No, l’unicità dell’Olocausto è innegabile

Il Giornale del Piemonte e della Liguria

8 febbraio 2022

Un autorevole politologo mi scrive che i tanti discorsi e commemorazioni dell’olocausto, gli ricordano ”Leonardo Sciascia e la sua polemica contro la cultura dell’antimafia. Ho cioè l’impressione che gli ebrei |…|abbiano deciso che nessuna persecuzione contro altri sia paragonabile all’antisemitismo. |..| Come gli ‘antimafiosi’ riducevano ogni ‘categoria dello spirito’ al dichiararsi ‘antimafiosi’|…| così gli ebrei hanno deciso che l’antisionismo sia il Male Assoluto e che chiunque si azzardi–non dico a negarlo – ma solo a dire ‘ci sono altri che vengono discriminati’, ecco che gli ebrei insorgono e accusano”, di antisemitismo “Infatti, puntualmente Whoopi Goldberg è stata travolta da accuse di antisemitismo, e tanti prima di lei per posizioni relativiste analoghe.”  Condivido l’insofferenza del collega. Tempo fa un esponente dell’ebraismo italiano chiese che da un documento ufficiale fosse eliminato il riferimento a Martin Heidegger, in quanto il filosofo, tra i maggiori del secolo, era stato nazista. Di questo passo, non sentiremo più Richard Wagner che non fece a tempo a conoscere il Fuhrer (l’amato ‘zio Wolf’ dei suoi figli) ma che sarebbe divenuto un’icona del Terzo Reich (si ricordi la battuta di Woody Allen:”quando ascolto la ‘Cavalcata delle Walchirie’ provo un bisogno irresistibile di invadere la Polonia!”).

 E tuttavia l’unicità dell’olocausto mi sembra fuori questione. Per la prima volta nella storia, infatti, un gruppo sociale veniva sterminato non per la sua religione, non per il suo ruolo sociale, non per la sua cultura ma per una qualità indelebile—la razza– che ne faceva un mortale agente patogeno. La pulizia etnica è altra cosa: certi popoli vengono espulsi da un territorio per renderlo culturalmente omogeneo, le violenze vengono erogate in quantità industriale ma una volta cacciati gli intrusi, la partita è chiusa. Ciò che dell’antisemitismo nazista sconvolge, invece, è il suo ‘universalismo’: i tedeschi si sentivano incaricati dal Genere Umano di sterminare la classe abietta ovunque si trovasse, senza tener conto dei passaporti statali che avrebbero impedito di purificare il pianeta. Per essi le frontiere nazionali non esistevano più: chi più antisovranisti di loro?

 




Dante, Santagata e l’italianità

Uno dei guai dell’Italia è che nessuno si rassegna a fare soltanto il proprio mestiere. Neppure il “grande dantista Marco Santagata” aveva resistito alla tentazione di invadere il campo (non suo) della storia delle idee. Facendo dell’ironia gratuita su Dante “fondatore dell’italianità” aveva detto: “Sono centinaia gli intellettuali che hanno raccontato Dante come l’eroe nazionale. Ma è un ritratto falso. Per Dante, l’Italia non esisteva. Nel suo tempo, che era il Medio Evo, esistevano tante piccole formazioni politiche che si facevano la guerra tra loro. L’idea dello stato nazione è nata secoli dopo, e non poteva rientrare nell’orizzonte dantesco. Dante aveva in mente l’Impero: un’istituzione sovranazionale che doveva garantire la pace, la prosperità e la sicurezza di tutti i cristiani. Ma che vuole, nella storia succede continua-mente che si prendano i fatti culturali e li si rileggano alla luce delle esigenze del momento”.

“Per Dante l’Italia non esisteva” ma davvero? Davvero, almeno quanti di noi avevano fatto il liceo, avevamo dimenticato che, per il ‘ghibellin fuggiasco’, a detenere la suprema legittimità politica era l’Impero—di cui il nostro paese, però, sarebbe dovuto essere lo splendido ‘giardino’? Quante idee sbagliate ci avrebbe trasmesso la vecchia scuola se non ci fossero i demistificatori alla Marco Santagata buonanima e al vivo e vegeto Alessandro Barbero (quello che raccontava in TV che se i Persiani avessero vinto a Salamina per la Grecia non sarebbe cambiato niente, con l’aria beffarda: “beh beccati questa verità scomoda, incarta e porta a casa!”..)! Sennonché da umile storico delle idee faccio rilevare che le ragioni per cui Dante viene ritenuto ‘fondatore dell’italianità’ sono sostanzialmente tre: la linguaLe genti del bel paese là dove ‘l sì suona», (Inf. XXXIII, vv. 79-80) ; la geografia—la sicurezza con cui il Sommo Poeta delimitò i confini d’Italia–«Sì com’a Pola presso del Carnaro, ch’Italia chiude e i suoi termini bagna» (Inf., Canto IX, 113-114); un’etnia culturale ( come diremmo oggi), con una sua individualità e interessi distinti dalle altre: «Ahi serva Italia di dolore ostello/nave senza nocchiero in gran tempesta/ non donna di provincia ma bordello» (Purg. Canto VI,76-78) Per il resto, Dante è un uomo del Medio Evo che mai avrebbe potuto pensare a uno stato nazionale italiano, un progetto che evoca idee rivoluzionarie e la ‘democrazia dei moderni’—patriota è una parola coniata, nella sua sostanza etico-politica, dalla Rivoluzione francese e ripresa nel Risorgimento dai ‘modernizzatori’, nemici giurati dell’Ancien Régime, ovvero degli Imperi e, in ispecie, degli ultimi discendenti degli Asburgo. Del cui Impero il Vate fiorentino fu il convinto cantore: “O Alberto tedesco ch’abbandoni costei ch’è fatta indomita e selvaggia e dovresti inforcar li suoi arcioni”,( Purg.,Canto VI,97-99).  Questo Dante , non a caso, mandava in visibilio i teorici dell’universalismo fascista ,che ritenevano superati i miti della ‘nazione’ e della patria’ e che guardavano non più al Risorgimento ma all’Impero di Roma, alle sue ‘quadrate legioni’, agli Stati-Civiltà etc.,  ma non credo che il buon Santagata avrebbe ‘gradito’ l’antinazionalismo del pagano Julius Evola..

Forse è venuto il momento di finirla con le picconate ai miti ‘scolastici’: la storia non è fatta per épater les bourgeois ma per far capire da dove veniamo e come il passato ha contribuito a renderci quel che siamo. Continui, pertanto, la benemerita ‘Società Dante Alighieri’ a far conoscere al mondo la nostra grande cultura, al riparo dall’ironia dei beaux esprits. Sì, Dante politicamente non ha nulla a che vedere con lo stato nazionale ma, nella definizione di una identità culturale contano solo la politica, il tipo di Stato che si ha in mente, le sue istituzioni? O non anche la lingua, le arti, il territorio, il senso di una ‘comunità di destino’? E se questi ultimi fossero irrilevanti, non sarebbe la riprova di un virus totalitario (“tutto è politica e tutto si risolve in politica!”) da cui stentiamo a liberarci? Si difende un’eredità spirituale, una lingua, una cultura indipendentemente dal tipo di Stato che si ha in mente: Carlo Cattaneo era un grande patriota italiano ma, prima del 48, non gli sarebbe dispiaciuto vedere il Lombardo-Veneto membro di uno ‘splendido dogato’—quale avrebbe potuto essere l’Austria di Maria Teresa e dell’assolutismo illuminato. Forse in un periodo come l’attuale in cui si sono fortemente indeboliti il senso dell’appartenenza e l’orgoglio delle grandi produzioni artistiche e scientifiche che, nel corso dei secoli, si sono registrate nelle diverse regioni della penisola , in anni in cui i fattori culturali sono divenuti irrilevanti (in qualche Facoltà di Lettere si insegnava Letteratura italiana in inglese e si leggevano I promessi sposi in traduzione), c’è qualcuno che può pensare:in mancanza di uno stato unitario italiano, come si può parlare di italianità? In realtà, questa antiretorica è più preoccupante della retorica delle celebrazioni ufficiali.

Ha scritto Giovanni Belardelli, storico delle dottrine politiche e autore del miglior saggio che io conosca sulle idee di Giuseppe Mazzini: “Attraverso il culto di Dante si affermava così la figura dell’intellettuale come moralista, aspro critico dei difetti dei propri connazionali”.

Cito Nicola Mirenzi, Dante l’italiano (“HuffPost del 5 dicembre 2020): “Era fondamentale rifare gli italiani. Secondo la gran parte dei patrioti, lunghi anni di dominio straniero avevano compromesso il popolo, rendendolo vile e corrotto. E l’emblema di questa italianità deteriore divenne Petrarca, che aveva la colpa di essere stato un poeta cosmopolita, a suo agio presso le corti europee. Mentre Dante, no: era rimasto intatto. Ai loro occhi, era l’incarnazione dell’italiano intransigente, l’uomo che aveva scelto con sdegno l’esilio pur di non piegarsi al nuovo potere di Firenze. L’esilio stabiliva una connessione esistenziale tra loro e Dante. Come Dante, anche molti patrioti avevano preferito pagarla cara lontano da casa anziché piegarsi allo straniero. Come Dante, testimoniavano con la vita l’attaccamento alle virtù civiche e all’ideale nazionale. Come Dante, potevano perciò anche permettersi di ridire sugli altri italiani. ‘Spesso gli esuli – mi racconta Berardelli – vivevano in condizioni miserabili all’estero, ma sapere di essere fedeli all’esempio dantesco era di grande conforto morale’”. Tutto vero, tutto innegabile ma le ‘mitologie’ non bastano a fare e a spiegare la storia. Se Dante fosse stato solo l’”italiano intransigente”, l’uomo di carattere con la ‘c’ maiuscola il fatto di essere divenuto il simbolo dell’italianità sarebbe davvero inspiegabile. (E perché Dante e non Francesco Ferrucci se è veritiero l’omaggio che gli tributava Goffredo Mameli: “Dall’Alpi a Sicilia/Dovunque è Legnano/,Ogn’uom di Ferruccio/ Ha il core, ha la mano?”).

Sempre citando Mirenzi, “nemmeno Vittorio Sermonti lasciò mai credere il contrario, sebbene con la lingua di Dante abbia deliziato a lungo gli italiani, e senza ricorrere al trucco dell’icona pop. Nel Centocinquantesimo dell’Unità d’Italia, venne chiamato a tenere tre giorni di lezioni nell’aula del Palazzo dei gruppi parlamentari. Premise che non aveva alcuna voglia di parlar bene dell’Italia, e che ne avrebbe parlato semplicemente con amore. Poi, raccontò che fu Virgilio a inventare la parola Italia, Dante a promuovere ‘le parlate sgangherate degli italiani alla nobile esattezza del latino’ e Verdi a rendere l’italiano finalmente popolare. Si guardò bene dal dire che Dante aveva creato l’Italia. Concesse qualcosa sulla lingua, ma specificando che si trattava di un azzardo: ‘Vogliamo dire che Dante ha fondato le basi teoriche dell’italiano?’ E diciamolo”.

Confesso un profondo fastidio per l’insostenibile leggerezza del pensare. Mettiamo da parte miti, falsi credenze, ingenuità ideologiche e guardiamo ai fatti nudi e crudi: è vero o non è vero che Dante scrisse uno dei più grandi capolavori letterari di tutti i tempi, la Divina Commedia, in italiano (una lingua, sembra, nata non a Firenze ma alla Corte di Federico II con Giacomo da Lentini e altri poeti della sua Scuola)?; è vero o non è vero che per lui l’Italia era, forse, un’espressione geografica ma un’espressione geografica tutt’altro che immaginaria e non priva, in ogni caso, di risonanze sentimentali ? è vero o non è vero che il destino della penisola—i suoi problemi, le sue traversie, le sue memorie—gli stava molto a cuore e che parlando di bolognesi, di veneziani, di genovesi, di pisani, di fiorentini ne parlava come di rami di uno stesso albero sino al punto da sentire le loro ‘peccata’ come vergogne di famiglia?

Giuseppe Mazzini, Ugo Foscolo, Carlo Cattaneo, Cesare Balbo i grandi spiriti del ‘riscatto nazionale’ onorarono tutti in Dante il Padre dell’Italianità: incontrandoli nell’altro mondo, Marco Santagata e Vittorio Sermonti li sottoporranno alla doccia fredda del demisticatore televisivo Alessandro Barbero: “Guardate che Dante non era un patriota. Come credevate voi ma un imperialista?” “Scherza coi fanti ma lascia stare i santi” si diceva nel buon tempo antico.




Le due democrazie

Fa riflettere l’articolo di Marco Damilano, Clima sovrano, pubblicato da ‘L’Espresso’ il 31 ottobre u.s. Al di là della legittima polemica contro le destre, infatti, esso si richiama a una idea di democrazia liberale molto diversa da quella teorizzata e praticata dai paesi euroatlantici che sulla sovranità del demos hanno fondato le istituzioni della libertà. Cito il lungo incipit “Con un voto segreto, autorizzato dalla presidente Maria Elisabetta Alber­ti Casellati, alle ore 13,30 di mercoledì 27 ottobre, l’aula del Senato ha affos­sato il disegno di legge sull’omofobia firmato dal deputato del Pd Alessan­dro Zan. La stessa aula che quattro anni fa al termine della precedente legislatura, con altri rapporti di forza tra i partiti, non era riuscita ad approvare la legge sullo ius culturae. In comune tra le due sconfitte c’è l’indiffe­renza verso le persone, con le loro storie, i loro drammi, i loro volti, il loro desiderio di vivere. La società va da una parte, il Parlamento dall’altra. I sovranisti scelgono i di­ritti come terreno di scontro, i democratici non riescono ad avere la forza politica delle loro buone ragioni, oltre che quella numerica. Si offrono nuove, ottime ragioni alla sfiducia, alla mancanza di credibilità, alla delegittima­zione delle nostre istituzioni democratiche. La democra­zia è più fragile quando i cittadini si sentono traditi dalle aule rappresentative. Ad avvantaggiarsi, è il fronte della negazione. Negano l’esistenza dei diritti delle persone Lgbtq+, degli immigrati, negano la pandemia e gli effetti del cambiamento climatico”. La retorica politica ha le sue regole (non esaltanti) e la squalifica morale dell’avversario è una di esse. Ci si chiede, però, fino a che punto la critica durissima di chi dissente da noi non si traduca in una delegittimazione degli avversari che segna la morte della democrazia come regime in cui partiti diversi si alternano al governo e all’opposizione. Per Damilano, un apprezzato giornalista che si è formato negli ambienti della sinistra cattolica, la bocciatura del ddl Zan attesta sic et simpliciter “l’indiffe­renza verso le persone, con le loro storie, i loro drammi, i loro volti, il loro desiderio di vivere”. Insomma, da una parte stanno i Valori, dall’altra biechi interessi, inconfessabili pregiudizi, cinismo etico. E quanti non negano affatto” l’esistenza dei diritti delle persone Lgbtq+, degli immigrati, la pandemia e gli effetti del cambiamento climatico” ma ad esempio sarebbero stati anche d’accordo con lo spirito della legge respinta dal Senato purché se ne fossero depennati gli articoli 1 e 7, non hanno alcun diritto di venir presi in considerazione. Anche se difendono (e ammettiamo pure con deboli ragioni) valori da tutti condivisi come la libertà di opinione e il diritto di richiamarsi a una teoria antropologica sui sessi diversa dalla filosofia Zan. In un magistrale articolo su ’Repubblica’, I diritti negati dall’ideologia’ del 29 u.s., Carlo Galli ha rilevato che “Il ddl apre anche la porta, sia pure in via indiretta, all’ideologia gender, la cui essenza è politica. Infatti, il nucleo più radicale delle sue formulazioni è che la civiltà occidentale è socialmente e culturalmente strutturata e istituzionalizzata in senso duale, binario, cioè intorno a due soli generi (maschile e femminile), che sono anche identità esistenziali e comportamentali. A tale struttura binaria si oppone il diritto di libera scelta individuale del genere (e in alcuni casi anche del sesso, e sempre della sessualità e dell’affettività): si afferma così una fluidità indefinita delle identità, che dovrebbe frammentare la struttura binaria vigente. Al di là del fatto che una parte del femminismo è ostile alle teorie gender perché, proiettate verso il superamento della logica binaria, rischiano di trascurare la presente disuguaglianza economica e sociale fra uomini e donne, alla (legittima) ideologia del ddl se ne è opposta un’altra – del centro-destra nella sua versione laica e moderata (distinta quindi dalle posizioni reazionarie e intolleranti, che sottotraccia sono pure rilevabili) -. Qui si considerano i problemi di genere come questioni individuali, come casi eccezionali rispetto alla normalità, e le persone coinvolte come soggetti da tutelare nei loro diritti, ma da non considerare come leva per mettere in discussione l’assetto della società. Sullo sfondo–discreta ma ferma, affidata alla Congregazione per la dottrina della fede – c’è poi la posizione ufficiale della Chiesa fondata sulla Bibbia (“maschio e femmina li creò”, dice la Genesi): l’essere umano naturale, nei due sessi e nei due generi, è immagine di Dio, e quindi portatore di una essenza e di una dignità immodificabili. A questa posizione la Chiesa ha richiamato i politici cattolici. Insomma, uno scontro ideologico, e non da poco”.

Ma se questo è vero, indipendentemente dalle convinzioni che ciascuno di noi nutre in cuor suo, un linguaggio come quello di Damilano non è la negazione stessa di quel liberalismo pluralistico, teorizzato da Isaiah Berlin, che vede valori, interessi e idealità da una parte e dall’altra e che, in caso di conflitti tra Weltanschuungen irriducibili, cerca la via del compromesso e della tutela di diritti sui quali si trovano tutti d’accordo? “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Matteo 12,30). In virtù di questa logica, discorsi equilibrati come quelli fatti da Luca Ricolfi o da Mattia Feltri (non certo esponenti di FdI) e da altri politici e studiosi moderati diventano qualcosa di equivoco, che porta acqua (involontariamente?) al mulino della reazione e dell’oscurantismo.

Se ci si chiede, però, cosa ci sia dietro l’intolleranza di Damilano, si scopre che “Though this be madness, yet there is method in it” e che la madness è un prodotto di una concezione della democrazia che viene da lontano, dal momento giacobino della Rivoluzione francese. Nell’articolo si legge che la democrazia “è lo strumento inventato per riequilibrare le disuguaglianze, per garantire le libertà, per consentire a tutti di partecipare alla costruzione del bene comune”. Ne deriva che quando questi obiettivi non vengono raggiunti il Transatlantico di Montecitorio, diventa “sempre più simile alla sua sinistra fama di corridoio dei passi perduti”: “fuori dal Parlamento c’è il popolo dei referendum e della democrazia diretta”. Bisogna pensare pertanto a una “mobilitazione della società” a una “battaglia politica e culturale. Tutto il resto è una scorciatoia che produce una reazione ancora più minaccio-sa”. Insomma non uno ma cento, mille cortei per esprimere l’indignazione del ‘paese reale’ contro il paese legale– il Parlamento–che ne ha tradito le aspettative, non volendo rendere la filosofia Zan pedagogia di Stato.

A leggere certe parole vengono i brividi e il pensiero corre all’aula “sorda e grigia” che ‘quello lì’ avrebbe potuto  trasformare in un bivacco di manipoli o all’esaltazione che Giovanni Gentile faceva   degli artefici dell’unità nazionale “che  quando si trattò di agire e di farla, questa Italia,  sdegnarono il chiacchierio fazioso delle assemblee”; ma corre anche alla intramontabile ideologia italiana che vede nelle forze vive della società civile, nei movimenti per i diritti, nelle rivendicazioni delle minoranze reiette la rousseauiana volontà generale contrapposta alla effimera ‘volontà di tutti’ che si esprime nelle urne. In base a questa filosofia politica, ci sono Valori e Diritti universali di cui le classi dirigenti debbono farsi carico ovvero tradurre in leggi e in istituti, sotto pena di perdere ogni diritto al governo della società. Va da sé che tali diritti e valori siano quelli dell’Illuminismo, depositario della Scienza e della Felicità dei popoli e che tutto ciò che ad essi si oppone va, tutt’al più tollerato, e qualora rispecchi il sentire della maggioranza va neutralizzato con una efficace politica di rieducazione collettiva, fatta anche di dimostrazioni di piazza, proteste, sit in  (Una nota columnist, coerentemente, aveva proposto, nel caso di approvazione del ddl Zan, di non dare più sussidi statale alle scuole private gestite da religiosi che, contrari alla giornata contro l’omofobia, si fossero rifiutati di insegnare che i sessi non sono due come pretende la ‘Bibbia’!).

Sennonché, c’è un’altra visione della democrazia che non la vede come una freccia rossa che non deve mai arrestarsi giacché “chi si ferma è perduto” – come ripeteva uno degli alfieri della ‘democrazia sostanziale” nella sua versione “organizzata, centralizzata, autoritaria”, certo diversa da quella libertaria, dannunziana e sessantottesca ma come questa antiformalista e antiproceduralista. Ed è la visione che si potrebbe definire della ‘democrazia come registrazione’: registrazione dei desideri, delle aspettative, delle esigenze dei cittadini dettate da valori non necessariamente ‘progressisti’ ma egualmente rispettabili giacché sono quelli di cittadini, di persone, che su di essi hanno costruito la loro identità etico-sociale. E’ questo il ‘pluralismo preso sul serio’ e che non ha nulla a che vedere con la retorica pluralistica che apprezza solo la pluralità dei valori (ritenuti) buoni”. Per il primo, non c’è democrazia liberale senza un polo conservatore, che guarda al passato e vuole andare avanti preservandone, nella misura del possibile, le eredità e un polo innovatore che guarda all’avvenire e vuole sgomberare la strada, che da esso conduce, da tutte le catene lasciate dal ‘mondo di ieri’.

Per una parte rilevante dell’opinione pubblica, essere buoni democratici significa elaborare un progetto riformatore, battersi per una estensione indefinita dei diritti individuali e collettivi, in ogni campo. Nulla da eccepire purché si sia disposti poi a rispettare il verdetto della   maggioranza degli elettori   in disaccordo con gli innovatori. (Ovviamente non si parla qui di un governo reazionario deciso a violare le libertà politiche e civili giacché ci si troverebbe allora in una situazione rivoluzionaria dove solo il ricorso alla violenza potrebbe ristabilire le ‘regole del gioco’).

In non pochi ambienti accademici – e già nell’Ottocento – la democrazia procedurale evoca qualcosa di algido, la dittatura del numero, le regole che infiammano i cuori e illuminano le menti quanto un orario ferroviario o un manuale di istruzioni. E non meraviglia giacché, nel nostro paese, è difficile accettare l’idea che la fabbrica di valori sia nella società civile considerata in tutte le sue componenti; la fabbrica dei valori si trova, sì, nella società civile ma in quelle frange politicizzate che fanno da pendant alle masse amorfe, estranee ai grandi ideali della politica, zavorra a disposizione in ogni svolta autoritaria. Sono le minoranze consapevoli che fecero l’Italia nel Risorgimento, che invasero le piazze per chiedere l’intervento dell’Italia nella Grande Guerra, che parteciparono alla marcia su Roma e nel Sessantotto operarono una vera e propria ‘rivoluzione culturale’ (di cui risentiamo ancora gli effetti). Per questo stile di pensiero, della legittimità politica non è depositario il popolo sovrano, né il Parlamento ma le ‘avanguardie’ che mediano tra il primo e il secondo.

Eppure continuiamo a dirci tutti liberali e tra i liberali, che leggono i classici del pensiero politico, non se ne trova uno che non esprima la sua grande ammirazione per Alexis de Tocqueville Ma quanti poi hanno meditato davvero sulla Democrazia in America (1835) di cui riporto un brano inequivocabile?  “I repubblicani negli Stati Uniti apprezzano i costumi, rispettano le credenze religiose, riconoscono ì diritti. Essi professano l’opinione   che un popolo deve essere morale, religioso e moderato in proporzione alla sua libertà. Ciò che si chiama repubblica negli Stati Uniti   è il regno tranquillo della maggioranza.  La maggioranza, dopo che ha avuto il tempo di riconoscersi e di constatare la propria esistenza, diviene la fonte comune dei poteri. |…| Ma, in Europa, noi abbiamo fatto strane scoperte. La repubblica, secondo alcuni di noi, non è il governo della maggioranza, come si è creduto fino ad ora, è il governo di coloro che   si fanno garanti e interpreti della maggioranza. ||sottolineatura mia || Non è il popolo che dirige in questa specie di governi, ma coloro che conoscono quale sia il vero bene del popolo felice distinzione che permette di agire in nome delle nazioni senza consultarle e di reclamare la loro riconoscenza calpestandole. Il governo repubblicano del resto è il solo, al   quale si debba riconoscere il diritto di fare tutto, e che possa disprezzare ciò che gli uomini hanno fino ad ora rispettato, dalle più alte   leggi della morale fino alle elementari re-gole del senso comune. Si era pensato, fino ad ora, che il dispotismo fosse odioso, qualunque fosse-ro le sue forme. Ma si è scoperto ai giorni nostri che vi. erano nel mondo tirannidi legittime e sante ingiustizie, purché fossero esercitate in nome del popolo “. E’ proprio il caso di parafrasare; de nobis fabula narratur!

 Pubblicato su HuffPost del 1° novembre 2021




Per “Il Foglio” del G8 di Genova verrà ricordato il conflitto ideologico. Gli stracci che volarono passano in secondo piano

Se sulle orme di Theodor W. Adorno, volessimo costruire una Scala T del totalitarismo, sicuramente dovremmo porre, tra le prime caratteristiche della personalità totalitaria l’attitudine a “far di tutta l’erba un fascio” ovvero a unificare “chi è contro di me” in una massa damnationis che non ammette o ritiene irrilevante ogni “distinguo”. I nemici dei nazisti erano gli ebrei, i socialdemocratici, i comunisti, i liberali, i democratici – fossero eredi dell’Illuminismo francese o di quello inglese – i cristiani fedeli all’universalismo etico dei Vangeli, i liberalconservatori legati all’idea dello stato di diritto etc. etc. Tra il (presunto) bene e il (presunto) male non esistono vie di mezzo. La fallacia del piano inclinato (slippery slope) è il manganello di cui si servono i custodi del pensiero unico per liquidare critici e dissenzienti. Se tu sostieni, come ha fatto una sociologa svedese, che la convivenza tra etnie culturali molto diverse comporta problemi di ordine pubblico, sei sulla china che porta alla svastica. E’ la liquidazione del “dialogo”, possibile solo se si suppone che i due interlocutori abbiano qualcosa di interessante – e di veritiero – da dire.

Oggi in Italia non pochi sovranisti fanno pensare alla Scala T ma lo stesso può dirsi degli antisovranisti. In un articolo, assai discutibile, apparso sul “Foglio” del 21 luglio (Nel ventennale del G8 di Genova c’è una grande verità rimossa: gli eredi dei No global oggi si trovano nella destra sovranista), Claudio Cerasa sostiene che i temi che, vent’anni fa, ispiravano i black bloc si ritrovano tutti a destra: l’avversione al mondialismo, alla globalizzazione, all’imperialismo |sic!|, alle oligarchie finanziarie, al neoliberismo, alle multinazionali, al WTO, ai Soros, alle privatizzazioni, all’austerità fiscale, alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, il richiamo al primato nazionale. Ne deriva, secondo la più pura logica totalitaria che gli oggetti di avversione sono tra loro solidali, sono anelli congegnati in modo che ciascuno tira l’altro e che non si possono separare senza cadere in una contraddizione logica e in un peccato contro lo spirito. Sei perplesso sui modi in cui si sta costruendo l’unità europea? Significa che t‘ispiri ad Alfredo Rocco e sei un avversario ideologico di Altiero Spinelli. Vorresti una globalizzazione meno imprevidente – per citare il bel volume di Danilo Breschi, Zeffiro Ciuffoletti e Edoardo Tabasso, La globalizzazione imprevidente. Mappe nel nuovo (dis)ordine internazionale (Effici 2020)? Significa che sei un potenziale parlamentare di Fratelli d’Italia. La postazione ideologica in cui si colloca Claudio Cerasa è quella in grado di “associare le politiche portate avanti dal mondo progressista con quelle portate avanti dai difensori del mercato libero”. Insomma, sembra di capire: proliferazione dei diritti individuali (di qualsiasi tipo) più mercatismo, con la messa in soffitta non solo del vecchio Marx (che in soffitta già si trova dal 1911 con la famosa frase di Giovanni Giolitti) ma anche del welfarismo socialdemocratico che, secondo la geniale scienziata politica statunitense, Sheri Berman, ci ha regalato i venti anni migliori del nostro dopoguerra – v. il suo saggio del 2006 significativamente intitolato, Primacy of Politics: So-cial Democracy and the Ideological Dynamics of the Twentieth Century (Cambridge U.P. 2006). E’ la realizzazione dell’incubo di Augusto Del Noce che prevedeva una generazione di Claudio Cerasa che avrebbe liquidato sia la borghesia tradizionale (con i suoi valori vittoriani) sia il proletariato classico, con il suo sogno della rivoluzione anticapitalista.

Cerasa si fa raggiante al pensiero che la sinistra mondiale non sia stata contaminata dalla dottrina “no global” e che i miasmi genovesi siano rifluiti a destra ma, forse, si illude nel minimizzarne l’appeal in certi settori e movimenti politici (lui stessi ricorda Podemos, Mélenchon, Corbyn, Sanders, la Dibba Associati). Sennonché il problema vero è un altro: davvero il mondo si divide in due, global da una parte e no global dall’altra? Davvero chi non sta con gli uni, sta con gli altri secondo uno stile di pensiero che ha un fondamento religioso (“Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” Luca 11,14-23) ma che ripugna allo spirito laico e realistico che contrassegna la modernità? Non potrebbero esserci antiglobalisti dubbiosi e moderati e globalisti consapevoli dei problemi indotti da un mondo divenuto un’indivisa comunità di produzione e di scambio? E quanti come Ernesto Galli della Loggia invitano a riflettere sulle “virtù del nazionalismo” – per riprendere l’espressione di Yoram Hazony – sono le quinte colonne di Donald Trump e di Steve Bannon?

In realtà, il disegno dei Cerasa è quello di contarsi, del muro contro muro, di scrivere sulla lavagna della Repubblica resistenziale e democratica l’elenco dei cittadini buoni e dei cattivi. Le tinte sfumate, i “sì..ma”, gli accordi parziali, le mezze misure non sono di loro gusto: redivivi Simplicius del pensiero unico debbono snidare l’avversario, smascherarne connivenze e intenzioni inconfessate.

Sennonché non è neppure questo l’aspetto più controverso dell’articolo di Cerasa. A far riflettere è che per lui l’orrore suscitato dalle devastazioni dei black bloc passa in secondo piano rispetto agli obiettivi ideologici dei dimostranti. “La violenza portata in piazza dai manifestanti per così dire più facinorosi” fa da pendant alla “evitabilissima prova di forza della polizia” ed entrambe concorrono alla “rappresentazione falsata di ciò che quel G8 è stato dal punto di vista storico”. Eh no, caro Direttore, il suo è un caso da manuale di “falsa coscienza” che chiude gli occhi davanti alla realtà e se ne inventa una fittizia per convalidare le sue credenze ideologiche. Per quanti hanno vissuto quelle tragiche giornate le ragioni dei contestatori non hanno contato un bel fico secco: le devastazioni, i danni provocati a negozi e banche, la città messa a soqquadro, le sirene delle forze dell’ordine, gli assalti, il sangue versato hanno lasciato un segno indelebile nella memoria collettiva, hanno mostrato quanto sia precario e difficile il mantenimento dell’ordine in una società democratica come la nostra. Alla posta in gioco (global/no global) non ha pensato nessuno: è la violazione delle più elementari “regole del gioco” a far ricordare quegli eventi come un sogno spaventoso. Mi ha scritto un lettore: “Io ricordo l’amarezza per lo sfregio fatto alla mia città da quei beceri violenti. Che poi le forze dell’ordine (o chi era loro preposto) non abbiano saputo prevenire l’invasione ed abbiano ecceduto nel rivalersi su quelli che hanno acchiappato e che magari non erano i più responsabili, è una faccia della medaglia che aggiunge dispetto”. E’ proprio il riemergere della violenza cieca, irrazionale, incontrollata e incontrollabile che accompagnerà la reminiscenza delle giornate di Genova, indipendentemente da chi protestava contro chi e perché.

Viene il sospetto che Cerasa condivida sostanzialmente un caposaldo dell’ideologia italiana, che non tiene conto di Thomas Hobbes e della fondazione dello stato moderno fondato sul principio che la legge e l’ordine debbano avere la precedenza su tutto, per cui – in uno stato costituzionale e democratico – qualsiasi causa, anche la più giusta, diventa indifendibile se comporta il ricorso alla violenza. Nell’ideologia italiana, invece, è radicata l’idea della cosiddetta “rilevanza etico-politica delle piazze” per la quale cortei, manifestazioni, invasioni di luoghi pubblici, quando non sono mobilitazioni sanfediste, sono sempre un’espressione della “libertà come partecipazione” e vanno giudicati – positivamente o negativamente – per gli obiettivi che si propongono non per l’oggettivo perturbamento dell’ordine pubblico e il vulnus costituito per la convivenza civile. E’ sconfortante che si debba ancora ricordare che la piazza con i suoi furori non ha alcun rilievo né costituzionale né morale se la forza pubblica viene aggredita insultata dileggiata A Genova la polizia di Stato aveva il compito di non fare entrare i dimostranti nel recinto in cui si tenevano incontri e conferenze del G8: giustificare la pretesa di chi non intendeva rispettare il divieto avrebbe dovuto essere impensabile per ogni partito e cultura politica, anche quella di Vittorio Agnoletto, Viviamo, invece, in un paese in cui in primo piano stanno i fini – che, se buoni, fanno dimenticare i mezzi cattivi – sicché per il mainstream culturale oggi dominante, il G8 s’identifica con una battaglia ideologica non con una di quelle esplosioni collettive che società complesse e raffinate come quelle liberaldemocratiche non sanno spesso come gestire.

Quest’idea della piazza come supplente delle istituzioni – quando le istituzioni si orientano in direzioni che a una parte dei cittadini sembrano sbagliate – è qualcosa di cui, temo, non riusciremo a liberarci. Per certi ideologi, lo stato è la dimensione della legalità ma la società civile (che non è un’istituzione ma un contenitore dei più diversi progetti di vita) è la dimensione della legittimità. Se un Parlamento liberamente scelto dagli elettori prende una decisione o emana una legge che gli interpreti della volontà generale ritengono ingiusta, si è autorizzati a scendere in piazza, a scontarsi con poliziotti e carabinieri, a fare pressione su deputati e senatori affinché tornino sui propri passi.

Se invece dell’incontro dei leader delle principali potenze economiche mondiali, si fosse organizzato nel capoluogo ligure un vertice degli statisti dell’Europa orientale contrari alla globalizzazione e se le “nuove” sinistre avessero indetto manifestazioni non autorizzate da prefetti e questori, forse le probabili devastazioni ed erogazioni di violenza avrebbero ricevuto dal “Foglio” (ma anche da altri giornali nazionali) un diverso trattamento. Gli “eccessi” sarebbero stati sempre condannati, beninteso, ma la “giusta causa” li avrebbe fatti passare in secondo piano – come, d’altronde, è capitato agli “eccessi” della Resistenza che la storiografia ufficiale e anpista ha sempre minimizzato, ricorrendo, ma solo nei momenti di sincerità, all’adagio del vecchio azionista Riccardo Lombardi che “per fare una frittata si deve pur rompere qualche uovo”.

Solo a una mente intossicata dall’ideologia poteva venire in mente che il G8 verrà ricordato, nella storia, per il fatto che le sinistre, allora, erano nemiche della globalizzazione e che in seguito si sarebbero ritrovate a pass the whitness a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni. Nella mail del mio lettore, al contrario, l’“amarezza per lo sfregio fatto alla città” non ha nulla a che vedere con gli obiettivi dei contestatori Il lettore, non lo escludo, avrebbe potuto anche condividerli, almeno in parte ma in quei giorni vide solo il Cavaliere rosso dell’Apocalisse.




Equivoci sullo “stato forte”

Nei suoi numerosi articoli e saggi Danilo Breschi, ha esplorato in lungo e in largo le complesse vicende dell’Italia contemporanea nell’ottica della storia delle dottrine politiche, insegnamento tenuto all’Università degli Studi Internazionali di Roma. Quale democrazia per la Repubblica? Culture politiche nell’Italia della transizione 1943-1946 (Ed. Luni) è il frutto maturo di lunghi anni di ricerca e del confronto con gli studiosi che più si sono occupati della nostra political culture e del suo impatto sulla società civile, da Roberto Pertici a Roberto Chiarini, da Paolo Pombeni a Ernesto Galli della Loggia. Perché in Italia non abbiamo avuto una democrazia liberale “a norma”? Perché da noi partiti, governi, istituzioni non sono stati l’alveo sicuro entro il quale il corso della modernizzazione è potuto fluire senza troppi sconvolgimenti sociali e politici? Breschi ne attribuisce la causa alla posizione di minoranza nella quale si trovarono uomini come Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, dinanzi alle tre grandi famiglie ideologiche – azionismo, social-comunismo, cattolicesimo sociale – che, sconfitte alle urne nel 1948, furono decisive nella redazione della Costituzione repubblicana e nell’interpretazione del passato come praefatio ad ducem. Ad accomunare quelle famiglie, nel triennio preso in considerazione da libro, è l’idea della “sostanziale marginalità del liberalismo di ascendenza risorgimentale e primonovecentesca. “Si tratta della convinzione che la democrazia liberale sia priva di contenuti etici e ideologici” che “non possieda un’idea direttrice, una dotazione di sen­so generale e collettivo” che sia incapace di “prendersi cura della formazione della coscienza individuale |…|. Sono il mercato, ossia gli interessi materiali, e la coscienza individuale, mantenuta tale, rigorosamente autonoma nelle proprie scel­te a determinare il suo corso, che resta costantemente instabile e al tempo stesso perennemente riequilibrantesi grazie all’omeostasi garantita dal primato della legge (rule of law), ovvero dalla solidità di istituzioni di governo fondate sul principio della separazione dei pubblici poteri che mutuamente si controllano”. L’individualismo, la democrazia liberale rappresentativa, il mercato vengono percepiti come agenti patogeni o comunque come istituzioni incapaci di mantenere unite le società. La borghesia, classe in declino, in quella che Renzo De Felice chiamava la vulgata antifascista, diventa il maggiore responsabile della conquista dello Stato da parte delle camicie nere. “La democrazia – ci si chiede – va intesa come mezzo, strumento per altri fini, oppure come fine in se stesso?”. La repubblica è un mezzo e non un fine” aveva detto Pietro Nenni al Teatro Brancaccio il 5 maggio del 1946.
Sono molte le ragioni che spiegano la persistente tendenza dell’”ideologia italiana” a considerare la democrazia liberale una forma vuota, da riempire con ardite riforme politiche o sociali ma, all’origine di tutte si trova “la rimozione del senso dello Stato e della cosa pubblica, la Repubblica appunto”. Per le nostre familles spirituelles – l’importante sono le squadre in campo e le strategie che hanno in mente: il campo da gioco, la comunità politica in quanto tale, non occupa le menti e non riscalda i cuori e le forme che essa può assumere interessano soltanto nella misura in cui consentono o meno l’entrata nella stanza dei bottoni. Regioni e corte costituzionale, per fare un esempio significativo, in un certo periodo vengono avversate, mentre in un altro, sono fortemente volute: tutto dipende dagli utili che se ne possono ricavare mentre nessuna considerazione viene riservata alla salus Rei publicae, alla forza ordinatrice dello Stato. E’ sempre vivo l’equivoco – condiviso dai panglossiani dell’ultraliberismo mercatista – che fa dello “Stato forte” l’incubatore del fascismo e del comunismo: un equivoco che distorce la realtà giacché fu proprio lo “Stato debole”, con la sua incapacità a mantenere l’ordine, a far rispettare le leggi, a punirne i trasgressori – fossero estremisti di destra o di sinistra – a spianare la strada ai regimi totalitari. Perdura, a ben vedere, la pericolosa illusione che le istituzioni sono in definitiva “sovrastrutture”, macchine ad uso dei guidatori più diversi, sicché non si concepisce neppure il dovere di battersi per una manutenzione della ‘casa comune’ che avvantaggerà non solo noi ma anche i nostri concorrenti politici. Da noi lo “spazio pubblico” non importa a nessuno perché è di tutti.