RUBRICA A4 – Veri e falsi ‘patrioti’

In un memorabile articolo Meditations  sur la defaite (‘Critique’n.12,1947)—riportato nel volume Marc Bloch, L’Histoire,, la Guerre, la Résistence a cura di Annette Becker e  Etienne Bloch (Quarto Gallimard 2006)–Raymond Aron  ricorda che, non meno generoso di un Ernest Renan, che esaltava sia la monarchia capetingia sia la Rivoluzione francese,  Marc Bloch ammoniva: «Il est deux catégories de Français qui ne comprendront jamais l’histoire de France :ceux qui refusent de vibrer au souvenir du sacre de Reims ; ceux qui lisent sans émotion le récit de la fête de Fédération ».(« Ci sono due categorie di francesi che non capiranno mai la storia della Francia: quelli che rifiutano di emozionarsi al ricordo dell’incoronazione di Reims; coloro che leggono senza emozione il racconto della celebrazione della Federazione»). Bloch era un autentico patriota, un‘nazionalista’, si potrebbe dire, se fosse in uso un’accezione neutrale del termine, che  escluda ogni idea di una sopraffazione di una nazione sulle altre ma veda nello stato nazionale–con le sue tradizioni storiche, con la sua cultura, con i suoi stili di vita– la base materiale su cui costruire durevoli ’forme di governo’ e, soprattutto, la democrazia liberale.

Autentico patriota, poteva dirsi, soprattutto, Charles de Gaulle che alla domanda cosa pensasse dei comunisti, rispondeva «ils sont français aussi!». Chi ama la ‘famiglia—nazione’, l’ama in tutte le sue componenti— e Dante non ricordava, forse, «quell’umile Italia.. per cui morì la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute»?; sa che le guerre civili, le tragedie, le ‘malattie morali’ che l’hanno segnata storicamente hanno contribuito tutte a farla ciò che è; sa che anche quanti hanno dato la vita per una causa sbagliata si ispiravano a valori di cui una comunità politica non può tener conto.

 Tutto ciò è stato cancellato, e da tempo, dall’ebetismo antifascista e dall’ebetismo anticomunista—che possono dirsi le malattie mortali di quelle ‘cose buone’, e irrinunciabili per un liberale, che sono l’anticomunismo e l’antifascismo. Un esempio di ebetismoanticomunista è dato da Victor Orban che ha fatto rimuovere le statue di due ’comunisti’ György Lukacs e Imre Nagy rispettivamente dal Parco Szent István  e dalla Piazza del Parlamento. Lukacs è stato uno dei filosofi più importanti del Novecento europeo: si   professava comunista, pur se fortemente sospetto alle gerarchie del partito, ma le sue opere hanno segnato un’epoca e arricchito la cultura e l’intelligenza di amici e avversari; Nagy, sarà stato pure stalinista nell’immediato secondo dopo guerra, ma è morto perché voleva, come poi il ceco Dubcek, un comunismo dal volto umano. Se in Italia quasi nessuno dei tanti antisovranisti, che detestano il premier ungherese ha mostrato di scandalizzarsi per la sua cancel culture, è perché, inconsciamente, ogni ebetismo comprende l’altro. Noi abbiamo quello antifascista che impedì all’Università di Pisa di commemorare in una targa Giovanni Gentile che aderì al fascismo con spirito nazionalista ma condivise così poco infamie come le leggi razziali da farsi protettore di non pochi esuli ebrei tedeschi, a cominciare da Oskar Kristeller, che lo avrebbe ricordato con profonda gratitudine in un’intervista rilasciata pochi anni prima di morire. Giovanni Gentile non fu solo un grande filosofo—maestro, tra l’altro, di antifascisti doc come Guido Calogero e Adolfo Omodeo—ma anche un grande organizzatore di cultura. La Scuola Normale di Pisa e l’Enciclopedia Italiana sono monumenti che sopravvivono al fascismo, come altre istituzioni volute da lui e che oggi, a esaltarle, si incorre nell’accusa di apologia di reato.

 In questo clima, chi potrebbe pensare a una via, a una piazza, a una scuola dedicate al più grande storico italiano del Novecento Gioacchino Volpe, maestro anche lui di antifascisti, da Nello Rosselli a Rosario Romeo? A differenza di Gentile, Volpe, monarchico e nazionalista, non aderì alla RSI e non rinnegò, dopo la guerra, gli ideali che lo avevano indotto a prendere la tessera del fascio ma lasciò opere insigni, sul Medio Evo ma anche sull’Italia moderna, che hanno arricchito come poche altre la storiografia italiana e formato intere generazioni di studiosi

 In un brano esemplare, dove si rivela un’ispirazione liberale  del tutto assente in altri pensatori italiani, che pure si richiamavano al liberalismo (ivi compreso Luigi Einaudi) , Benedetto Croce, parlando agli studenti del suo Istituto per gli Studi Storici, sul delicato  tema L’obiezione contro le storie dei propri tempi, dopo aver spiegato le ragioni che non gli consentivano di scrivere una storia dell’”aborrito” regime fascista, avvertiva, a scanso di equivoci, «Pure, se a un simile lavoro mi fossi risoluto o se potessi mai risolvermi, si stia tranquilli che non dipingerei mai un quadro tutto in nero, tutto vergogne ed orrori, e poiché la storia è storia di quel che l’uomo ha prodotto di positivo, e non un catalogo di negatività e d’inconcludente pessimismo, toccherei del male solo per accenni necessari al nesso del racconto, e darei risalto al bene che, molto o poco, allora venne al mondo, o alle buone intenzioni e ai tentativi, e altresì renderei aperta giustizia a coloro che si dettero al nuovo regime, mossi non da bassi affetti, ma da sentimenti nobili e generosi, sebbene non sorretti dalla necessaria critica, come accade negli spiriti immaturi e giovanili». Un liberale non avrà alcun dubbio nel definirsi anticomunista o antifascista ma, se tale è davvero, non ne avrà neppure nel rendere giustizia al «al bene che, molto o poco, allora venne al mondo». Non rimuoverà a Latina dal parco pubblico il nome di Arnaldo Mussolini—che tanto si adoperò per la realizzazione di una delle opere più meritorie del regime, la bonifica dell’agro pontino—né proporrà di cancellare da viali e da stazioni il nome di Palmiro Togliatti, uno stalinista doc che contribuì alla Costituzione italiana e, col suo realistico buon senso, disarmò, nel secondo dopoguerra, i bollenti spiriti di quanti non si rassegnavano al ‘tradimento della Resistenza’ e al dominio clericale. Nelle società civili la toponomastica non è sempre qualcosa di provvisorio come nel regime totalitario ricordato dall’immortale Milan Kundera.




Rubrica A4 – Occidente. L’equilibrio spezzato

In un magistrale saggio del 2006, Comunitari o liberal (Ed. Laterza), Marcello Veneziani vedeva nella contrapposizione tra comunitari e liberal la frattura epocale del nostro tempo. “Qual è il nocciolo dei liberal? L’idea di emancipazione, di liberazione dai legami, nel progetto di un’umanità. Un’idea che si coniuga con la deterritorializzazione, il superamento dei confini, l’universalismo”. “Il comunitario è colui che assegna importanza al comune sentire, ai riti, le usanze e i costumi di un popolo. Importanza non sociologica o folcloristica, ma vitale, come modelli di riferimento per orientarsi”. “Il comunitario si sente il figlio di una patria, per il liberal la propria patria è il tempo”. “Il comunitario ama la varietà e diffida della precarietà; il liberal preferisce la variabilità e non ama le differenze. Varietà è la diversità in senso spaziale, variabilità è diversità in senso temporale”. Meglio non si poteva dire. E tuttavia sfugge sia ai tradizionalisti (comunitari) sia agli illuministi (liberal) il ‘segreto dell’Occidente’ ovvero la capacità di tenere in equilibrio passato e avvenire, libertà e appartenenza: Edmund Burke—il principe dei conservatori inglesi– e Voltaire—il decano gli illuministi francesi–, la Nazione e l’Umanità. Si potrebbe parlare di ‘individualismo comunitario’ contrapposto all’individualismo libertario (che ho criticato nel saggio Per un liberalismo comunitario Ed. La Vela) per designare un individualismo che esalta la creatività, la libertà, l’ambizione dei cittadini ma le pone al servizio dello stato (nazionale o imperiale)—v. i grandi esploratori, i capitani d’industria, gli eroi di guerra, gli scienziati che, con le loro scoperte, accrescono la forza e il prestigio della comunità, i grandi artisti che, con le loro opere, ne esaltano la storia, i paesaggi, le tradizioni. I protagonisti della storia e della cultura universale erano grandi individualisti, che alle nuove vie da loro aperte al genere umano avevano dato la forte impronta della loro personalità. Le nuove vie erano diverse–e spesso confliggenti—da quelle percorse da tempo immemorabile– ma finivano per comporre una rete ideale in cui conservatori e innovatori trovavano posto e riconoscimento.

Nel memorabile Discorso agli elettori di Dronero del 1899, un grande statista, che non era certo un filosofo politico, Giovanni Giolitti, rilevava come “in tutte le assemblee politiche esiste, una grande divisione tra coloro che vogliono conservare lo stato attuale della legislazione e dei metodi di governo, e coloro che vogliono il progresso; questa grande divisione che ha fondamento nella natura umana e nelle condizioni della nostra società, non ha cessato e non cesserà mai di esistere. Ambedue le correnti politiche, conservatrice e innovatrice, hanno ragione di essere e possono a volta a volta, nei diversi periodi storici, rendere segnalati servizi al Paese”.

Questa consapevolezza della necessità di tenere insieme valori diversi dettava al Guglielmo Ferrero di Fra due mondi (Ed. Treves 1913) riflessioni che la nostra società relegherebbe nelle soffitte della storia. “Le generazioni seguenti possono possedere e conoscere un numero maggiore di modelli, se sanno conservare tutti o in parte quelli che le generazioni precedenti crearono. Solo così riusciamo a saldare insieme, pel principio del progresso, la qualità e la qualità |…| il progresso non sta solo nel creare nuove verità, nuove arti o nuove virtù, ma anche nel conservarle di generazione in generazione”

Che questa saggezza sia andata smarrita non lo dimostrano solo le avanguardie più radicali dello scientismo, dell’ateismo razionalista, del globalismo–rullo compressore delle identità–, del dirittismo universalista: è il pensiero dell’establishment culturale, economico e politico a porre una pietra tombale su quanto resta dei valori degli ultimi due secoli. Un mite scienziato politico, come Maurizio Ferrera, in un articolo scritto sul ‘Corriere della Sera’ il 2 agosto u.s.—Le libertà personali e le nuove destre—ha scritto testualmente che :patria, chiesa e famiglia sono “ valori che mal si conciliano con le trasformazioni in corso: l’apertura verso l’esterno, l’ampliamento delle opzioni di scelta individuali, il superamento delle divisioni di genere e delle discriminazioni”. A stupire non è la visione del mondo dell’editorialista neo-illuminista ma il fatto che nessuno abbia compreso il potenziale nichilismo delle sue parole. In sostanza, siamo invitati a disfarci, per andare avanti, del ‘mondo di ieri’, in cui nazione, religione e legami parentali sostenevano i civili consorzi.

Davvero un vaste programme!

Sì, il grande conflitto del nostro secolo sta nello scontro tra liberal e comunitari ma alla sua base c’è una tragedia: il taglio in due parti del calviniano visconte dimezzato e la relativa impossibilità di ricucirlo, che fa intravvedere nuove, terribili, guerre civili tra i nostalgici delle ‘radici’ e i cultori del progresso’.




Se Carmen La Sorella santifica Angela Merkel

Intervistata sul suo romanzo, «Vera. E gli schiavi del terzo millennio» (Ed. Marietti) Carmen La Sorella ha infilato una serie comuni che avrebbero fatto la gioia di Ilaria Salis. Comincio con la conclusione in cui ha esaltato l’incriminazione di Matteo Salvini per la politica sull’immigrazione da lui seguita quand’era ministro del governo Conte. Per La Sorella, una saggista lontana anni luce dall’universo liberale, una politica non condivisa diventa un reato, uno stile di pensiero ben noto agli storici della Rivoluzione francese e del giacobinismo. È inutile chiederle come le misure prese da un ministro non coinvolgano l’intero governo, ma forse questo per lei è l’unico caso in cui la responsabilità è personale. Più sconcertante, invece, è stata l’esaltazione di Angela Merkel per aver fatto entrare in Germania un milione di migranti. Che quest’apertura abbia fitto rinascere dalle ceneri i nostalgici di Hitler è irrilevante. Fiat justitia, pereat mundus! (Si faccia e poi perisca pure il mondo) è il principio al quale si ispirano quanti non intendono rassegnarsi al dovere dei politici di seguire l’etica della responsabilità che giudica le azioni sulla base delle loro conseguenze e non delle intenzioni che le ispirano. Ma soprattutto è la forma mentis di chi considera quanti la pensano in maniera diversa–e ad esempio propongono il controllo dell’immigrazione–autentici farabutti o mentecatti.

Nel mosaico celebrativo dell’ex cancelliere tedesca, però, La Sorella ha dimenticato qualche tassello non proprio secondario. Come ha ricordato un amico economista «a livello internazionale la Merkel voleva far fallire la Grecia, nonostante la sua importanza strategica, ha imposto ai Paesi mediterranei l’austerità fiscale che ha lacerato l’area dell’euro quasi a distruggerla». E c’è di peggio: «ha arrestato il nucleare, rendendo la Germania totalmente dipendente dal gas russo».. I suoi eredi sono ora in prima fila tra i leader europei bellicosi che vorrebbero inviare non solo armi ma anche soldati in difesa di chi ha fatto saltare il gasdotto russo, mettendo in ginocchio l’economia tedesca.
Ci si meraviglia che all’estrema destra e all’estrema sinistra ci sia gente che non ne può più?




Democrazie e autocrazie

Uno stato non è solo un regime politico—forma di governo, costituzione etc.—: è anche un leviatano che, nell’arena internazionale, persegue propri obiettivi di carattere economico e politico-strategico. Sono due dimensioni che non coincidono, come mostra la storia dell’Inghilterra, degli Stati Uniti, del Belgio. Quest’ultimo, un modello di democrazia liberale, nell’Ottocento diede il peggior esempio di colonialismo genocida. Le autocrazie oggi diffuse nel pianeta non odiano noi occidentali perché ci siamo dati istituzioni liberali—diritti civili e politici, libertà di ricerca—ma perché le grandi potenze egemoni nell’area euroatlantica hanno cercato di imporre non solo il loro stile di vita ma, altresì, ragioni di scambio economico e sudditanze militari non certo iscritte nei trattati sul governo civile di John Locke.

I retori dell’occidentalismo che vorrebbero farci credere che il mondo non europeo ci detesta per le libertà di cui godiamo, dovrebbero meditare sul fatto che è la politica nordamericana in Medio Oriente—che ha tragicamente destabilizzato l’area causando morti, distruzioni, guerre civili- una delle origini del disordine mondiale. Altro che guerra (santa?) delle democrazie liberali alle autocrazie! In realtà, la politica estera non è l’arena in cui si affrontano i buoni contro i cattivi ma una scacchiera variegata e complessa dove i rapporti tra gli Stati sono regolati dalla pura convenienza. La Francia erede dell’89, nell’Ottocento, intratteneva buoni rapporti con l’autocrate di San Pietroburgo, l’America del secolo scorso aveva ottime relazioni con la Spagna di Francisco Franco. Sono tante le autocrazie nel mondo: gli stati demoliberali, saggiamente, dovrebbero cercare di attrarne quante più è possibile nella loro orbita economica e culturale, rinunciando a considerarle una massa di dannati, da combattere in nome dell’antifascismo—che oggi, come il patriottismo stigmatizzato dal Dr. Johnson, sta diventando sempre più l’ultimo rifugio delle
canaglie. Vogliamo che demo-autocrati come Cyril Ramaphosa, Narendra Modi, Lula da Silva facciano fronte comune contro gli Stati Uniti e i suoi alleati europei o cercheremo–mettendo da parte l’approccio ideologico alle questioni internazionali—di renderceli amici?




Rubrica A4 – Presidenzialismo e premierato

Sul premierato sono stati scritti migliaia di articoli, alcuni pro, altri contro, altri ancora critici ma possibilisti. Condivido sul tema le perplessità di Marcello Pera, inascoltato consigliere di Giorgia Meloni, che ha spiegato assai bene le contraddizioni del progetto di legge del centro-destra. E tuttavia, nel dibattito ancora in corso, c’è qualcosa che non ho compreso: perché dal
presidenzialismo si sia passati al premierato. In passato politici e studiosi di grande levatura morale e intellettuale, come Randolfo Pacciardi e Giuseppe Maranini, si erano espressi a favore dell’elezione diretta del Capo dello Stato e con argomenti non poco convincenti. Oggi, chissà perché, non se ne è parlato più e ci si è infognati nel pozzo senza fondo della discussione sui poteri
nuovi attribuiti al premier e sull’eventuale ridimensionamento di quelli assegnati dalla Costituzione italiana all’inquilino del Quirinale. Il confronto tra presidenzialismo e premierato è stato, così, ben presto liquidato e portato su un piano tecnico, di convenienza, riguardandolo, cioè, come qualcosa che avesse a che fare col solo diritto costituzionale e su cui gli esperti (accademici e magistrati) e i professionisti della politica sarebbero stati tenuti a confrontarsi.—come è avvenuto con montagne
di pronunciamenti e di pareri.
A mio parere, invece, non è in gioco solo una questione di diritto pubblico ma una visione della democrazia, una filosofia etico-politica, che ai due presidenti–del Consiglio e della Repubblica– assegna compiti istituzionali ben distinti. In una democrazia liberale—che non voglia scimmiottare i regimi presidenzialisti nordamericano o francese– far votare i cittadini per il capo del governo significa farli votare per il capitano di una squadra; farli votare per il capo dello Stato significa farli votare per l’arbitro: si tratta di funzioni del tutto diverse. Il Presidente della Repubblica è un monarca costituzionale elettivo a tempo: deve vegliare sulla correttezza del gioco delle squadre in campo e sul rispetto della Costituzione; il premier deve realizzare il programma presentato agli elettori, un programma alternativo a quello del concorrente da lui sconfitto.
Per il Quirinale, la scelta dovrebbe avvenire tra candidati di grande prestigio ritenuti super partes– sicché potrebbe capitare a un socialista di votare per un redivivo Luigi Einaudi, pur non condividendone le idee politiche. Per Palazzo Chigi, invece, “si vota per i nostri” ovvero per una destra o per una sinistra, in un’arena che resta divisa tra vinti e vincitori. Nel primo caso, si sceglie,
almeno in teoria, una figura imparziale che, nel rispetto delle sue attribuzioni, potrebbe anche darci qualche dispiacere,–nel caso, ad es., che non firmi, legittimamente, una legge alla quale tenevamo molto. Nel secondo caso, si sceglie un politico di professione da cui si esige una ferma determinazione nel mantenere le promesse elettorali e nel contenere drasticamente i tentativi dell’opposizione di boicottare il programma governativo. Si capisce come in un paese come il nostro, in cui l’elezione del Presidente della Repubblica obbedisce a una (tristissima) logica di schieramenti politici, presidenzialismo e premierato ‘per me pari sono’. Rimettendo al popolo la scelta del primo, si conferisce ad esso un prestigio e una forza indipendente dai partiti e si istituisce quel ‘potere neutro’ che, per il liberale Benjamin Constant, come per il nostro Benedetto Croce, giustificava la conservazione della monarchia. Ma forse è proprio questo che i padroni dello sconquassato vapore politico vogliono evitare. Abbiamo avuto presidenti che hanno lavorato dietro le quinte per liquidare, con i ribaltoni, leader votati dal popolo; altri che, per favorire il partito cui dovevano l’elezione, hanno nominato senatori a vita, allo scopo di rimpinguare esilissime maggioranza governative. E’ questo l’andazzo al quale siamo abituati e al quale non si intende rinunciare.