complessivamente, a dispetto di questi cali, si osserva una crescita del tasso di occupazione (+0.6%), che tocca il nuovo record storico del 62.9%. Se però andiamo a vedere in quali segmenti della popolazione gli aumenti sono più significativi, scopriamo che sono soprattutto le donne a sostenere la crescita del tasso di occupazione, con un incremento (+0.8%) doppio rispetto a quello degli uomini (+0.4%).

Altrettanto significativa la dinamica degli attivi (occupati più disoccupati in cerca di lavoro) al netto della componente demografica: in aumento fra gli anziani (50-64 anni), in diminuzione fra i giovani (15-34 anni), in netto calo fra gli adulti (35-49 anni).

La spiegazione standard per questo tipo di dinamiche è che gli anziani restano al lavoro più a lungo per non perdere benefici pensionistici, mentre l’occupazione femminile è più dinamica di quella maschile semplicemente perché il tasso di occupazione delle donne è il più basso d’Europa, e quindi i margini di incremento sono più ampi. Nessuna spiegazione, per quanto ne so, è invece stata avanzata fin qui per il fatto che il ritiro dal mercato del lavoro (verso l’inattività) tocchi più i giovani-adulti (35-49enni) che i giovani-giovani (15-34enni).

Queste spiegazioni non sono sbagliate, ma hanno una caratteristica comune: quella di metterci al riparo dal riconoscere altre, talora sgradevoli, con-cause dei processi in atto. Il fatto, ad esempio, che gli anziani restino al lavoro più degli altri, e lo facciano per massimizzare i benefici pensionistici, non spiega come mai i non-anziani tendono a ritirarsi dal mercato del lavoro. E nasconde la bassa (e calante) propensione al lavoro dei giovani in età lavorativa (25-34 anni).

Così, spiegare la maggiore dinamica del tasso di occupazione femminile con l’ampiezza del “serbatoio” di donne inoccupate, nasconde la circostanza che le donne sono molto, ma molto più istruite dei maschi, e anche semplicemente per questo danno un maggiore contributo alla crescita occupazionale. I giovani maschi, esigenti e spesso poco preparati, sono il vero anello debole del mercato del lavoro.

Quanto alle fasce di età giovanili e quasi-giovanili (dai 15 ai 49 anni) bisogna osservare che le categorie Istat dei 15-34enni e dei 35-49enni ricalcano grossolanamente la distinzione fra la più giovane generazione Z (centennials, o zoomers) e la meno giovane generazione Y (millenials). Ebbene, grazie a ricerche e indagini demoscopiche, qualcosa sappiamo degli atteggiamenti esistenziali di queste due generazioni. Secondo un’indagine dell’istituto Piepoli la generazione Z, essendo cresciuta in un periodo di crisi economica e di disoccupazione, tende – più della generazione Y – a cercare un posto di lavoro stabile e sicuro, e a tenerselo stretto quando lo ottiene. Secondo un’altra indagine, condotta da EURES (European employment services), i Millenials (generazione Y) tendono a dare una particolare importanza all’equilibrio fra tempo libero e lavoro, e a cercare attivamente nuove opportunità se un dato lavoro non li soddisfa. Di qui un maggiore attaccamento al lavoro della generazione più giovane (Z) rispetto a quella precedente (Y).

Il che, guarda caso, è precisamente quel che l’andamento occupazionale degli ultimi 12 mesi registra: la fuga verso l’inattività, che accomuna entrambe le generazioni, è più accentuata per la fascia 35-49 anni (millenials) che per la fascia 15-34 anni (centennials). Forse, contrariamente a quanto spesso si sente affermare, l’anello debole della catena lavorativa non sono i giovani-giovani, i cosiddetti nativi digitali, ma gli ex-giovani, che la rivoluzione di internet l’hanno attraversata.




Requiem per il mito dei due Stati

Non bastavano le divisioni su tutto il resto. Ora, grazie alla mossa di Macron (annuncio che a settembre la Francia riconoscerà lo stato di Palestina), l’Europa è ancora più divisa di prima pure sulla Palestina. Fino a pochi mesi fa nessuno dei grandi paesi europei riconosceva lo Stato palestinese, ora Spagna e Francia controbilanciano le posizioni più prudenti (o timide, secondo i critici) di Germania, Italia, Regno Unito. Su una cosa, tuttavia, la maggior parte dei governi europei (e più in generale di quelli occidentali) pare essere d’accordo: in prospettiva, la soluzione non può che essere quella dei “due Popoli, due Stati”. Anche l’Italia è su questa linea. In un’intervista a Repubblica la premier si è spinta a formulare il dubbio che “il riconoscimento dello Stato di Palestina, senza che ci sia uno Stato della Palestina, possa addirittura essere controproducente” in quanto distoglierebbe l’attenzione dal vero problema, che è di renderlo effettivamente possibile, uno Stato palestinese.

E tuttavia anche questa posizione, e a maggior ragione quella dei critici di Giorgia Meloni, mi sembra eludere il problema preliminare: quali dovrebbero essere i confini di questo fantomatico Stato di Palestina?

Alcuni parlano dei confini stabiliti dall’ONU nel 1947 (un po’ meno del 50% della Palestina storica ai Palestinesi), confini che già nel conflitto del 1948 Israele aveva modificato  a ulteriore proprio favore. Altri parlano dei “confini del 1967”, intendendo quelli anteriori alla “Guerra dei 6 giorni”, ovvero i confini emersi alla fine del conflitto del 1948, particolarmente favorevoli a Israele. Altri ancora si accontenterebbero di assegnare allo Stato di Palestina la striscia di Gaza e l’intera Cisgiordania (la cosiddetta West Bank), oggi quasi interamente (per più dell’80%) controllata da Israele. Senza parlare dello spinosissimo problema di Gerusalemme, che Israele si è annessa ma che l’Onu avrebbe voluto sotto controllo internazionale.

Tutti però sembrano ignorare che ciascuna di queste soluzioni, compresa l’ultima – la più favorevole a Israele – è di fatto impraticabile. Gli Israeliani non possono cedere di nuovo Gaza (da cui si erano ritirati nel 2005) senza la previa distruzione di Hamas. Quanto alla Cisgiordania, troppo spesso si dimentica che è un labirinto controllato dall’esercito israeliano (la zona A, l’unica interamente soggetta all’autorità palestinese, è puntiforme, completamente priva di continuità territoriale, e copre meno del 20% del territorio). Se davvero volesse cedere l’intera Cisgiordania ai palestinesi, Israele dovrebbe convincere centinaia di migliaia di coloni, blanditi negli ultimi decenni a fini elettorali, ad abbandonare terre che ormai considerano loro.

Insomma, vie di uscita ragionevoli e praticabili non se ne vedono. Anche se l’intera comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, fosse favorevole alla soluzione dei “due Popoli, due Stati”, resterebbero il dato di fatto che, a dispetto dei molti crimini di guerra commessi, Israele non è stata in grado di cancellare Hamas, e il dato di realtà per cui, anche senza Netanyahu, sarà difficilissimo estirpare i coloni israeliani dalla Cisgiordania.

Ecco perché baloccarsi con la formula “due Popoli, due Stati”, pur ragionevole in linea di principio, è una ipocrisia. Il vero dramma dei due popoli che si contendono la Palestina sono i governanti che si sono scelti e che, soprattutto negli ultimi 20 anni, hanno fatto deragliare il processo di pace, già molto fragile dopo gli accordi di Oslo (1993). La striscia di Gaza sarebbe un posto fiorente se i miliardi dollari che la comunità internazionale le ha destinato negli ultimi 20 anni fossero stati usati per il benessere dei suoi abitanti anziché per rimpinguare gli arsenali di armi contro Israele. La Cisgiordania sarebbe oggi pronta per far nascere lo Stato palestinese se dopo gli accordi di Oslo gli israeliani vi avessero progressivamente ridotto i propri insediamenti, anziché moltiplicarli.

Ora Gaza è distrutta, e la Cisgiordania è ipotecata. Noi continuiamo a parlare dei due Stati, della crudeltà di Israele, del dramma dei palestinesi. Ma nessuno osa ammettere che nessuna vera soluzione è alle porte e che, anche se Hamas si arrendesse e Netanyahu andasse in prigione, la loro eredità è così pesante da ipotecare il futuro prossimo. Speriamo non anche il futuro remoto.

[articolo uscito sulla Ragione il 30 luglio 2025]




Il rebus demografico

Facciamo sempre meno figli, è vero. E non siamo solo noi italiani a farne sempre di meno. Ma sul perché ciò accada le opinioni divergono, anche fra gli specialisti. Anzi, soprattutto fra gli specialisti. Nel mio lavoro di sociologo, raramente mi è capitato di incontrare un fenomeno per spiegare il quale ci fossero opinioni così numerose e divergenti (per la precisione, mi è capitato una sola volta, con l’enigma tuttora insoluto del crollo degli omicidi in America dopo il 1990).

Il punto su cui quasi tutti concordano è quello ricordato da Prodi nel suo articolo di ieri su questo giornale: la tendenza è generale, coinvolge paesi ricchi e paesi poveri, classi alte e classi basse, città e campagne. Ebbene, già questo primo punto di partenza ammette eccezioni significative. Fra i paesi principali del mondo (popolosi almeno come l’Islanda) ve ne sono ben 15 in cui nell’ultimo decennio il tasso di fecondità totale (numero di figli per donna in età fertile) anziché diminuire è aumentato. E di questi 15 paesi “anomali” ben 8 sono nell’Unione Europea, altri 4 sono ex membri della Jugoslavia, mentre gli altri 3 facevano parte dell’Unione sovietica. Degli 8 paesi UE 3 sono occidentali (Portogallo, Grecia, Cipro), gli altri 5 sono ex comunisti (Romania, Bulgaria, Ungheria, Croazia, Slovacchia). Insomma, pare che l’Europa sia l’unica parte del mondo in cui è in atto una controtendenza significativa.

Ma veniamo all’Italia, il cui tasso di fecondità totale è circa 1.2 (solo 4 paesi UE hanno un tasso di fecondità minore). Perché è più basso di quello della maggior parte dei paesi europei?

La diagnosi che si ascolta più di frequente chiama in causa i cosiddetti fattori strutturali: reddito pro capite insufficiente, tasso di occupazione femminile bassissimo, mancanza di asili nido. Di qui la terapia: se si vuole invertire la tendenza occorre moltiplicare i benefit a favore delle famiglie che desiderano avere figli ma non se lo possono permettere. Il ragionamento filerebbe, se non vi fosse un’obiezione grande come una casa: se la ragione della bassa natalità italiana sono le condizioni strutturali delle famiglie, come si spiega il fatto che il tasso di natalità sia altrettanto basso in paesi come il Lussemburgo o la Finlandia, dove il reddito pro capite è più alto, gli asili nido non mancano e le donne lavorano?

Un’obiezione che viene rafforzata da un’altra osservazione: se guardiamo alle tendenze degli ultimi 10 anni, il calo che si osserva in Italia è alquanto minore di quello che si osserva in Francia, il paese invariabilmente additato a modello da imitare. Di qui la domanda: se non ci riesce la Francia che ha tutte le carte in regola, come può sperare l’Italia di fermare il calo delle nascite?

È a questo punto che, in molte discussioni sul problema demografico, si affaccia la diagnosi alternativa: è la cultura che fa la differenza. Il tasso di fecondità scenderebbe soprattutto perché i modelli culturali cambiano. Individualismo, narcisismo, fluidità dei rapporti, primato dell’autorealizzazione, renderebbero sempre più problematico il progetto di costruire una famiglia stabile e allevare dei figli: se quando eravamo più poveri facevamo più bambini non è solo perché non c’erano gli anticoncezionali ma è perché eravamo meno centrati su noi stessi.

Il punto forte di questa spiegazione è la sua autoevidenza (chiunque si rende conto che viviamo in un mondo molto più individualista di quello di ieri). Il punto debole è che nessuno è in grado di individuare con precisione le culture che competono nel mondo e, anche quando si prova a farlo, si trova sempre che le differenze fra paesi all’interno della medesima area culturale sono molto grandi, comunque più ampie di quelle fra macro-aree culturali (Europa occidentale, paesi europei ex comunisti, paesi islamici, paesi cattolici, eccetera). Fra le società avanzate (ricche e democratiche), ad esempio, si va dal caso di Israele, che ha un tasso di fecondità prossimo a 3, a quello della Corea del Sud che ha un tasso di 0.72. Ma anche restringendo l’analisi alle società europee di tradizione occidentale si va dal minimo di Malta (1.06) al massimo della Francia (1.66). Insomma, sicuramente essere una società occidentale moderna conta, ma le particolarità nazionali sembrano ancora più influenti.

Che fare, dunque, se si vuole invertire il trend demografico?

Difficile dirlo, perché il rebus demografico è tutt’altro che risolto. E finché non ne saremo venuti a capo sarà difficile valutare costi e benefici di qualsiasi politica.

[articolo uscito sul Messaggero il 26 luglio 2025]