Antidoti contro il Covid: sole o vaccini?

Nei frequenti talk show televisivi in cui si dibatte di covid non ho sentito nessuno argomentare sul raffronto tra i dati pandemici di questo ultimo scorcio di primavera e quelli del corrispondente periodo dello scorso anno. Provo a farlo io perché le evidenze numeriche si prestano a considerazioni che mi paiono veramente interessanti.

Ho preso in esame i dati a mio giudizio più significativi perché più facili da rilevare in modo oggettivo: due consistenze (numero dei ricoveri ordinari e numero delle persone in terapia intensiva) ed un flusso (numero dei morti giornalieri in media mobile a 7 giorni). Il dato dei positivi, infatti, non mi sembra significativo nel raffronto tra 2020 e 2021 perché è molto dipendente dal numero e dalla tipologia dei tamponi effettuati, variati entrambi enormemente tra 2020 e 2021. A tali rilevazioni ne ho aggiunta una, il rapporto tra morti giornalieri e ricoverati in terapia intensiva, che, seppur poco ortodossa (rapporto tra un flusso e una consistenza) si presta a una considerazione interessante sull’effetto dei vaccini.

Dal sito del Sole 24ore ho ricavato i dati riepilogati nella seguente tabella:

Come si può vedere, i ricoveri ordinari sono rimasti sostanzialmente inalterati, i morti hanno avuto un incremento significativo ma non eccezionale, mentre gli altri due indicatori – terapie intensive e rapporto tra morti e terapie intensive – hanno avuto variazioni straordinarie: il primo è più che raddoppiato, mentre il secondo si è sostanzialmente dimezzato.

Parto da quest’ultimo dato, il rapporto tra morti giornalieri e ricoverati in terapia intensiva, perché ho osservato che esso è rimasto sostanzialmente stabile, attorno al 20%, per tutto il 2020 e fino all’inizio della campagna vaccinale (gennaio 2021), per poi ridursi progressivamente fino quasi a dimezzarsi; l’effetto dei vaccini mi pare indiscutibile: le persone più anziane, in genere le prime ad essere vaccinate, hanno avuto modo di evitare di finire in terapia intensiva e la probabilità di uscirne vivi è per loro molto minore rispetto a quella dei pazienti più giovani. E allora come spiegare l’aumento che c’è stato nel numero delle terapie intensive rispetto a quello dei ricoveri ordinari? Non sono un virologo, ma mi sembra difficile escludere che la variante inglese, a quanto leggo riscontrata ora in circa il 90% dei contagiati, sia responsabile non solo di una maggiore diffusione del contagio, ma anche della maggiore gravità delle infezioni, maggiore gravità che non si è tradotta in un pari incremento della mortalità – incremento che comunque si è verificato – solo perché le persone più giovani sono, come detto, meno soggette a soccombere.

Lascio per ultimo la considerazione forse più preoccupante: i vaccini sono veramente i principali responsabili del miglioramento del quadro epidemiologico? Ho il timore che la risposta sia negativa. Come spiegare, infatti, che, nonostante l’assenza dei vaccini nel maggio dello scorso anno, la situazione migliorò addirittura più velocemente? D’accordo, l’anno scorso siamo usciti da un lock down molto più ferreo di quello attuale e le varianti più pericolose ancora non si erano manifestate, ma è altrettanto vero che i presidi di sicurezza, quali le mascherine, erano pressoché assenti, come pure mancava l’esperienza che nel frattempo è maturata nella cura dei pazienti.

Premesso che la vita all’aria aperta e i raggi ultravioletti, particolarmente nocivi per i virus, si devono al soleggiamento e che questo raggiunge il suo massimo nei tre mesi circa a cavallo del solstizio d’estate, esso ci abbia aiutato oggi non meno dell’anno scorso nell’attenuare progressivamente la pandemia. L’anno scorso fu proprio a partire da Ferragosto, quando il soleggiamento inizia a ridursi sempre più velocemente, che la pandemia riprese vigore e, anche quest’anno, dovremo essere molto, ma molto cauti e confidare, allora sì, nei vaccini, a cominciare dai richiami per i più anziani.




Il Covid e il condizionamento dell’aria

Nel mio precedente intervento, relativo al clima e al suo impatto sul contagio da covid, ho cercato di spiegare perché l’aria calda, asciutta e non inquinata è in grado di ridurre significativamente il rischio di contagio. Ciò, peraltro, non significa che, per il semplice fatto di essere in estate, i rischi siano estremamente ridotti. Infatti, al chiuso, proprio con il caldo estivo si è spesso costretti a ricorrere all’aria condizionata, riproducendo in tal modo, artificialmente, un ambiente a maggior rischio di contagio. Purtroppo, il rischio è ben maggiore di quanto si possa pensare, a causa della modalità di funzionamento degli impianti di condizionamento.

Vediamo allora come si fa per raffreddare l’aria. Si usano gli stessi componenti che, in piccolo, si trovano in un normale frigorifero domestico. In particolare, l’elemento refrigerante, detto evaporatore, che nel frigorifero è una piastra posta, al suo interno, sulla parete posteriore (nei modelli più recenti non è più visibile in quanto annegata all’interno di tale parete), negli impianti di condizionamento domestici è una “batteria” collocata all’interno del cosiddetto ventilconvettore, posizionato all’interno di ciascun ambiente. Non mi dilungo sugli impianti centralizzati perché il concetto di base è lo stesso: l’elemento refrigerante, dovunque esso sia, raffredda l’aria al disotto della temperatura di rugiada, cioè quella a cui l’umidità contenuta nell’aria comincia a condensare.

Torniamo alla batteria, costituita da tubi, al cui interno scorre il fluido refrigerante (semplicemente acqua negli impianti centralizzati) e alette metalliche che favoriscono lo scambio termico con l’aria. L’umidità dell’aria, condensandosi, bagna la batteria e, gocciolando, si raccoglie in una vaschetta da cui poi viene scaricata all’esterno. Il punto dolente è rappresentato dalle alette bagnate: se nell’ambiente c’è un infettato, l’aria aspirata dal ventilatore contenuto nel ventilconvettore e convogliata, attraverso la batteria, di nuovo nell’ambiente, può infettare le alette bagnate della batteria che possono così diventare un bacino di coltura di agenti patogeni. Ci si è resi conto del problema, a quanto ne so, a seguito dell’infezione da legionella, scoppiata in un albergo degli USA nel 1976 (34 morti su 4.000 presenti). Quindi, se l’aria proiettata dal ventilatore di nuovo nell’ambiente, attraverso le alette dell’evaporatore, non è adeguatamente filtrata, è come se ci si trovasse sotto una pioggia di starnuti! È chiaro che in casa propria o nella propria auto, se non si ospitano persone infette e ci si fida dei propri conviventi, non si corre alcun rischio.

Torniamo agli Stati Uniti, che sono stati, non a caso, dei pionieri in materia di condizionamento dell’aria. Vi sono stato due volte, entrambe d’estate, nella prima metà degli anni ottanta (ben prima che si imponesse il tema del riscaldamento globale), e fui colpito da due cose: l’afa insopportabile, mai sofferta prima, e la potenza straordinaria degli impianti di condizionamento: quando arrivai all’aeroporto Kennedy di New York non mi resi conto della gravità della situazione fino all’uscita dall’aeroporto, attraverso una porta girevole, resistendo a stento alla tentazione di rientrare. E come dimenticare i viaggi notturni con gli autobus della Greyhound: un gelo! Altro aneddoto che mi viene in mente è il condizionamento in auto, molto più potente di quello disponibile sulle nostre auto, al punto che in Texas, su una Renault R9 presa a noleggio, ero costretto a spegnerlo per superare le salite! Infatti, l’uso locale è quello di affrontare le colline di petto, senza sbancamenti di sorta e, quindi, con pendenze proibitive per autovetture non sufficientemente potenti. Tutto ciò per concludere che non sono affatto stupito dall’aumento dei contagi negli USA. Pensiamo infatti a un viaggiatore che prende l’aereo, transitando per gli aeroporti di partenza e di arrivo, e noleggia un’auto, forse non sempre sanificata a dovere: è chiaro che il rischio è molto superiore a quello affrontato da chi si limita a viaggiare con la propria auto.

Ricapitolando: meglio evitate i locali chiusi, inclusi i mezzi di trasporto (navi, aerei, treni e auto a noleggio), molto frequentati e con aria condizionata, specie se troppo forte, quando non c’è un minimo di controllo all’accesso come la rilevazione della temperatura corporea.




Il Covid e il clima L’Italia è veramente fra gli ultimi della classe?

Diciamoci la verità: la nostra gestione della pandemia da coronavirus non è stata impeccabile. D’accordo, il virus non è nato da noi – almeno su questo punto non ci sono obiezioni – ma che dire del fatto che, nonostante ci fossero una trentina di paesi tra noi e la Cina, come un politico sottolineò prima dello scoppio della pandemia, questa in occidente è iniziata proprio da noi? Come noi abbiamo sottovalutato l’abilità dei paesi orientali nella loro guerra al virus – ti pare che il nostro sistema sanitario, così osannato, non sappia far di meglio dei paesi orientali fino a pochi anni fa sottosviluppati? – i nostri “alleati”, a cominciare dai paesi UE hanno forse fatto lo stesso ragionamento nei nostri confronti: i soliti italiani pasticcioni. E invece, uno dopo l’altro, chi più chi meno, si sono ritrovati con gli stessi nostri problemi.
Ormai sono trascorsi ben quattro mesi dal cosiddetto caso uno di Codogno e una lettura dei dati ufficiali pubblicati dai vari paesi evidenzia delle graduatorie che andrebbero quanto meno “pesate” tenendo conto della popolazione di ciascuno. Ma è solo questa la variabile da tener presente per confrontare correttamente la bontà della risposta di ciascun paese. Anticipo la risposta: no!
Per non disperdere troppo l’analisi, concentrerò l’attenzione su due paesi che hanno un minimo di analogie con noi: il Regno Unito e la Grecia. Il primo, per dimensioni fisiche (superficie e lunghezza delle coste) e demografiche (numerosità della popolazione) è paragonabile all’Italia. Il secondo ha un clima e uno sviluppo industriale non troppo diverso dal nostro meridione, che non a caso era un tempo definito come la Magna Grecia. Inoltre, almeno in apparenza, la Grecia avrebbe avuto risultati molto migliori dei nostri e cercherò di indagarne il motivo.
Prima di passare ai numeri dei contagi e dei morti da (o con?) covid, è d’obbligo premettere, come sempre fa il prof. Ricolfi, che essi hanno un basso grado di affidabilità. Molti concordano sul fatto che i contagi effettivi siano di almeno un ordine di grandezza superiori a quelli ufficiali. In quanto ai morti, quanti sono quelli che sono deceduti senza che venisse loro mai fatto alcun tampone e, quindi, esclusi dal conteggio?
Prendo quindi per buoni i dati pubblicati dalla Johns Hopkins University e assumo che l’errore sia paragonabile per i paesi presi in esame. Trascuro anche l’influenza di altre variabili sicuramente molto importanti. Una fra tutte: il grado di socialità delle persone, specie se anziane, in quanto soggette a mortalità notevolmente più elevata.
Ecco i dati aggiornati al 25 giugno:Se ne deduce, in prima battuta, che i britannici siano stati meno abili di noi nella lotta al virus e che, al contrario, i greci siano stati dei fuoriclasse. Per questi ultimi è difficile dimostrare il contrario, ma il divario è veramente così ampio?
Proviamo a scomporre i dati dell’Italia sulla base della sua geografia e – perché no? – della sua storia. In prima approssimazione distinguiamo tra ex Regno delle due Sicilie + la Sardegna da una parte e il centro-nord dall’altra. I puristi obietteranno che parte del Lazio sud-orientale e la provincia di Rieti facevano parte del Regno delle due Sicilie: perdonatemi questa approssimazione.
La suddetta tabella, grazie ai dati della Protezione civile da me ricavati dal sito del Sole 24ore, diventa la seguente:La situazione del centro-nord Italia appare ora ribaltata rispetto al Regno Unito (la risposta al virus è stata meno efficace), mentre il sud dell’Italia mostra ora valori senz’altro molto più elevati ma dello stesso ordine di grandezza dei dati greci. Nel precedente confronto con l’Italia intera, invece, i contagi in Grecia risultavano circa 13 volte inferiori e i morti oltre 30 volte inferiori!
Come si può spiegare tutto ciò?
Consideriamo variabili nuove: quelle ambientali (clima, inquinamento e ventilazione).
Tali variabili non sono indipendenti fra loro: direi che si esaltano a vicenda, come cercherò di chiarire. Innanzitutto preciso che il clima si può ragionevolmente scomporre nelle seguenti variabili: temperatura, umidità relativa, ventilazione e soleggiamento.
È intuitivo che:
– minore è la ventilazione, maggiori sono il ristagno delle sostanze inquinanti e l’umidità relativa,
– maggiore è il soleggiamento e, quindi, l’energia presente nell’aria, maggiore è la capacità dell’ecosistema di ridurre l’umidità relativa e di degradare le sostanze inquinanti,
– maggiore è l’inquinamento, maggiori sono l’umidità relativa e la presenza di microparticelle che, a loro volta, favoriscono l’aggregazione del vapore acqueo in piccole goccioline.
Veniamo alla facilità del contagio, cioè al nocciolo del problema. Se è vero che esso avviene tramite le goccioline di alito emesse dalle persone infette, si tratta di determinare la persistenza di tali goccioline nell’aria: più a lungo tali goccioline si librano nell’aria, maggiore risulterà la probabilità che esse possano essere inalate da qualcuno. La conoscenza del diagramma di stato aria acqua (v. figura in calce) aiuta notevolmente a capire la chimica e la fisica del fenomeno. Senza scendere troppo in tecnicismi, è evidente che:
– tanto maggiore è l’umidità relativa, tanto maggiore risulta la persistenza delle goccioline nell’aria,
– la ventilazione favorisce l’evaporazione dell’acqua e tanto più la favorisce quanto più la temperatura è elevata e l’umidità relativa è bassa.

Infatti, dal diagramma di stato aria acqua si può vedere come la capacità di far evaporare acqua nell’aria cresce in modo molto più che proporzionale con la temperatura. Si immagini di essere ad Abu Simbel (cito tale località perché ci sono stato): ammesso e non concesso che con quel clima si possa starnutire, quanto potrà sopravvivere una gocciolina nell’aria torrida? Una frazione di secondo! Viceversa, a Milano, d’inverno, quando la strada è bagnata come se piovesse ma non sta realmente piovendo . . . non c’è speranza!

Si è spesso dibattuto se il caldo favorisca oppure no la sopravvivenza del virus: dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che il virus non muore per cottura o si indebolisce ma, semplicemente, non ha più il mezzo di trasporto e precipita a terra come una zanzara avvelenata da un insetticida.

Ritorniamo al confronto da cui siamo partiti.

La situazione della pianura padana, parte preponderante del centro-nord Italia, è senz’altro peggiore di quella inglese per mancanza di ventilazione e, anche in conseguenza di ciò, umidità relativa e inquinamento, per cui non si può certo escludere che ciò giustifichi i dati peggiori nel contrasto alla pandemia. Non è un caso che i dati della Lombardia e del Piemonte (senza accesso al mare) siano tra i peggiori anche nell’ambito delle regioni del nord Italia.

Per quanto attiene alla Grecia, possiamo spiegare i suoi dati, migliori del nostro sud, per la sua conformazione (coste più frastagliate e maggiore insularità, quindi, maggiore ventilazione) e per la inferiore latitudine media a cui si trova e, quindi, per il maggior soleggiamento.

Per concludere: non siamo stati certo un esempio da imitare ma nemmeno così sprovveduti come apparentemente si sarebbe potuto asserire sulla base di un’analisi più superficiale.