Tronti

Apriamo il Popolo perduto di Mario Tronti (Nutrimenti): “Non voglio metterla sul sentimentale… Ma devo confessare un disagio… non mi va di trovarmi dalla stessa parte dei benestanti, mentre i nullatenenti stanno dall’altra parte”.  Commovente, da parte   del guru dell’operaismo  Tronti, allora nietzscheanamente  indifferente alla sfera dei “valori”  e algido  teorico della ferrigna “scienza”operaia, partire da un disagio personale legato al  privilegio sociale.  Forse ogni tanto bisogna pur metterla “ sul sentimentale” (in un’altra pagina lo stesso autore confessa le proprie lacrime di rabbia…). Proprio il vecchio Marx, molto malato ad Algeri, scriveva a Engels che gli dava conforto solo il chiaro di luna  sulla superficie marina (il chiaro di luna che quei fessi dei futuristi intendevano abolire!). Entrare all’Auditorium alle 9 di sera e pensare a chi si sveglia alle 6… Da che parte stare, con i “benestanti”? No, certo, dalla parte degli oppressi, degli umiliati e offesi. Aggiungo solo, stavolta rileggendo Marx,   proprio in nome di ciò che, nonostante il privilegio, è  “umiliato” e  “offeso” anche dentro di me, ma su questo tornerò dopo.

L’intero libro è punteggiato da riflessioni originali e penetranti – sull’Europa e l’internazionalismo, sulla “anomalia Italia”,  sulla folla solitaria della Rete, sulle tre società  che oggi si fronteggiano (garantiti, non garantiti e nove milioni di  esclusi (tra l’altro basandosi su una ricerca della Fondazione Hume), sulla forma-mondo, sul capitalismo post-industriale, sul femminismo della differenza –  all’insegna del motto trontiano “pensare estremo, aggire accorto”. Credo però che nel cuore del libro ci sia una contraddizione su cui vale la pena soffermarsi. Da una parte infatti l’autore chiede alla politica di reimmergersi nel vissuto delle persone, nel vivere quotidiano delle persone semplici, e si richiama al senso civico dei problemi, alla volontà di intervento diretto, all’automobilitazione di base. Dall’altra Tronti  ribadisce di essere  un “uomo di partito”, cita il “moderno Principe”,  ci invita a “ripartire dall’alto”, e soprattutto mostra di avere pochissima fiducia nel  singolo, nella persona, che ad esempio  – come scrive – “non ha il tempo, il modo, l’agio di occuparsi delle polveri sottili”. E perché mai? Mi sembra di tornare alla antropologia riduttiva della classe operaia  anni ’60 da lui definita “rude razza pagana”, cioè priva di slanci ideali, nobili passioni, interessi diversi dal salario  e infine di umanità! Ho l’impressione che Tronti sia rimasto, fuori tempo massimo,  intimamente leninista (qui elogia varie volte Lenin). Negli  anni ’60 aveva scritto “Lenin in Inghilterra”, un saggio fulminante  scritto in uno stile percussivo (forse poco rispettoso della “realtà”, dell’empiria, ma suggestionò una intera generazione). Ora forse vorrebbe  scrivere “Lenin nell’Italia dell’antipolitica”. Ma il nostro orizzonte deve  essere ancora  quello leninista (solo “corretto” da un po’ di “egemonia” gramsciana)?

Punctum dolens è il giudizio svalutativo sul Partito d’Azione (cui si sarebbe oggi ridotto oggi il PD), che secondo Tronti significa andare alla guerra disarmati. E ad esso contrappone persino  la doppiezza togliattiana, per lui assai più saggia e realistica. A me sembra che oggi il meglio dell’azionismo, al netto del moralismo predicatorio e di altri difetti su cui esiste  una sterminata bibliografia,  sopravviva non tanto nel PD come Partito Radicale di massa quanto nelle buone pratiche di cittadinanza, nelle comunità  argentine di nonni e bambini di cui parla Naomi Klein, in Occupy Wall Street, nelle esperienze di cooperazione e consumo critico, nella rete di contropoteri che già qui ed ora ci modificano e ci liberano. Negli anni ’80, Vittorio Foa, esponente della tradizione azionista, scrisse un prezioso libriccino sulle lotte operaie in Inghilterra: la Gerusalemme rimandata. Impegnati a riorientare politicamente  le masse, a “riprenderci” il popolo,  a riformare  improbabili partiti, quanto ancora la rimanderemo? La novità più bella degli ultimi decenni è il revival di un filone libertario fondato sulla pratica degli obiettivi: Colin Ward, Paul Goodman, Saul Alinsky, Ivan Illich…. Il  governo locale come  scuola di civismo politico: negli organismi di base si forma un cittadino responsabile e consapevole  che si prende cura di sé e del bene comune. Dove altro si può formare? Nelle scuole-quadri dei  partiti?  Ne parlò Giolitti alla Costituente: “la garanzia essenziale del regime democratico è l’autogoverno, che è fondato sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino”. Ecco, non vede Tronti che  Togliatti e De Gasperi condividevano l’idea di una immaturità dell’autogoverno ( e quindi dell’individuo), e anche perciò respinsero la proposta Dossetti-Moro di introdurre nella Costituzione il “diritto di resistenza” perché avrebbe ridotto il ruolo dei partiti. Può darsi che allora avessero buone ragioni, ma oggi?  Rileggiamo  gli Scritti politici di Carlo Levi, giellista, dove il senso  della politica non è la riscoperta del ceto politico ma “un diverso e rinnovato interesse al concetto di responsabilità”(Bidussa).

Tronti confessa una  simpatia per Giorgio Gaber. Bene. Carlo Levi esortava a sconfiggere il fascismo “dentro di noi”. Cito da Gaber: “Non mi fa paura Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me”. Sì, ritroviamo il popolo perduto. Ma anche noi siamo “popolo”. Anche noi siamo “periferia”.  Ripartiamo dalle nostre paure e insicurezze, dal nostro pervicace attaccamento ai privilegi e dalla nostra inconfessata xenofobia. E anche però dalla nostra capacità di resistenza e spirito critico. Per Tronti l’individuo da solo, con le sue capacità,  non ce la fa. Eppure dovremmo avere fiducia, al di là di ogni determinismo sociologico,  negli individui –  nella loro iniziativa autonoma,  nella loro immaginazione, nel valore di contagio della loro azione –  dei quali invece diffidano da sempre sia la tradizione comunista che quella cattolica. L’individuo non è la monade borghese,  chiusa nel suo egoismo autoreferenziale, il capitano di industria senza scrupoli  del neoliberismo, ma anzitutto colui che pensa (“si pensa da soli”, Hannah Arendt) e che  dice no al potere: “mi rivolto dunque siamo”(Camus). Il singolo che si ribella prefigura la  comunità. Ma noi ci  crediamo all’individuo?




La linea d’ombra dell’esperienza

A proposito della mania attuale dell’ “autorealizzazione”, e delle riflessioni di Luca Ricolfi sulla volontaria sequestrata in Kenya (Silvia Romano), vorrei aggiungere qualcosa. 

Anzitutto una premessa. Può darsi che da quella scelta derivassero alla ragazza gratificazioni  particolari, e che da essa venisse nutrito il suo narcisismo. Per rispetto verso Silvia Romano bisognerebbe però riconoscere una cosa. Il solo fatto di far coincidere autorealizzazione e altruismo, piacere e sacrificio di sé, abnegazione e vanità, mi sembra comunque una conquista altissima, che evita tra l’altro qualsiasi approccio moralistico alla morale (la benevolenza è almeno altrettanto naturale e “gratificante”dell’ aggressività).

Mi soffermo però sull’aspirazione universale –  che caratterizza il nostro presente –  alla felicità personale e appunto all’autorealizzazione (a tutti i costi),  sulla ossessione della creatività. Si ritiene infatti che esista un diritto alla creatività e al talento: tutti poeti, come volevano i surrealisti! Tutti romanzieri! Tutti virtuosi del clarinetto! E invece il talento è distribuito in modo disuguale. Dio è tendenzialmente di destra. Dunque quella aspirazione, essendo perlopiù disattesa, genera frustrazione e invidia. In altre epoche e in altre civiltà si accoglie serenamente il proprio destino, si accetta la parte –  sia pure essa “mediocre” –  che il caso ci ha assegnato. Non ci si sente tutti artisti incompresi, vittime di qualche complotto. Che fare? Dobbiamo auspicare  l’amor fati degli stoici o magari una rassegnazione   alla provvidenza, come la Lucia manzoniana? Suggerisco due risposte possibili.

La prima è tentare di vedere la “creatività” là dove uno di solito non la cerca,  magari in una nostra attività anonima, silenziosa, fuori dai riflettori. Una volta Borges dichiarò di essere orgoglioso non dei libri che aveva scritto ma di quelli che aveva letto!  Non sarà ricordato nelle storie letterarie per questo. Eppure era orgoglioso dei libri letti. Bisognerebbe contribuire a diffondere modelli diversi di creatività.  Rivalutare la creatività che si manifesta come passività ricettiva, come attività  appartata,  ad esempio come gusto di un lavoro ben fatto, di una soluzione ingegnosa a un problema pratico, etc. (anche senza che ci siano spettatori o testimoni). E passo al secondo punto, che riguarda l’esperienza.

Nella Linea d’ombra di Conrad il giovane al suo primo comando scopre che la “realtà” non si trova lì dove se l’aspettava. L’esperienza vera non è infatti sfidare tifoni e tempeste – e passare alla Storia -, esponendosi  intrepidamente a qualche prova eroica (un po’ troppo pianificata e in fondo “letteraria”), ma sopportare 21 giorni di imprevista, prosaica  bonaccia, senza cedere alla follia. L’esperienza vera non coincide tanto con l’avventura spettacolare, con l’Impresa di Fiume,  quanto  con la esperienza della nostra sostanziale impotenza di fronte alla realtà. La maturità per Conrad consiste precisamente in questo: accettare la noia, l’opacità  e il vuoto che sono parte dell’esistenza (senza perdere la testa),  elaborare volta a volta strategie adattive  di fronte agli eventi, saper attendere e  soprattutto però tenersi pronti, cogliere l’occasione che anche la situazione più sventurata può implicare.




La “funzione” intellettuale

Qualche giorno fa un caro amico –  Giuseppe Samonà, bravissimo scrittore, che vive da anni a Parigi –  mi diceva che questo, specie visto da fuori, è un governo fascista: destra sociale + xenofobia. Va bene l’eterno fascismo italiano di cui parlava Carlo Levi nel 1944. O se volete il fascismo come gobettiana autobiografia della nazione.  Il fascismo insomma  come forma moderna (per quanto di una modernità  in parte stravolta) di un tratto antico del nostro carattere, diciamo almeno dal ‘600 (per il momento non andiamo oltre e lasciamo perdere la furbesca impostura di sor Ciappelletto, nel Decameron): conformismo, cialtroneria, intolleranza, piccolo egoismo quotidiano, gusto della spettacolarità, vigliaccheria, retorica, opportunismo,  e anche modi spicci, una inclinazione alla brutalità e un ruvido realismo (aspetto ben presente al Thomas Mann di Mario e il mago). Ora, fortunatamente oggi non c’è lo squadrismo, l’intimidazione fisica, se non in frange estreme (CasaPound). Una volta infatti assistendo a un comizio leghista strappai, in un momento di rabbia, un loro volantino. Nessuno mi ha né detto né fatto alcunché.

Ma direi che alcuni di quegli elementi li ritroviamo nel popolo di Salvini (guasconeria, nazionalismo “con le palle” e a tempo scaduto, l’egoismo del “me ne frego” …), altri nel popolo di Saviano (ipocrisia, snobismo conformista, le magliette rosse come segno di distinzione, eroismo magniloquente, esibizione di indignazione, che diventa una “professione”, il disprezzo per chi la pensa diversamente sulla situazione presente). La mia potrebbe essere considerata una pericolosa equidistanza tra i due. Credo invece che Salvini abbia oggi molte più responsabilità di Saviano, anche solo per aver imposto, in modi spesso paranoici, la migrazione come la questione più drammatica e urgente per gli italiani (e non è esattamente così). Ma credo che anche persone che abbiano un orientamento di sinistra e sensibilità umanitaria debbano essere un po’ più vigili nei confronti di una retorica tipica della propria parte (per il critico americano Lionel Trilling l’indignazione è la emozione caratteristica della classe media), e che diano più ascolto a umori e stati d’animo che provengono non dalla casta ma dal basso, dal sottosuolo sociale. Né condivido questo febbrile protagonismo degli intellettuali, che non rinunciano a un ruolo pubblico ormai obsoleto. Qual opinion maker oggi è davvero autorevole? Altra cosa è invece rivendicare la “funzione” intellettuale, il pensiero critico socraticamente presente in ciascuno. Proprio Carlo Levi diceva che il nostro compito è sconfiggere anzitutto il fascismo “dentro di noi”. Ecco, sconfiggere il razzismo dentro di noi, in tutte le sue forme. Sarebbe già molto.