Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia

In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.

Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.

«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.

Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.

Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».

E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo  di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media –  i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi  decisi a scendere in campo 150  rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici.  Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».

Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.

In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.

Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?

Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?

Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?

Purtroppo non si intravedono vie di uscita.

Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020




Siamo un popolo che non perde la testa

Una grande potenza come la Cina scatena – non si sa se per colpa dei suoi laboratori di ricerca o per i mancati controlli dei mercati alimentari e dei macelli – la più grande pandemia che si ricordi dal tempo delle pestilenze medievali, per quanto terribili territorialmente limitate; mette in crisi l’economia planetaria, unendo i continenti in una comune tragedia; stravolge i modi di vivere di società che si sentivano sicure dai flagelli antichi, al riparo delle loro tecnologie. Eppure il grado di maturità degli italiani è così alto che non si sono avute recriminazioni incomposte, maledizioni da parte delle vittime del covid19, episodi razzisti. Nessun sit in dinanzi alle ambasciate cinesi, nessun assalto ai megastore che in certe città hanno cambiato il volto di vecchi quartieri, nessuna condanna, nessuna esecrazione degli eredi di Mao. Qualcuno ha fatto notare che un regime democratico non avrebbe tenuto nascosto un “incidente” mille volte più esiziale di Chernobyl e che i ritardi nel darne l’annuncio hanno comportato un costo specie per l’Occidente. Quasi nessuna accusa, però, si è levata contro la Cina: una terribile disgrazia può capitare a tutti. C’è persino qualche giornalista “liberale” che s’è affrettato a elogiare l’industria e la chimica cinese alla notizia che si stava preparando un vaccino antivirus da distribuire urbi et orbi senza ricavarne alcun vantaggio economico (come avrebbero fatto le potenze capitalistiche). Se la notizia fosse stata confermata, chissà, avremmo dovuto chiedere scusa al rosso-celeste Impero per aver parlato di ritardi nell’informazione. Questa è civiltà! E certo nulla sarebbe cambiato se la pandemia fosse venuta dagli Stati Uniti, dall’Ungheria, dal Brasile.. Comprensione, solidarietà, rassegnazione, in nome dell’ever green “legge del Menga”, sarebbero state riservate anche ai governi di Washington, di Budapest e di Brasilia. O sbaglio?




La lezione di Weber anti ideologie: c’è il vero senza dover essere né bello né sacro né buono

Se Alexis de Tocqueville, stando a Raymond Aron è, il più grande pensatore politico del XIX secolo, Max Weber – di cui quest’anno ricorre il centenario della morte – sicuramente lo è del Novecento. Morti entrambi in età non certo avanzata (a 54 anni il primo, a 56 il secondo) hanno lasciato un’impronta decisiva sul loro tempo come sul nostro. L’uno col suo concetto di “democrazia” – non un regime politico ma uno stato sociale caratterizzato dall’eguaglianza delle condizioni ovvero da diritti non ascritti in virtù della nascita, del ceto, dell’ufficio – l’altro con la sua tesi della burocratizzazione dell’esistenza – la “gabbia d’acciaio” in cui il processo di razionalizzazione, innescato dall’economia capitalistica, dal prodigioso sviluppo delle tecnica e della scienza, ha imprigionato l’uomo contemporaneo – hanno messo a fuoco l’architrave della società moderna. A Weber, tuttavia, va riconosciuta un’ampiezza di interessi culturali ben diversa da Tocqueville. Non c’è quasi grande tema della modernità che egli non abbia trattato e su cui non abbia lasciato analisi profonde tutt’ora al centro del dibattito teorico. A cominciare da quello – spesso frainteso – dei nessi tra etica protestante e spirito del capitalismo. Weber non disse mai che il protestantesimo è il padre del capitalismo: il suo intento non era quello di stabilire l’efficacia causale delle idee religiose quanto la loro indipendenza analitica. Questo significa che, nella ricostruzione della genesi del capitalismo, ci si deve chiedere perché fattori materiali che si ritrovano nell’antichità classica come nelle civiltà orientali – economia monetaria, crescita della popolazione, aumento dei metalli preziosi, mobilità occupazionale, libertà di commercio  – non abbiano prodotto dovunque la moderna società di mercato. La risposta, per Weber, andava ricercata nei fattori attitudinali (industriosità e spirito acquisitivo): «La smodata sete di guadagno degli asiatici in generale non trova, notoriamente, eguali nel resto del mondo. Tuttavia si tratta di una “spinta al guadagno” perseguita con ogni possibile mezzo, inclusa la magia universale. Ciò che manca è proprio quel che è stato decisivo per lo sviluppo economico dell’Occidente: la traduzione e l’immersione razionale della spinta al guadagno economico e dei suoi corollari, in un sistema di etica del comportamento, mondana e razionale – ad es: “l’ascetismo mondano” del Protestantesimo in Occidente».

La costruzione dello Stato, il diritto moderno, il disincanto del mondo, il pluralismo dei valori, il nesso tra religione e civiltà, il futuro del capitalismo, il carisma politico e il destino della democrazia nella società di massa, la distinzione tra etica dell’intenzione (quella del fiat justitia pereat mundus) ed etica della responsabilità (che calcola le conseguenze dell’agire), la dialettica tra movimenti sociali e istituzioni politiche, il processo di secolarizzazione, la metodologia delle scienze storico-sociali: sfido a trovare un libro rilevante su ciascuno di questi argomenti che non si confronti con l’autore del Lavoro intellettuale come professione (1919).

Eppure nonostante questa presenza mai venuta meno Weber è uno dei pensatori più lontani dal Weltgeist del XXI secolo. E per due ordini di ragioni. La prima sta nell’obbligo imposto allo studioso di conoscere i fatti in maniera wertfrei (avalutativa) “sine ira ac studio”. Scrive in una straordinaria pagina de La scienza come professione. «Quando uno parla sulla democrazia in una riunione popolare» ha il dovere di «prendere partito in modo chiaramente riconoscibile. Le parole di cui ci si serve non sono in questo caso mezzi per l’analisi scientifica, bensì di propaganda per trar dalla nostra parte gli altri. Quelle parole non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta. Ma in una lezione o in un’aula un simile uso della parola sarebbe sacrilego. Se vi si parlerà di “democrazia”, se ne osserveranno le diverse forme, se ne analizzerà il modo in cui esse funzionano, si stabilirà quali siano le singole conseguenze dell’una o dell’altra nella vita pratica, e poi vi si contrapporranno le altre forme non democratiche dell’organizzazione politica e si cercherà di giungere fino al punto in cui l’ascoltatore sia in grado di poter prendere posizione secondo i propri supremi ideali. Ma il vero maestro si guarderà bene dal sospingerlo, dall’alto della cattedra, a prendere un qualsiasi atteggiamento, sia esplicitamente sia con suggerimenti: giacché è il metodo più sleale, quello di «far parlare i fatti». In un paese, come il nostro, intossicato dall’ideologia – che chiede alla cattedra non di far conoscere il fascismo (o il comunismo) ma di inculcare l’odio per il fascismo (o per il comunismo) – sono parole di colore oscuro.

La seconda ragione sta nella “classicità” di Weber, nel sentimento tragico della vita che abbiamo oggi del tutto rimosso. Per noi, i “cattivi” sono ineliminabili ma è rassicurante che la nostra intelligenza – razionalista e universalista – sappia individuarli con certezza. Per Weber, invece, i valori sono spesso conflittuali e incompatibili. Come scriveva nel 1919 «Oggi riconosciamo che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto che non sia bello ma perché e in quanto non è bello (ne trovate le prove nel capitolo 53 d’Isaia e nel salmo 21); e che qualcosa può essere sacro non solo malgrado il fatto di non essere buono, ma proprio perché non lo è, così come c’informa di nuovo Nietzsche, e nel modo che voi già trovate illustrato nei Fiori del male, come Baudelaire chiamò la sua raccolta di poesie; ed appartiene al buon senso di tutti i giorni riconoscere che qualcosa può essere vero sebbene non sia ed anzi perché non è né bello né sacro né buono».

E’ un discorso non certo congeniale a un’epoca come la nostra in cui il “buono” cancella tutte le altre virtù antiche e moderne e la statua di Cristoforo Colombo viene fatta a pezzi.

Pubblicato su Il Dubbio del 20 giugno 2020




Liberalismi tra libertà civili e politiche E lo Stato fa da braccio armato del diritto

A mio avviso, il fatto nuovo del nostro tempo è il grande scisma che ha investito il mondo liberale. Negli anni ’70 un assistente universitario che aveva chiesto di poter insegnare Storia delle dottrine politiche in una facoltà letteraria del Nord, aveva incontrato il veto di un noto antichista che aveva obiettato al suo sponsor: «Ma è un liberale!». Il veto rientrò dietro assicurazione che il candidato era, sì, liberale, ma vicino a Norberto Bobbio. Se fosse stato un simpatizzante di Giovanni Malagodi rien à faire. In seguito, siamo diventati tutti liberali al punto che, tranne forse il Manifesto non c’è quotidiano o schieramento politico che non si dichiari ligio a Locke, a Montesquieu, a Constant.

Oggi, però, grazie soprattutto ai dibattiti su populismo, nazionalismo, sovranismo, l’unanimità si va dissolvendo come i nostri bellissimi ghiacciai e ci si va rendendo conto che l’etichetta liberale copre due bottiglie diverse.

Una bottiglia contiene il liberalismo storicista, l’altra il liberalismo universalista. L’uno nasce nell’età romantica con Edmund Burke, con M.me de Stael, con Benjamin Constant come critica al razionalismo rivoluzionario in guerra con la tradizione, la storia, la comunità politica etc.. L’altro nasce nel ’700 come critica delle istituzioni secolari – gli Stati d’ancien régime – che non riconoscono i diritti degli individui. Il liberalismo universalista appartiene alla famiglia per così dire mercatista (o liberista) dell’illuminismo e, pertanto, è decisamente ostile al ramo giacobino e poi socialista. Ad accomunare i due fratelli coltelli, tuttavia, è il fatto che, per entrambi, i diritti individuali sono al centro della legittimazione politica: lo Stato è unicamente al servizio dei cittadini al di sopra dei quali ci sono soltanto ‘astrazioni’, fantasmi inquietanti, divinità esigenti che possono imporre perfino il sacrificio della vita. La differenza rinvia alla  diversa estensione dei diritti che debbono venir tutelati: per i liberisti, vanno assicurati l’ordine pubblico, il rispetto dei contratti, le libertà civili e quelle politiche; per i loro avversari, queste ultime non hanno senso se non vengono garantiti dallo Stato i diritti sociali: alla salute, alla casa, al lavoro etc. Ivan Krastev e Stephen Holmes, autori de La rivolta antiliberale. Come l’Occidente sta perdendo la battaglia per la democrazia (Ed. Rizzoli) scrivono, quasi con rimpianto, che il periodo della guerra fredda ha visto lo scontro «di due ideologie universalistiche – liberalismo occidentale e comunismo sovietico – entrambe nate dalla tradizione dell’illuminismo europeo» e che la mancanza di alternative ideologiche è un problema con cui dovremo confrontarci a lungo. Ma siamo poi sicuri che i ’fratelli germani’, con la ‘fine della Storia’, non stiano per riconciliarsi?

La comune opposizione al ‘sovranismo’ in realtà, sembra ricongiungere l’illuminismo occidentale e l’illuminismo postcomunista in una sorta di union sacreé contro il neo-comunitarismo, visto come reincarnazione del fascismo: il vecchio vizio illuministico di far di tutta l’erba un solo fascio (littorio). Sennonché come l’illuminismo anche il Romanticismo ha avuto un parto gemellare, lo storicismo liberale e il tribalismo ideologico. Entrambi hanno valorizzato le ‘radici’, le ‘eredità’, le affinità profonde ma mentre il primo ne ha fatto il terreno concreto su cui costruire le istituzioni della libertà, il secondo lo ha eretto a Moloch a cui tutto sacrificare. Gli eventi tragici sfociati nelle due guerre mondiali hanno portato gran parte del pensiero politico contemporaneo a una demonizzazione insuperabile dello ‘Stato nazionale’ su cui si è riversata la stessa fatwa che gli illuministi avevano emesso contro le monarchie assolute. E’ una condanna che ha finito per investire lo Stato in quanto tale, tollerato ormai solo in quanto braccio armato del Diritto. Nel suo commento a Montesquieu, Condorcet aveva scritto: «Non si vede perché tutte le province di uno Stato o anche tutti gli Stati non debbono avere le stesse leggi criminali, le stesse leggi civili, le stesse leggi che regolano il commercio. Una buona legge deve essere buona per tutti gli uomini, come una proposizione vera è vera per tutti». Per i liberali illuministi, grazie all’Europa (primo passo verso gli Stati Uniti del Mondo), grazie alle istituzioni internazionali e agli accordi finanziari sempre più vincolanti tra gli stati, la verità enunciata da Condorcet seppellirà le differenze artificiali mantenute in vita dagli Stati nazionali.

Cosa ci riserva il futuro non è dato sapere. Va rilevato, comunque, che la filosofia universalista non garantisce la pace perpetua. A ragione o a torto, uomini e donne rivendicano la diversità come un valore e chiedono all’autorità politica di proteggerla, anche a costo di limitare i diritti. Come ha scritto Umberto Vincenti in un saggio magistrale, La religione dei diritti umani (in Giuseppe Valditara, a cura di, Sovranità democrazia e libertà, Ed. Aracne): «I diritti nati per liberare gli uomini dai vincoli della cetualità medievale e delle religioni di Stato hanno finito con il promuovere la libertà di azione del singolo in ogni dove, spesso in danno di altri e dell’interesse generale o diffuso». Ma possono esistere, si chiede il giurista, “sovranità popolare e democrazia se al popolo” è “interdetto di decidere, almeno oltre una certa misura, sulla libertà d’azione dei singoli individui”? Quello di Vincenti è il liberalismo storicistico che dall’800 arriva fino a Benedetto Croce, Rosario Romeo, Renzo De Felice. Forse i libertarian genere Alberto Mingardi non hanno ancora vinto la partita.

Pubblicato su Il Dubbio del 9 maggio 2020




Voltaire e l’illuminismo oscurato dalle catastrofi

Commentando il terremoto di Lisbona del 1755 il filosofo rifletteva sui limiti della ragione umana

Mentre nel mondo infuria il Covid19, rileggersi Voltaire, come faceva il compianto Piero Ostellino nei suoi ultimi anni, può essere un tonico per l’intelligenza e un richiamo alla virile accettazione della realtà. Voltaire, è noto, rimase, come i suoi contemporanei del resto –philosophes e uomini comuni – sconvolto dal terremoto di Lisbona che, nel 1755 provocò, vittime e macerie non solo in Europa ma, altresì, in Africa (nel regno di Fez). Nella sola capitale del Portogallo crollarono ottanta edifici su cento e morirono sessantamila persone su duecentomila. Il terribile evento ispirò al filosofo un poema di struggente bellezza, Le desastre de Lisbonne (1756) che più di altri scritti, non meno famosi, compendia la sua visione del mondo, della natura, degli uomini, di Dio.

Principe indiscusso dell’età dei Lumi, Voltaire è sempre meno letto o, almeno, se ne conoscono alcune opere teatrali (sia pure indirettamente, ad es. la “Semiramide” che ispirò il melodramma di Gioacchino Rossini o l'”Alzira” messa in musica da Giuseppe Verdi), l’ever green Trattato sulla tolleranza o il celeberrimo Dizionario filosofico. Della sua vastissima produzione filosofica e letteraria, però, si sa ormai poco. Per questo si è grati a Domenico Felice – uno dei maggiori studiosi italiani di Voltaire e di Montesquieu – per aver distillato il meglio delle riflessioni voltairiane sulla condizione umana in un voluminoso ma godibilissimo Taccuino di pensieri. Vademecum per l’uomo del terzo millennio (Ed. Mimesis con una sobria e illuminante  Prefazione di Ernesto Ferrero). Gli ideari non sostituiscono la lettura diretta delle opere di un autore ma attivano l’attenzione su quelle che interessano di più e di cui spesso non si era nemmeno sentito parlare.

In riferimento al tema della catastrofe naturale, che da mesi occupa le prime pagine dei giornali, il Taccuino può costituire un’ottima guida al Disastro di Lisbona nel senso che ci permette di inquadrarne il “messaggio” nel più vasto ambito dell’etica di Voltaire. Innanzitutto ci fa capire che il suo illuminismo non ha nulla a che vedere con “le magnifiche sorti e progressive” su cui ironizzava il nostro Leopardi. Per Voltaire la ragione non è la pietra filosofale che rende immortali, onniscienti e dominatori delle forze avverse di natura ma è il bastone che permette all’umanità sofferente di non inciampare nelle passioni perverse, nelle superstizioni, nelle tirannidi che aggiungono ai mali che già ci ritroviamo quelli dovuti alla nostra insipienza. «Se questo è il migliore dei mondi possibili, che mai saranno gli altri?» dirà Candido il più famoso dei suoi personaggi.

«Dai più piccoli insetti sino al rinoceronte e all’elefante, si legge in Prendere partito, la Terra non è altro che un vasto campo di guerre, di imboscate, di carneficina, di distruzione; non vi è animale che non abbia la sua preda e che, per catturarla, non impieghi l’equivalente dell’astuzia e della ferocia con cui l’esecrabile ragno cattura e divora l’innocente mosca». Eppure queste considerazioni, che sembrano preleopardiane non gli impediscono di prendere «il partito dell’umanità» contro quel «sublime misantropo» che è Pascal. L’uomo, obietta al filosofo, «non è un enigma. L’uomo appare al suo posto nell’ambito della natura: superiore agli animali ai quali è simile per gli organi, inferiore ad altri esseri ai quali probabilmente somiglia per il pensiero. Egli è, come tutto ciò che vediamo, un misto di bene e di male, di piacere e di dolore. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le proprie azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e i pretesi contrasti, che voi chiamate “contraddizioni”, sono gli ingredienti necessari che costituiscono quel composto che è l’uomo, il quale è ciò che deve essere». Ma come è lontano da Pascal così lo è da Rousseau che, in una lettera dell’agosto 1756, sempre parlando di Lisbona, lo accusava di ateismo e di non considerare che «questo universo materiale non deve essere più caro al suo Autore di un solo essere che pensa e sente. Ma il sistema di questo universo che produce, conserva e perpetua tutti gli esseri che pensano e sentono, gli deve essere più caro  di uno solo di questi esseri. Può dunque, nonostante la sua bontà, o piuttosto grazie alla sua bontà, sacrificare qualcosa della felicità degli individui alla conservazione del tutto». Sembra quasi che nella lettera Rousseau anticipi i temi dell’ecologismo contemporaneo: a Lisbona «dovete convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato minore, e forse non vi sarebbe stato». Ma Voltaire, critico implacabile sia dell’ottimismo razionalistico di Leibnitz e di Alexander Pope, sia di quello preromantico di Rousseau, non trovava nessuna ragione – dal peccato originale  al quale non credeva, all’ordine immutabile dell’universo – per consolarsi delle tante vittime innocenti del terremoto. «La natura è muta e la s’interroga invano/ si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano/ Solo lui può spiegare il suo disegno/consolare il debole, illuminare l’ingegno».

E tuttavia questa sensibilità che fa di Voltaire più il figlio di Montaigne che il padre di Condorcet si traduce in un atteggiamento stoico che lo porta – allontanandolo dal trionfalismo illuministico – ad una sorta di etica del destino. «Come voi, scrive ad Allamand nel dicembre 1755, ho pietà dei Portoghesi, ma gli uomini si procurano più male gli uni agli altri sul loro piccolo mucchio di fango di quanto faccia loro la natura. Le nostre guerre massacrano più uomini di quel che ne inghiottono i terremoti. Se a questo mondo fosse da temere soltanto la sorte di Lisbona, ci si troverebbe ancora abbastanza bene». La ragione ci serve per evitare il peggio, non certo per costruire una città dell’uomo immune da ogni imperfezione. Per questo Robespierre si oppose alla traslazione al  Pantheon dei suoi resti morali.

Pubblicato su Il Giornale dell’11 aprile 2020