Manifesto della Libera Parola

 Chi ha paura della libertà di espressione?

Manifesto della Libera Parola

 

Felici i tempi in cui puoi provare i sentimenti che vuoi, 
e ti è lecito dire i sentimenti che provi
(Tacito)

Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu
(Massimo Troisi)

 

1 – C’è stato un tempo in cui la censura era di destra e la libertà di espressione era di sinistra.
Era logico, perché la cultura dominante era conservatrice, autoritaria, e un po’ bigotta. I film di Pasolini erano considerati pornografia, e un letterato come Aldo Braibanti poteva essere condannato e imprigionato per plagio, mentre il ragazzo da lui “plagiato” poteva venir rinchiuso in manicomio e sottoposto a elettroshock. Era anche il tempo in cui, per gli omosessuali, uscire allo scoperto richiedeva coraggio, molto coraggio. Un coraggio che ebbero in pochi: Pier Paolo Pasolini, Paolo Poli, Angelo Pezzana, e non molti altri.
In quel tempo, che si prolunga fin verso la metà degli anni ’70, la sinistra ufficiale è ancora guardinga, ma l’intelligentia progressista si schiera risolutamente dalla parte della libertà di espressione in tutti i campi: cinema, arte, teatro, stampa, vita privata. I maggiori scrittori, artisti e intellettuali dell’epoca sono quasi tutti dalla parte di Aldo Braibanti, impegnati contro la censura e contro il reato di plagio.

2 – Tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, anche grazie al femminismo e alle lotte sull’aborto e i diritti LGBT, le cose cominciano a cambiare. La cultura dominante non è più né bigotta, né conservatrice. Nel 1978 passa la legge sull’aborto, nel 1981 viene abolito il reato di plagio, nel 1982 viene approvata la prima legge che consente il cambiamento di sesso. La stagione delle lotte sociali cede il passo a quella dei diritti civili, le idee progressiste penetrano sempre più nella coscienza collettiva.
E’ in quegli anni che, anche in Italia, prima in modo appena avvertibile, poi in modi sempre più massicci e pervasivi, prendono piede i principi del politicamente corretto.
Essere progressisti comincia a significare, per molti, farsi legislatori del linguaggio. Parte una furia nominalistica che, con ogni sorta di eufemismo e neologismo, si premura di stabilire come dobbiamo chiamare le cose e le persone, in totale spregio del linguaggio e della sensibilità della gente comune.
Solo Natalia Ginzburg, dalle colonne della Stampa prima e dell’Unità poi, avverte del pericolo, con due bellissimi articoli che denunciano l’ipocrisia, e la sopraffazione verso il comune sentire dei ceti popolari, implicite nella pretesa di imporci come dobbiamo parlare e pensare.
Ci troviamo così circondati di parole che non sono nate dal nostro vivo pensiero, ma sono state fabbricate artificialmente con motivazioni ipocrite, per opera di una società che fa sfoggio e crede con esse di aver mutato e risanato il mondo (…).
Così accade che la gente abbia un linguaggio suo, un linguaggio dove gli spazzini sono spazzini e i ciechi sono ciechi, e però trovi quotidianamente intorno a sé un linguaggio artificioso, e se apre un giornale non incontra il proprio linguaggio ma l’altro. Un linguaggio artificioso, cadaverico, fatto di quelle che Wittgenstein chiamava parole-cadaveri. Per docilità, per ubbidienza – la gente è spesso ubbidiente e docile – ci si studia di adoperare quei cadaveri di parole quando si parla in pubblico o comunque a voce alta, e il nostro vero linguaggio lo conserviamo dentro di noi clandestino.  Sembra un problema insignificante ma non lo è. Il linguaggio delle parole-cadaveri ha contribuito a creare una distanza incolmabile fra il vivo pensiero della gente e la società pubblica. Toccherebbe agli intellettuali sgomberare il suolo da tutte queste parole-cadaveri, seppellirle e fare in modo che sui giornali e nella vita pubblica riappaiano le parole della realtà.
Ma le preoccupazioni della Ginzburg cadono nel vuoto. Ormai il politicamente corretto ha iniziato la sua colonizzazione di tutti i gangli della società. Scuole, università, giornali, istituzioni, associazioni professionali, agenzie pubblicitarie, case editrici, reti radio e tv, aziende private, e negli ultimi tempi gli stessi giganti del web, fanno propri i principi della nuova religione della parola, imponendo codici linguistici e sorvegliando il loro rispetto.

3 – Parallelamente, si moltiplicano le richieste di essere messi al riparo da ogni espressione di idee, sentimenti, convinzioni che possano risultare lesive di qualsiasi singola sensibilità: è l’era della suscettibilità, come la chiama Guia Soncini.
Cresce a dismisura la schiera dei “suscettibili”, dei potenzialmente offesi, di tutti coloro che si sentono vittime di un odio, o anche solo di una trascuratezza o maleducazione, o persino di un’intenzione.
O nemmeno: si vedono intenzioni anche dove non ce ne sono. E se ne scoprono di vecchie, andando a ritroso nello spazio e nel tempo. Le opere d’arte del passato vengono sottomesse ai raggi X delle odierne sensibilità, e spesso tagliate, edulcorate o ritirate dalla circolazione. E’ il trionfo della cancel culture, che pretende di togliere dalla vista qualsiasi opera o manifestazione del pensiero che, con la sensibilità di oggi, possa apparire offensiva per qualcuno. Ed è la Caporetto della satira e dell’ironia, forme del discorso che per essere intese richiedono troppa intelligenza e distacco.

4 – Accade così che l’opposizione al politicamente corretto, troppo costosa e sconveniente negli spazi pubblici ufficiali e nell’interazione face to face, trovi solo sui social lo spazio in cui manifestarsi liberamente, per giunta con la protezione di un presunto anonimato. Ma sui social l’opposizione diventa puro sfogo, i pensieri si immiseriscono in brevi formule ad effetto, le parole si colorano di odio. Trionfano insulti e volgarità, proliferano haters e leoni da tastiera. Tutto questo incendia ancor più gli animi benpensanti dei nuovi progressisti, e finisce per esasperare il politicamente corretto. In un circolo vizioso inarrestabile.
Eppure dovrebbe essere chiaro: i cattivi sentimenti che dilagano sui social sono anche mutazioni, varianti più aggressive (e più trasmissibili!) del dissenso. Se chi non è in sintonia con i canoni del politicamente corretto viene sistematicamente squalificato, delegittimato e sanzionato nei luoghi “seri”, è possibile che una parte di quel medesimo dissenso cambi non solo luogo, ma anche natura, trasformandosi in odio, disprezzo, rivalsa, aggressività.  Odio e disprezzo peraltro ricambiati dai custodi del Bene, ai quali spesso risulta difficile non vedere gli avversari come mostri, destituiti di ogni umanità.

5 – In ogni ambiente si crea un clima di sospetto e paura. Si teme di dire la parola sbagliata, fraintendibile, ambigua: in ogni caso, al di là delle intenzioni effettive, offensiva. O anche solo non in linea, non conforme: quindi non accettabile. E si avvia, più o meno inconsapevolmente, un processo di censura preventiva delle proprie idee e delle proprie parole.
Non solo l’informazione (giornali e tivù) si muove con questa circospezione, ma anche l’arte, da sempre per definizione espressione di libertà. Le nuove opere (in letteratura, teatro, cinema, arte figurativa) si formano in un clima di autocensura, in cui la prima preoccupazione degli autori è schivare ogni possibile accusa di offensività o scorrettezza politica. Così, accanto alla massa delle opere prodotte effettivamente, cresce quella delle opere che non si sono prodotte, e forse neppure pensate, per timore dei nuovi conformismi.
L’impegno diventa una condizione necessaria: cessa di essere una delle tante possibilità dell’arte, per diventare l’arma impropria che assicura un vantaggio (e uno scudo) a chi lo pratica e lo ostenta. Il confronto e lo scontro pubblico – aperto e leale – fra concezioni e sensibilità opposte, diventa semplicemente impossibile.

6 – In questo clima la libertà di espressione declina non tanto perché le suscettibilità offese possono ricorrere alla magistratura, naturalmente sensibile allo spirito del tempo, per punire ogni manifestazione giudicata lesiva della propria sensibilità, autostima, reputazione, onorabilità; ma perché sono le stesse istituzioni pubbliche e private a provvedere motu proprio a sanzionare i reprobi, senza aspettare la condanna della magistratura, sulla sola base della violazione di codici aziendali o etici più o meno espliciti. Al posto della censura classica e pubblica (ma ancora fatta da persone in carne e ossa), che ritira i libri e vieta ai minorenni i film scabrosi, si installa un nuovo tipo di censura, tecnologica e privata, non di rado fondata su algoritmi e programmi di intelligenza artificiale, incaricati di scovare ogni contenuto o parola potenzialmente lesiva di qualche principio etico assoluto, o di qualche sensibilità – individuale o di gruppo – giudicata degna di protezione. Con un esito paradossale: i codici etici, indispensabili a qualsiasi soggetto che svolga attività di interesse pubblico, rischiano di trasformarsi in strumenti di censura, o di imposizione delle visioni del mondo dominanti.
Il nuovo clima, vagamente inquisitorio e intimidatorio, non tocca solo scrittori, registi, professori, giornalisti, utenti di internet, ma finisce per inquinare le stesse relazioni faccia a faccia tra le persone, a partire dai giovani e dagli studenti. Lo ha denunciato con forza la femminista libertaria Nadine Strossen:
Gli studenti hanno paura persino di discutere argomenti importanti e delicati come quelli del razzismo, della violenza sessuale e dell’immigrazione, per timore di essere fraintesi, di dire involontariamente qualcosa che possa essere considerato “insensibile” (o peggio), e di diventare oggetto di azioni punitive – che possono andare dal linciaggio sui social alla perdita di opportunità di lavoro. Per troppi giovani negli Stati Uniti sono state ritirate le ammissioni al college a causa di isolati post sui social pubblicati quando erano adolescenti. In breve, temo per la “cancellazione” delle opportunità future, così come dell’attuale libertà di espressione, proprio in nome delle persone oggi più impotenti e vulnerabili.
Anche in ambiti ben più circoscritti e privati, ad esempio a una cena tra amici, succede che si abbia paura di parlare dei temi scottanti del momento (migranti, omofobia, sessismo). Se lo si fa, se si decide di esprimere comunque le proprie idee o anche solo usare le proprie parole in dissonanza con le idee e le parole imposte dal clima circostante, si paga un prezzo, anche molto caro: il gelo immediato degli astanti, il litigio, la rottura definitiva di legami sociali e anche affettivi, l’esclusione futura da ogni cena o incontro, nonché da eventuali rapporti di lavoro, incarichi, carriere e finanziamenti.

7Ed ecco il punto. In un’epoca nella quale l’ideologia fondamentale del mondo progressista è divenuta il politicamente corretto, e il politicamente corretto stesso è diventato il verbo dell’establishment, non stupisce che la censura di ogni espressione disallineata sia diventata una tentazione per la sinistra, e la lotta contro la censura una insperata occasione libertaria per la destra.
Ma è un errore in entrambi i casi. Silenziare, oggi, chi viola il politicamente corretto non è più nobile di quanto lo fosse, ieri, silenziare chi offendeva “il comune senso del pudore”. Le idee e gli atteggiamenti che non ci piacciono si combattono con altre idee e modi di essere, non impedendo agli altri di esprimersi.
Una società moderna, aperta e non bigotta, non può lasciare a una sola parte politica l’esclusiva della difesa della libertà di espressione. Perché la libertà non è né di destra né di sinistra, ma è il principio supremo del nostro vivere civile.

I LiberoParolisti si impegnano affinché la libertà di idee, sentimenti e parole sia sempre e ovunque salvaguardata, affermata, e difesa con forza.

 

Pubblicato su La Ragione del 2 giugno 2021

 

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