Una riflessione controcorrente sulla Prima Guerra Mondiale

Negli articoli e saggi scritti durante gli anni della grande guerra, Max Weber, così giustificava lo scatenamento del conflitto da parte della Germania imperiale: «Un popolo di 70 milioni di abitanti, posto tra le potenze conquistatrici del mondo, aveva il dovere di diventare uno stato di grande potenza. Dovevamo essere una grande potenza, e per poter far sentire anche il nostro peso nelle grandi decisioni del mondo, dovevamo arrischiare questa guerra. Avremmo dovuto farlo anche se avessimo potuto temere di soccombere. L’imponeva l’onore del nostro patrimonio etnico-culturale. Non è in gioco solo la nostra esistenza. Solo l’equilibrio reciproco delle grandi potenze garantisce la libertà dei piccoli stati. Se non avessimo voluto arrischiare questa guerra, ebbene, allora avremmo potuto rinunziare alla creazione del Reich e avremmo potuto continuare ad esistere come un popolo di piccoli stati».

Oggi queste sembrano a noi «parole di colore oscuro». Se pensiamo all’inferno delle trincee—evocato in film come Orizzonti di gloria di S. Kubrick o La Grande guerra di M. Monicelli—alle devastazioni di territori un tempo fertili, alle vittime di strategie militari che sottovalutavano la potenza delle nuove tecnologie, alle lacerazioni sociali, morali e culturali di un  dopoguerra che vide la nascita di opposti totalitarismi e di movimenti politici radicali responsabili, col terrore, di carneficine quantitativamente ben superiori a quelle belliche, alla irrimediabile finis Europae e all’ascesa di Grandi Potenze extraeuropee, ci è difficile non dare ragione al Papa che, nel 1917, avrebbe voluto mettere fine all’«inutile strage». Sennonché, come ha avvertito Rosario Romeo, uno storico la cui altezza d’ingegno era pari soltanto alla sua probità morale, col metro di Benedetto XV, non si comprende il passato. In una visione ispirata all’assolutismo etico, non solo la Prima Guerra Mondiale ma «le rivoluzioni nazionali del ’48 e la stessa rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle crociate», diventano inutili massacri. Anzi  l’intera vicenda umana finirebbe per «apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi  nei quali idea­li interessi e aspirazioni del nostro presente vengono as­sunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che  non li conobbero e che si mossero invece sulla scia di al­tri interessi aspirazioni ed ideali». L’unico scienziato politico italiano che si sia occupato dell’azzardo del 1915, Gian Enrico Rusconi, è arrivato a conclusioni non dissimili. «È tempo, ha scritto, di riprendere e rivisitare i paradigmi classici della politica’ e della guerra e di ripercorrere con essi il processo decisionale che ha portato l’Italia dentro alla ‘ca­tastrofe originaria’ del secolo passato — mentre poteva non entrarci o entrarci in altro modo. Per noi oggi è facile criticare la predominanza dei paradigmi dello ‘stato di potenza’ che influenzano il ceto dirigente italiano del 1915, soprattutto quando si esprimono in modo esclusivo nella dimensione militare. Ma non possiamo proiettare antistoricamente i nostri attuali criteri di giudizio etico-politico—che si sono formati proprio sulle esperienze negative di quel passato—in contesti politici che vanno giudicati secondo altri criteri.».

Riportandoci ai “contesti”, la “guerra civile europea” non nacque da impulsi irrazionali e tribali ma da logiche specifiche e tipiche del tempo, da un ‘gioco del potere’ finito in maniera catastrofica per vinti e per vincitori apprendisti stregoni incapaci di tenere sotto controllo un rischio che si voleva calcolato. Non pertanto le loro motivazioni erano campate in aria. E ciò valeva non solo per la Germania che, nel 1913, avendo superato come potenza industriale, l’Inghilterra, rimasta tuttavia signora degli Oceani, se ne sentiva il fiato sul collo ma anche per l’Italia. Come rilevò il principe della storiografia liberale britannica, George Macaulay Trevelyan, che aveva trascorso più di tre anni al fronte italiano: la nazionalità d’Italia era «incompleta, e la sua indipendenza politica minacciata». Perciò essa doveva unirsi alla guerra comune contro quella Potenza che, vincendo, avrebbe «distrutto la sua indipendenza e che da lungo tempo» aveva «minato con la pene­trazione pacifica le fondamenta della sua «nazionalità incompleta». Non a caso «gli idealisti della Penisola, quasi senza eccezione, divennero il partito della guerra, poiché videro nella guerra contro le Potenze Centrali l’unica via per salvare l’indipendenza, le tradizioni, l’anima della Patria».

Anche per l’Italia valeva la domanda: quale senso avrebbe avuto l’unificazione delle sue membra sparse se non si fosse tradotta nell’accesso al club di Stati che decidevano i destini del mondo? Protesa nel Mediterraneo, la penisola sarebbe rimasta terra di conquista per i paesi affacciati sul mare nostrum ¸tirata da una parte o dall’altra da quanti non avrebbero esitato a seminar zizzania e a resuscitare i vecchi “partiti” o, meglio i vecchi partigiani di questo o quel governo straniero.

È fuori di dubbio che l’Italia avrebbe avuto tutto da guadagnare senza il tuono dei cannoni di agosto, ma il fatto è che la conflagrazione era scoppiata e che si trattava per le sue classi dirigenti di decidere su quale piatto della bilancia porre il suo peso decisivo. Per Gaetano Salvemini, storico insigne e interventista convinto, la vittoria degli Imperi Centrali avrebbe ridotto il paese a stato vassallo e va ricordato che del suo avviso era gran parte della società civile colta.

Oggi ripeto quel mondo—eserciti, “peso determinante”, egemonie politiche, zone mediterranee d’influenza– ci è divenuto del tutto estraneo: abbiamo messo tanti fiori nei nostri cannoni da renderli irriconoscibili. E tuttavia, a ben riflettere, siamo diventati devoti della Dea Pace e della Dea Umanità perché non siamo più noi a dover sopportare il peso della difesa e degli armamenti né siamo più in grado di condizionare gli eventi e le relazioni internazionali. È come se la perdita netta di potere—dovuta alla catastrofe bellica—ci avesse privato della facoltà di intenderne la dura necessità. Una felice incoscienza in un sistema internazionale bipolare ma sempre più pericolosa nel mondo dei Trump, dei Putin, dei Xi Jinping, dei Ram Nath Kovind, leader di stati continentali oceanici che giocano oggi le partite che ieri furono mortali per la vecchia Europa.

Pubblicato su Il Giornale del 29 novembre 2018



I partiti politici hanno rovinato l’Italia?

A Roberto Pertici

Nei giorni 10 e 11 settembre si è svolto a Santa Margherita Ligure, col patrocinio del Comune, della Regione Liguria, del Ministero degli Affari Esteri, del Corpo Consolare di Genova, il primo Festival della Politica in Liguria. A organizzarlo è stata l’Associazione Culturale Isaiah Berlin, intitolata al grande filosofo liberale di Oxford che trascorreva diversi mesi dell’anno nella sua villa sulle alture tra Santa Margherita e Portofino. Sono stati giorni di civilissimo confronto tra giuristi, economisti, storici, filosofi, politici di diversa area ideologica ma alieni dall’insulto, dalla criminalizzazione dell’avversario, dal processo alle intenzioni che ormai caratterizzano dibattiti televisivi, talk show, interviste sui quotidiani e, soprattutto, twitter. Temi caldi come la crisi della democrazia, la globalizzazione, il sovranismo, il populismo sono stati affrontati in maniera chiara e pacata: ciascun relatore, nelle sei tavole rotonde, ha esposto le sue ragioni senza aver l’aria di possedere la verità in tasca. Qualcosa a cui non si era più abituati.

Intervenendo, anch’io, sul tema della crisi della democrazia, mi è scappato di dire, incautamente, che «a rovinare l’Italia sono stati i partiti». L’ho sempre pensato ma affermazioni come questa non si fanno en passant : se manca il tempo per motivarle storicamente e teoricamente, è meglio lasciar perdere. Giustamente, quindi, mi è stato fatto rilevare che, in Italia, sono stati i partiti a tenere unito il paese dopo la catastrofe bellica, a selezionare la nuova classe dirigente repubblicana, a porre le basi della democrazia rappresentativa. Se hanno invaso la pubblica amministrazione, ha aggiunto qualcuno, lo si deve al fatto che lo Stato controlla direttamente o indirettamente più del 50% dell’economia e, quindi, è forte la tentazione dei partiti di entrare nella “stanza dei bottoni” per assicurare vantaggi e risorse alle proprie truppe.

Per chi, come me, vede nel pensiero di Raymond Aron un muro maestro dell’edificio liberale, si tratta di considerazioni scontate. Il fenomeno dei partiti, nella società contemporanea, scriveva il grande filosofo-sociologo della Sorbonne, «diventa essenziale poiché l’unicità o la pluralità dei partiti determina la modalità della rappresentanza». Chi teme le dittature di ogni colore e ama la “libertà dei moderni”, pertanto, non può non riconoscere la funzione decisiva dei partiti politici.

 In Italia, però, non va dimenticato, bisogna fare i conti col fattore effe (fascismo) e con i suoi eredi sicché tutto quello che si può concedere ai miei critici è che, in ogni caso, la partitocrazia è il meno peggio rispetto a qualsiasi altro regime—che, ormai, non potrebbe essere più il regime del partito unico, ma il governo degli esperti, sempre più auspicato da quanti, in nome della “competenza” e dell’antipopulismo, vorrebbero tornare a Saint-Simon e alla tecnocrazia.

Che cosa significa il fattore effe? In parole semplici, significa che c’è un partito, il PNF, che non si pone al servizio della “comunità politica” (tradizioni, istituzioni, mentalità, credenze religiose, culture politiche più o meno consolidate da tempo), ma la definisce e la fonda. Non c’è un libro sacro che i sacerdoti debbono interpretare, ma sono i sacerdoti stessi che ne scrivono uno, escludendo dalla protezione dello Stato e delle leggi tutti coloro che non lo riconoscono (da ultimo toccò agli ebrei).

I partiti del CLN (in sostanza DC, PCI e PSI, i cespugli del tempo contano poco) vanno considerati, a mio avviso, i veri eredi del PNF, con la differenza fondamentale che la loro pluralità ha garantito oggettivamente quel minimo di libertà civili e politiche che il fascismo aveva azzerato. La pretesa, però, è la stessa: quella di rifondare la comunità politica, non di riconoscerla nei suoi valori secolari, e di definirla, a differenza del fascismo, in un testo costituzionale (dove, tra l’altro, si riconosce il diritto di proprietà solo per la sua “funzione sociale”, lasciando nell’ombra il significato di “funzione sociale” e gli organi che dovrebbero accertarla) che, in sostanza, vanifica la politica a favore del diritto. (Vedine gli esiti estremi nei giuristi cosmopolitici per i quali le “frontiere” sono un attentato contro i diritti universali dell’uomo).

Questo dato storico, che non trova riscontro in altri paesi occidentali—neppure in Francia dove il conflitto politico è/è stato non meno incandescente che in Italia—spiega assai bene certe modalità della politica italiana. A cominciare dalla natura carismatica dei partiti che, in quanto portatori di legittimità sostanziale, sono superiorem non recognoscentes: l’immagine di uno Stato forte e neutrale diventa, nella loro ottica, ideologia, falsa rappresentazione: un prefetto, un questore, un generale, un direttore di quotidiani, un editore etc. sono simboli di istituzioni vuote, che vanno riempite di contenuti etico-sociali concreti, che nel ventennio erano sfornati da un solo partito e, a partire dal secondo dopoguerra, da una pluralità di partiti. Il funzionario che “non guarda in faccia a nessuno” da noi è quasi un “cavaliere inesistente” che pretende di far rispettare la legge e l’ordine anche ai rappresentati consacrati dal voto popolare ma si muove come un’armatura vuota. I partiti non sono il braccio armato e intercambiabile (le loro fortune dipendono dalle urne) dello Stato, ma i suoi servi padroni o, meglio, non sono gli interpreti delle sue volontà ma coloro che ne indicano le direzioni, che dicono alla volontà ciò che deve volere.

Anni fa, in Francia, i socialisti subirono un grave scacco elettorale perché sospetti di voler mettere le mani sulla Pubblica Amministrazione. Oltralpe i diritti civili sono assicurati—con buona pace dei retori liberisti e libertari dell’anticentralismo—giacché i vari regimi politici non erodono la pianta dello Stato, accampandosi sulle sue rovine come i barbari del tardo impero. I servizi pubblici funzionano (dalla Sanità alle ferrovie) perché i politici—Parlamento ed esecutivo—esercitano funzioni doverose di mero controllo: nel nostro paese, al contrario, le nomine alla direzione degli enti diventano un terreno di scontro politico, volendo ciascun’area politica imporre “i suoi uomini”, per far valere la propria concezione del bene pubblico. Questo brutto costume di casa, paradossalmente, era ancora tollerabile quando erano vivi e vegeti i partiti tradizionali che si richiamavano a forti ideologie: l’interesse generale, allora, si identificava con quello di una parte ma questa parte riteneva, a sua volta, di battersi per i grandi valori (la solidarietà cristiana interclassista, l’ascesa del proletariato, il riscatto delle campagne etc.). Finita l’era dei “grandi racconti”, rimane solo la lotta per il potere fine a se stessa, che si svolge in un’arena—lo Stato—sempre più evanescente e privo di veri difensori, impensabili ove manchino il “senso delle istituzioni” e, me lo si lasci dire, l’orgoglio dell’appartenenza alla comunità nazionale. Valori irrecuperabili per sempre se si pensa che ci si sente italiani (forse) solo all’estero giacché a definirci sono, soprattutto, le nostre opinioni politiche e le nostre collocazioni regionali.

Anteprima del testo che uscirà sul forum di Paradoxa



Commento ad Angelo Panebianco e a Sofia Ventura

«Spesso, sono i governi che bene amministrano quelli che hanno vita breve e vengono cacciati a furor di popolo. I governi che male amministrano, invece, hanno sovente vita lunga e felice. Perché? Perché mentre i primi si occupano del benessere collettivo e così facendo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati, i secondi sanno costruirsi, a scapito del benessere collettivo, un insieme di clientele (alcune più ristrette e potenti, altre più povere di risorse ma più ampie numericamente) le quali, per non rinunciare ai benefici che il governo elargisce loro, lo sosterranno in tutti i modi. Il buon governo può contare (e nemmeno sempre) su un consenso diffuso ma disorganizzato. Il mal governo si regge, di solito, su un consenso più ristretto ma organizzato. In politica, l’organizzazione ha sempre la meglio sulla disorganizzazione». Lo sostiene Angelo Panebianco nell’editoriale, Perché durerà. Le ingenue profezie sul governo, apparso sul Corriere della Sera il 26 luglio u.s. Confesso che le sue parole hanno lasciato molto perplesso chi, come me, da anni va sostenendo che bisogna Dimenticare Platone—è il titolo di un mio saggio di qualche tempo fa—se davvero vogliamo far prosperare anche in Italia l’albero della democrazia liberale. L’articolo dello scienziato politico bolognese riecheggia antiche critiche—da Platone, appunto, a Ugo Spirito—rivolte al governo del demos e ai suoi ludi cartacei dove prevalgono quanti votano con la pancia e non con quello che Woody Allen chiamava “il mio secondo organo preferito”. Se le cose stanno come vien detto nell’articolo non sarebbe venuto il momento di pensare a un governo di saggi (o di ‘tecnici’, per non peccare d’immodestia) imposto dall’alto, senza tener conto dei risultati elettorali che hanno premiato i Di Maio, i Salvini, gli Orban? Leggere oggi che «i governi che si occupano del benessere collettivo danneggiano e fanno inferocire potenti gruppi organizzati» fa un certo effetto. Innanzitutto perché è difficile pensare a compagini ministeriali che abbiano vinto le elezioni o comunque abbiano registrato una forte affermazione senza il consenso di “potenti gruppi organizzati”: i risultati ottenuti, nella Prima e Seconda Repubblica, da DC e PCI non avevano nulla a che fare con la Federconsorzi, Confindustria, sindacati, magistratura, amministrazioni pubbliche, etc? L’idea di una divisione tra ‘consenso diffuso’ e debole (giacché i cittadini responsabili non si organizzano) e ‘consenso clientelare’ sarebbe stata condivisa da Auguste Comte, critico implacabile dell’irrazionalità democratica, ma non trova credibili corrispondenze sul piano empirico. Panebianco, facendo l’esempio dell’attuale coalizione di governo, scrive che la benevola neutralità dell’alta dirigenza e l’appoggio incondizionato della Magistratura, di cui “i Cinque Stelle hanno sempre dichiarato la loro volontà di essere l’obbediente braccio politico” giocano a favore della sua durata. Sono d’accordo ma il potere giudiziario, chiedo umilmente, è diverso, in quanto gruppo di pressione, da quelli su cui ha potuto contare per oltre mezzo secolo la sinistra italiana, come il potere sindacale? E non è strano dover ricordare a un realista, come l’amico Panebianco, che l’espressione ‘benessere collettivo’ (quanto mai ‘equivoca’, per non dire ideologica), non è che la versione laica e secolarizzata—perché riferita a bisogni materiali e non più alla salvezza delle anime—del “bene pubblico”, dell’etica politica cognitivista, ovvero da quella filosofia che fa derivare da un fatto, da una verità, una prescrizione, un’obbligazione, contraddicendo alla ‘grande divisione’, teorizzata da Davide Hume, per la quale, dall’essere non si può dedurre nessun dover essere? Tornando al vecchio significato, cos’è il ‘bene collettivo’ se non ciò che ritengono tale, nella selva selvaggia delle opinioni e degli interessi contrastanti e spesso conflittuali che caratterizzano le moderne società ipercomplesse, i vari gruppi, classi, individui, in competizione per il potere? Del ‘bene collettivo’, per la Cirinnà, fanno parte le adozioni gay, per ‘Scienza e Vita’ il divieto del matrimonio omosessuale. La democrazia liberale non è il metodo infallibile che realizza, su questa terra, Giustizia e Virtù ma un accordo arazionale, che nelle grandi questioni che dividono la società civile, fa prevalere (fino alla prossima tornata elettorale) le opinioni del maggior numero.

La questione cruciale—ben nota ai liberali classici, alla cui fonte Panebianco, come il suo Maestro Nicola Matteucci, si è senza dubbio abbeverato– è che lo spazio della politica sia ben circoscritto, che un Parlamento e un Governo non abbiano la libertà e l’autorità di invadere tutti gli ambiti dei rapporti umani, di ‘poter fare tutto’ (tranne che trasformare un uomo in una donna, come sostenne ironicamente quel deputato di Westminster, che non poteva certo prevedere i miracoli dell’ingegneria genetica). Purtroppo —per ragioni storiche e culturali che, a spiegarle, ci vorrebbero non saggi ma interi tomi–sappiamo che non è così—e non solo in Italia—e che lo ‘stile politico limitato’—che distingue le democrazie dalle dittature—da noi non ha mai preso stabile alloggio.

Nei primi decenni del nuovo millennio, una civic (sic!) culture che ha insegnato a decine di generazioni  che ‘tutto è politica’, che non esistono competenze oggettive—giacché i diversi codici professionali sono sempre ideologicamente condizionati—reagisce sgomenta davanti all’invasione degli Hyksos, si chiede come sia stato possibile, rimette (inconsapevolmente) in discussione il principio di maggioranza, riattualizza le vecchie diagnosi dei grandi conservatori dell’Ottocento e del Novecento sulla ‘ribellione delle masse’, sulla fine delle ‘mediazioni politiche’, sul tramonto delle elite. A ben riflettere, però, ci troviamo di fronte a uno sgomento che nasce dalla falsa coscienza, dalla messa sotto accusa del corpo sociale malato non accompagnato da alcuna autocritica né, tanto meno, dalla consapevolezza che è l’ambiente malsano a far insorgere la malattia.

In nome dei diritti, del Welfare, della ‘tutela delle fasce deboli’, si è accresciuto, per citare Panebianco,”il controllo politico sull’economia”, si sono messe “a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele”, si sono creati enti, uffici, associazioni che hanno fatto quasi avverare la profezia del Tocqueville della seconda Democrazia in America: “Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico previdente e mite. Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino, purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità, ma vuole esserne l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri, guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?». La profezia si è realizzata un po’ dappertutto, ma specie in Italia dove si è creata una pericolosa (per le libertà civili) cabina di comando politico e di monitoraggio sociale, mai pensando che degli strumenti messi a disposizione degli ‘amici del progresso’ si sarebbe potuta impadronire la progenie di Cleone e di Catilina.

Suscita un sorriso amaro, pertanto, l’union sacrée contro i populisti e i sovranisti al governo che dovrebbe includere proprio quelli che hanno instaurato lo stato assistenziale in Italia e i loro ideologi, filosofi e giuristi, che, paladini dei ‘diritti sociali’, dichiaravano candidamente che un partito con un programma thatcheriano da noi sarebbe incostituzionale? Gli attuali governanti saranno pure “amici della Cgil”, certo non lo sono degli eserciti in rotta della vecchia sinistra.

Sofia Ventura, una scienziata politica non meno seria e documentata di Panebianco, in una breve, densa intervista, concessa a ‘La Stampa’, Il popolo non è saggio. La politica vuole le élite, (24 luglio 2018), dove a ragione critica la ‘democrazia diretta’ dei sedicenti neo-rousseauiani, scrive giustamente: «occorre più mediazione politica, non meno» ma poi aggiunge «Se noi abbiamo un problema, oggi, è che il ceto politico assomiglia troppo al popolo per povertà di esperienza, di background, di capacità». “È la democrazia di massa, bellezza!” Ma non è un processo irreversibile? Il problema è quello di capire perché tale trend nei sistemi politici stabili e liberali non ne minacci le fondamenta istituzionali mentre nelle democrazie senza salda legittimazione nell’immaginario e nell’etica collettiva finisca per lastricare la via per l’Inferno.

«L’errore di fondo, per Sofia Ventura, è credere che nel popolo risieda una saggezza universale, invece non è così». Già, non è così ed è ben per questo che, a fondamento della democrazia liberale c’è lo scetticismo di Montaigne e di Hume, non l’ottimismo antropologico di Rousseau. Poiché nessuno di noi ha la verità in tasca ma esprimiamo tutti opinioni più o meno caduche —a guidarci è la doxa non l’aleteia—non è arbitrario stabilire che debbano prevalere quelle della maggioranza. La democrazia liberale nasce dalla diffidenza verso l’uomo, segnato dal peccato originale, non verso il popolo, entità vaga e misteriosa alla quale apparteniamo tutti, o verso questa o quella classe o razza. Ritengo anch’io assurda la sostituzione della democrazia diretta alla democrazia rappresentativa che consegnerebbe il potere di far e le leggi quell’incompetenza, che ci investe tutti, fingendo di dimenticare che «chiunque di noi, chiamato ad esprimersi su argomenti difficili che non conosce, ha reazioni simili a quelle di un bambino». Sennonché, chiarito questo punto, ci si dovrebbe poi rendere conto che la politica è, sostanzialmente, mercato, sia pure sui generis, dove gli elettori sono i consumatori dei prodotti messi in vendita da vari imprenditori, che offrono le loro diverse merci, i programmi di governo. Se qualcuno vende più degli altri significa che viene incontro a bisogni di cui la concorrenza non tiene alcuna considerazione. Le élite sono quelle scelte dal popolo sovrano—ovvero dall’insieme dei cittadini iscritti nelle liste elettorali—: un politico militante, un intellettuale impegnato, potranno sentirsi in dovere di pesarle sul bilancino della loro ‘cultura superiore’ ma il dato inoppugnabile è che esse portano sul mercato i prodotti più ricercati. E se questi ultimi—è il timore fondato della politologa– comportassero la fine delle libertà politiche e dei diritti? «Pensiamo solo a che cosa può accadere, se un demagogo|…| convincesse la maggioranza che le donne sono esseri inferiori. Seguirebbero leggi a sancirne l’inferiorità». Certo è quanto potrebbe capitare in una democrazia progressiva come la nostra dove il controllo pubblico sempre più totale della società civile nelle mani di chi vuol cambiare tutto potrebbe passare in quelle di chi vuol tornare indietro. Nei paesi liberali, però, nessuno potrebbe farlo. Come scriveva Tocqueville, nella Democrazia in America: «la maggioranza, di per sé stessa, non è onnipotente. Al di sopra di essa, nel campo morale, si trovano l’umanità, la giustizia e la ragione; nel campo politico, i diritti acquisiti. La maggioranza riconosce queste due barriere e, se le capita di superarle, è perché essa ha delle passioni, come ogni uomo, e perché, come lui, essa può fare il male pur discernendo il bene».

Ma c’è un’altra domanda che ho spesso rivolto agli amici analisti della politica e che non ha trovato risposta: se la maggioranza sceglie, nel supermercato della politica, le merci cosiddette ‘sovraniste’ e ‘populiste’ è a causa della sua naturale irrazionalità o perché quelle merci appagano bisogni—ad es. di sicurezza e di identità—che le altre non sono in grado di appagare? Continueremo a lungo a concentrarci sulla paranoia di Hitler e sulla misteriosa fascinazione da lui esercitata sulle masse tedesche senza considerare minimamente quali buone ragioni esse avevano per rivolgersi a un leader politico che con gli occhi del poi, sembrò vomitato dall’Inferno.

Tornando a Panebianco, il suo discorso fa pensare più a un ideologo liberista che non a uno scienziato sociale alle prese con la ‘realtà effettuale’: «Innalzare dazi, protegge certe industrie inefficienti scaricandone i costi sui consumatori. Il protezionismo, in altri termini, colpisce il benessere dei più per favorire il benessere di pochi. Ma i più (i consumatori) sono disorganizzati e quindi hanno scarso peso politico mentre i pochi (gli addetti all’industria inefficiente) sono organizzati. I dazi li ‘fidelizzano’: una volta ottenuto il dazio essi non smetteranno mai di appoggiare il governo che glielo ha concesso (per timore che altri governanti lo tolgano di mezzo).|….|Più in generale, puntare su una economia chiusa in nome di un preteso neo-nazionalismo provoca danni economici (l’economia langue) ma genera vantaggi politici che tendono a protrarsi oltre il breve termine: assicura il consenso senza riserve al governo della parte più inefficiente del mondo della produzione, accresce il controllo politico sull’economia, mette a disposizione della politica risorse da distribuire alle clientele. Si capisce perché né i Cinque Stelle né la Lega apprezzassero Sergio Marchionne: era il simbolo di una economia aperta, efficiente e dinamica. Il loro ideale economico (come quello dei loro amici della Cgil) è l’opposto».

Avrei qualche obiezione di metodo da fare, dal momento che c’è protezionismo e protezionismo e talora si confonde il protezionismo col dirigismo e con la socialdemocrazia—come hanno mostrato gli studi di insigni storici come i compianti Rosario Romeo, Giuseppe Are e mostra oggi Guido Pescosolido nei suoi magistrali saggi sulla questione meridionale e sull’arcicalunniata Cassa per il Mezzogiorno—ma rimando la riserva ad altra sede. Quello che vorrei ribadire, invece, è che la politica è l’arte della mediazione per antonomasia, non la realizzazione di ricette astratte, per quanto ragionevoli, di economia. Se la globalizzazione provoca delle vittime, cosa si dirà a chi se ne trova male: chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato? sicché non resta che rassegnarsi alla legge del mondo fatto a scale dove c’è chi scende e c’è chi sale? E se il rottamato dal progresso trova chi fa mostra di comprendere le sue esigenze e il suo dramma per la perdita di status e di reddito? Lo considereremo una zavorra di cui liberarsi al più presto per consentire al pallone aerostatico del progresso di volare liberamente nei cieli azzurri della globalizzazione? E se la questione sicurezza e la difficoltà di convivenza interetnica nei quartieri popolari delle nostre città fa vincere i populisti diremo che, come gli untori manzoniani, sono loro ad aver creato un clima di diffidenza per trarne beneficio? O ripeteremo agli irresponsabili elettori che gli arrivi dall’Africa sono in calo e che Tito Boeri (citato da Panebianco come un’autorità indiscussa) ha invitato a fare entrare quanta più gente è possibile in Italia giacché sono i nuovi lavoratori che pagheranno le nostre pensioni e la loro esuberante vitalità a rimediare al nostro regresso demografico?

A scanso di fraintendimenti, anch’io credo che le politiche neonazionaliste non facciano bene alla nostra economia e che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro per l’Italia ma il vero problema, ripeto, è un altro: che ne facciamo di chi non condivide il mio liberalismo condito di liberismo con juicio? Gli diremo come il dignitario ecclesiastico, nel terribile sonetto del Belli, ‘avanti alò chi more more’? In un paese ci sono individui e classi sociali, regioni e aree economiche, che hanno interessi e prospettive di vita molto diversi: lo Stato nazionale era sorto anche allo scopo di trovare un modus vivendi che non garantisse il benessere collettivo (vaste programme!) ma riuscisse, ad ogni crisi, a ricucire quella ‘collaborazione sociale’ senza la quale i governi restano sempre esposti a sommosse e a potenziali rivoluzioni. A volte questo può comportare il sacrificio dell’efficienza sull’altare di un compromesso sociale che non soddisfa interamente le parti in conflitto ma riesce a tenerle buone per un certo periodo. A volte non ce né bisogno grazie al fattore ‘spazio’, che la retorica antifascista ha fatto relegare tra i ferri vecchi della storia. L’Inghilterra vittoriana spediva i poveri, i ribelli, gli asociali nelle più lontane terre dell’Impero dove poteva accadere che ex forzati creassero, come in Australia, una società civile oggi non meno raffinata di quella scandinava. Gli Stati Uniti avevano a disposizione la frontiera per rovesciarvi irregolari e scontenti che non si trovavano bene sulla costa orientale.

In Italia Giovanni Giolitti, uno statista che in fatto di pragmatismo non era secondo a nessuno, non arretrava dinanzi a ‘protezioni’ e favoritismi atti a riconciliare con lo Stato risorgimentale le masse cattoliche e socialiste per mezzo secolo estranee ed ostili. La politica è questa: la capacità di registrare attese, paure, speranze della gente comune per trovare il modo di portarle alla luce e metterle sul tavolo della grande, incessante, ’transazione collettiva’, dissinnescandone la carica potenziale. Le Group Mind Fiction—globalizzazione vs protezionismo, sovranismo vs europeismo etc. etc.—non sono di aiuto. Ci troviamo dinanzi ad antitesi troppo radicali e assolute, che   rischiano di riportarci ai climi ideologici infuocati di passate stagioni della storia italiana, il 1948, il 1968 etc. In un articolo uscito sul ‘Messaggero’ del 19 luglio u.s., Se il diritto di critica sfocia nell’incitamento all’odio la costituzionalista Ginevra Cerrina Feroni ha messo in guardia dall’uso di un linguaggio politico manicheo, volto a demonizzare gli avversari «Preoccupa che questa metodologia di attacco, combinata alla crescente deculturazione dell’uditorio, possa avere effetti dilanianti sulla dialettica democratica e possa istigare qualche sprovveduto alla violenza». Negli anni di piombo, gli ‘effetti dilanianti’ si videro bene, con gli attentati della destra a esponenti e a sedi di partiti e di sindacati e della sinistra ai militanti del MSI e di Forza Nuova—v. l’episodio dei fratelli Mattei, su cui è calato uno spesso velo di silenzio. E, tuttavia, se gli ‘eccessi polemici’ sono ancora comprensibili in bocca ai politici—ma anche qui con juicio –essi diventano armamenti retorici ai quali dovrebbe essere vietato l’ingresso nei laboratori della ricerca e dell’analisi sociale e politica. Altrimenti la Wertfreiheit—la neutralità della scienza–prescritta da Max Weber e richiamata da tutti i politologi (persino da quelli che, a differenza di Panebianco, non hanno alcuna pratica di liberalismo) diventa un mero omaggio verbale.

Ancora un’ultima (perfida) annotazione. Leggendo Panebianco si tira un sospiro di sollievo. «La classe politica oggi al potere—scrive—può contare sull’appoggio delle più potenti corporazioni del paese». Se si considera, però, che i maggiori quotidiani nazionali—da ‘La Stampa’ al ‘Corriere della Sera’, da ‘Repubblica’ al ‘Fatto quotidiano’, senza contare i ‘cespugli’ come ‘Avvenire’ e ‘Il Foglio’— pubblicano, in fatto di sovranismo, populismo, emigrazione, editoriali intercambiabili, rivolti a quell’opinione pubblica ‘disorganizzata’ ma capace di ragionare nella cabina elettorale, se ne deduce: o che non c‘è nessuna ‘potente corporazione’ dietro quei giornali o che abbiamo una stampa libera che non prende ordini da alcuna centrale di potere. Nel secondo caso, ci troveremmo davvero dinanzi a un nuovo ‘miracolo italiano’.




Il provinciale anomalo che fissò per sempre pregi e difetti dell’Italia del Dopoguerra

Giovannino Guareschi nacque il primo maggio 1908 a Fontanelle di Roccabianca (Parma) e morì a Cervia (Ravenna) il 22 luglio di sessant’anni dopo. Emblematico il giorno della nascita per uno scrittore allergico alle sinistre ma ancor più emblematico l’anno della morte. Il 1968, infatti, fu la negazione di tutto il suo ‘mondo piccolo’, della provincia profonda, in cui era vissuto, delle tradizioni che, monarchico convinto, aveva intensamente coltivato, dei costumi e dei codici morali antichi appena scalfiti dai grandi racconti ideologici del secondo Ottocento e del Novecento.

Nell’Italia di oggi, Guareschi si sarebbe sentito come un marziano, spaesato tra tanto discorrere di multiculturalismo, politicamente corretto, riconoscimento della diversità in tutte le sue espressioni.

Eppure, incallito conservatore, il «tre volte cretino» –come lo definì Palmiro Togliatti– continua ad affascinare per la sua ‘attuale inattualità’. Anche perché come Giuseppe Prezzolini, molto diverso da lui, per adoperare un facile ossimoro, era un conservatore libertario e anticonformista, come talora sono i nostalgici del ‘mondo di ieri’. Ha scritto Marcello Veneziani: «Per comporre la biografia civile di Guareschi bisogna riconoscere i suoi tre paradossi: dopo due anni nei campi di concentramento nazisti, passò per un fascista; dopo aver vinto la battaglia nel ’48, appoggiando la Dc di De Gasperi, finì in galera per la querela del medesimo De Gasperi; dopo aver umanizzato i comunisti, fondò il settimanale più efficace nella lotta al comunismo e là scrisse il primo libro nero del comunismo».

Nella sua intensa attività giornalistica e saggistica, Guareschi fu sicuramente un ‘provinciale’ ma un provinciale anomalo, che, con la sua straordinaria verve umoristica–che talora condiva pagine di grande malinconia–contribuì al successo di riviste come ‘Il Bertoldo’(1936-1943) assieme a personaggi di primo piano come Giovanni Mosca e Cesare Zavattini e che, nel secondo dopoguerra, fondò con Mosca e Giaci Mondaini (il padre di Sandra) una delle più vivaci e combattive riviste della destra, ‘Candido’(1945-1957). Dalle colonne di quest’ultima, va ricordato, diede un contributo non sottovalutabile alla sconfitta del Fronte Popolare (‘nel segreto dell’urna Dio ti guarda, Stalin no’, fu uno dei suoi folgoranti slogan) e alla battaglia anticomunista, affidata, soprattutto, al tormentone di Contrordine compagni! Una delle vignette più famose mostrava un gruppo di comunisti in camicia nera riuniti davanti alla Casa del popolo e raggiunti dal contrordine: la frase pubblicata dall’Unità che invitava a riunirsi «nell’antica fede» doveva essere corretta «nell’antica sede!».

E tuttavia la notorietà di Guareschi–segnato come tutti i comici da una vena pessimistica unita a un senso profondo della propria dignità (condannato per aver calunniato De Gasperi dando per buona una fake news rifiutò la grazia e rimase in prigione per più di un anno) e a una rivendicazione orgogliosa della propria libertà—è legata soprattutto ai racconti del ciclo ‘Mondo piccolo che videro varie trasposizioni sullo schermo—a cominciare da Don Camillo del 1952. Grazie, soprattutto, a Julien Duvivier, che si avvalse della formidabile coppia Gino Cervi (Peppone) e Fernandel (don Camillo, doppiato da Carlo Romano). L’irriducibile contrasto tra il sindaco comunista, Giuseppe Bottazzi, e il manesco parroco don Camillo ancora adesso ci parla, con tenerezza, di un’Italia che non esiste più ma che con la sua scomparsa ci ha fatto perdere qualcosa di importante.

Gianfranco Vené—uno degli studiosi più accreditati di Guareschi, con Alessandro Gnocchi, Roberto Chiarini, Giuseppe Parlato, Mario Bozzi-Sentieri, il citato Veneziani e Alberto e Carlotta Guareschi, per limitarci a questi—ha visto nello scontro/incontro tra don Camillo e Peppone quasi un incunabolo del ‘compromesso storico’. Non sono d’accordo. A mio avviso, il fascino duraturo del ‘mondo piccolo’—identificato ormai col paese di Brescello, nella cui chiesa si trova il famoso crocifisso (doppiato da Ruggero Ruggeri) che ammonisce don Camillo—sta nel suo rievocare un paesaggio spirituale, ben anteriore al tempo delle ideologie. Queste ultime risultano divisive, coi loro valori assoluti e inconciliabili ma, per fortuna, talvolta, sono casacche, indossate da personaggi integri che finiscono, sì, per trovare un compromesso ma dettato dalla consapevolezza istintiva che le persone valgono più delle idee che professano. Sta qui la vera ‘inattualità’ di Guareschi, nel ‘mito’ di un ambiente ‘paesano’ che non sarà mai ‘guastato’ dal progresso urbano e che risolverà i suoi conflitti di interesse magari anche facendo a pugni ma sempre ricorrendo a misure di buon senso antico. In un’Italia ufficiale che ancora oggi, sembra bisognosa, per sentirsi vivere, di ‘guerra civile’ e di contrapporre la luce della scienza e dei diritti alle tenebre delle regressioni tribali, Guareschi può rappresentare un simbolo umanissimo di tolleranza.

Pubblicato su Il Secolo XIX il 20 luglio 2018



Cosa fu davvero Weimar

La lettura dell’articolo di Francesco Cundari, Corrispondenze da Weimar (‘Il Foglio del 7/8 luglio) -una lunga recensione del saggio di Benjamin Carter Hett, La morte della democrazia ( The Death of Democracy: Hitler’s Rise to Power and the Downfall of the Weimar Republic, Penguin Books 2018)- ci riporta una stagione storiografica che sembrava passata dopo decenni di revisionismo. È come se, per Cundari, Ernst Nolte, George L. Mosse, Renzo De Felice, Walter Laqueur, Domenico Settembrini, Andreas Hillgruber, François Furet, Augusto Del Noce, Hannah Arendt non fossero mai esistiti. Non è il ritorno, il suo, alle interpretazioni più o meno marxiste e gramsciane dei Nicola Tranfaglia, dei Guido Quazza, dei Domenico Losurdo, ma al loro stile di pensiero che divideva la storia in pecore bianche e in pecore nere e a queste ultime non riconosceva né ragioni, né ideali ma, nel migliore dei casi, l’imbecillitas di chi si lascia mobilitare in difesa di interessi non suoi. Scrive Cundari, citando Hett, «la chiave per capire perché molti tedeschi sostennero Hitler stava anzitutto nel “rifiuto nazista di un mondo razionale basato sui dati di fatto |…| Il trauma della sconfitta spinse milioni di tedeschi a credere a una particolare narrazione della guerra non perché fosse oggettivamente vera ma perché era emotivamente necessaria”. È dunque questo impasto di vittimismo e aggressività, ricerca del capro espiatorio e paura del futuro, narrazioni autoconsolatorie e calcoli sbagliati, a spianare la strada a Hitler». Forse è il mio impenitente revisionismo a indurmi a ritenere che “autoconsolatorio” sia proprio il modo di spiegare l’ascesa irresistibile del Fuhrer con la cecità dei suoi elettori e con le loro paure indotte ad arte dagli imprenditori del panico. Conta poco che il nocciolo duro del giudizio storico di Hett e del suo entusiasta recensore italiano si differenzi da quello marxista classico per quanto riguarda l’identità del nemico ontologico della democrazia, ieri il capitalismo, oggi il rigetto della globalizzazione. Sostituire alle semplificazioni di un tempo quelle odierne non porta lontano. Dire che il nazismo «fu anzitutto un “movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione”» è ancora più privo di senso che definirlo «l’espressione degli interessi degli ambienti più reazionari e più aggressivi della borghesia monopolistica», giacché, nel secondo caso, il diavolo è un soggetto sociale ben determinato, nel primo è una tendenza storica, per lo più indicata con un termine “globalizzazione” il cui significato odierno trasposto nella Germania e nell’Europa di cent’anni fa non rinvia a fatti precisi del passato ma a obiettivi polemici del presente. E infatti non mancano riferimenti a Trump, ai populisti e ai “sovranisti”, né ci viene risparmiato il monito del grillo parlante: stiamo attenti, non siamo diversi dai tedeschi degli anni Venti e Trenta, anche noi abbiamo i nostri imbonitori dediti allo smercio della paura e masse di individui sempre disposti a dare credito alle loro fake news giacché il mondo è vulgo.

Gli apologeti di Weimar possono tirare fuori dai loro bauli magici ogni sorta di demoni però non debbono esagerare nell’alterare i fatti o meglio, nel puntare i riflettori soltanto sulle zone luminose del loro Lost Eden. Mi scuso per la lunga citazione ma mi sembra emblematica del modo di narrare la storia di Hett/Cundari: la Germania di Weimar «aveva il più avanzato movimento per i diritti degli omosessuali. Aveva un attivo movimento femminista che, avendo ottenuto il diritto di voto, andava verso il diritto all’aborto. Il movimento dei lavoratori si era guadagnato la giornata di otto ore. E la Germania degli anni Venti non era all’avanguardia solo in campo politico e sociale. Dalla pittura espressionista all’architettura del Bauhaus, dalla letteratura alla scienza, non c’era campo del pensiero e delle arti in cui non sembrasse primeggiare. In quegli anni Bertolt Brecht rivoluzionava il teatro. Il cinema tedesco, con registi come Fritz Lang e Murnau, si imponeva sulla scena internazionale. Per non parlar delle scienze, in un tempo in cui circa un terzo delle riviste di fisica al mondo erano scritte in tedesco, e a Berlino insegnava un certo Albert Einstein».

Di qui la domanda che già vent’anni fa, dopo essere stati a scuola dai grandi storici revisionisti del Novecento, ci saremmo vergognati a porre: «Come fu possibile, dunque, che nel cuore di una democrazia così illuminata, moderna, si affermasse d’improvviso la barbarie nazista?». Ormai ce l’hanno spiegato centinaia di saggi, articoli, libri che riempiono intere scaffalature (nella mia modesta biblioteca occupano una parete!) ma, evidentemente, non sono degni di considerazione, forse perché non possono venir usati, in America, contro gli elettori di Trump e, in Italia, contro le orde di Salvini e di Di Maio.

Cundari, però, sa bene che il rifiuto di un mondo razionale non fu solo nazista ma caratterizzò una corrente di pensiero, la rivoluzione conservatrice, i cui aderenti forse non erano ottusi e imbecilli. Non potevano certo dirsi “barbari” Thomas Mann, Oswald Spengler, Othmar Spann, Arthur Moeller van den Bruck, Rainer Rilke, Hugo von Hofmannsthal, Ernst von Salomon, Ernst Jünger, Gottfried Benn, Carl Schmitt, Werner Sombart, per non parlare di uno dei massimi compositori del Novecento, Richard Strauss. Non tutti i conservatori rivoluzionari, è vero, aderirono al nazismo ma se non si riconobbero nelle istituzioni e nel clima di Weimar ci sarà stata pure una ragione.

Forse tutti condivisero il disgusto di Stefan Zweig «Ber­lino si trasformò nella Babele del mondo. Bar, parchi di divertimento, pub crebbero come funghi. Ragazzi truccati, i fianchi messi in rilievo dalla vita assottigliata ad arte, passeggiavano per la Kurfürstendamm, e non erano soltanto professionisti. Ogni studente di liceo desiderava raggranellare qualche soldo e nei bar con le luci abbassate si potevano vedere pubblici funzionari e magnati della finanza adescare senza vergogna marinai ubriachi. Neppure la Roma di Svetonio conobbe orge pari ai balli dei travestiti a Berlino, dove centinaia di uo­mini in abiti femminili e donne vestite da uomo danzavano sotto gli occhi indulgenti della polizia. Nel generale collasso dei valori, una sorta di pazzia parve cogliere proprio quegli strati della classe media che fin a quel momento erano parsi incrollabili nel, loro ordine. Giovani signore andavano van­tandosi con orgoglio delle loro perversioni e per una sedi­cenne essere in odore di verginità sarebbe stato considerato un’ignominia in tutte le scuole di Berlino».

«Non tutto è esagerazione nel racconto di Zweig», commenta Peter Gay, ne La cultura di Weimar (Ed. it. Dedalo, Bari 1978) ma se solo un terzo del racconto di Zweig fosse vero, non si dovrebbe essere più comprensivi nei riguardi dei tedeschi, che vedevano sconvolta la loro “casa in ordine” e crollare quel mondo della Tradizione, nutrito di luteranesimo, di senso del dovere, di spirito di servizio che aveva fatto la loro grandezza e li aveva resi così potenti da sconfiggere due imperi (quello degli Asburgo e quello di Napoleone III) nel giro di cinque anni? Del resto non è un caso che il recente Babylon Berlin del regista Tom Tykwe abbia riscosso un tale successo da sfidare i colossi americani. Come scrive Michela Tamburrino, su La Stampa, «Tutto il fascino ruggente di un periodo storico in passato solo sfiorato; siamo nei folli Anni Venti, a Berlino, capitale cosmopolita nella quale si incontrano gli estremi: lusso e povertà, femministe, omosessuali, nazisti, comunisti, in un’ubriacatura che precede la grande crisi finanziaria e l’inflazione, quando gli echi della Grande guerra non si sono spenti e si intravedono le premesse del disastro a venire». Si comprende che i tedeschi siano rimasti sconvolti da un’opera che non rievoca giorni radiosi ma un incubo senza fine, terminato in una tragedia da crepuscolo degli dei. »

Già prima di Babylon Berlin, però, un grande film, Cabaret di Bob Fosse (1972) ispirato ai racconti berlinesi di Christopher Isherwood, ci aveva mostrato l’ambivalenza di Weimar, la tolleranza, nel cabaret, per l’unione di un uomo e di una grossa scimmia e la scena campestre in cui ragazzi biondi in divisa nazista intonano un inno patriottico che commuove tutti i presenti.

In realtà, il fallimento di Weimar fu dovuto all’incapacità di tenere assieme la Gemeinschaft, la dimensione comunitaria (le tradizioni, lo spirito  nazionale, i “costumi della mente e gli abiti del cuore”, che sono irriducibili e non universalizzabili in quanto appartengono a un popolo particolare e non a un altro) e la Gesellschaft, la dimensione societaria (in cui maturano i diritti universali dell’uomo e del cittadino, le scienze, le grandi creazioni artistiche destinate a diventare “patrimonio  dell’umanità”). I momenti trasgressivi di Weimar non erano modalità dell’umano che chiedevano di essere riconosciute e inserite in un quadro di valori autenticamente pluralistico (come nei paesi anglosassoni) ma pugni nello stomaco della vecchia, putrefatta, società borghese che trovava nei disegni di George Grosz la sua crudele caricatura e nella satira di Bertolt Brecht la sua implacabile Erinni.

Un autentico liberale, come Raymond Aron, in poche righe, nel Saggio sulla destra. Il conservatorismo nelle società industriali (1957) -Ed. Guida, 2006- aveva detto l’essenziale «Cresciuto all’ombra della monarchia, il parlamento (della Repubblica di Weimar) avrebbe potuto ottenere la sovranità e condividere il prestigio delle istituzioni tradizionali. Promosso di colpo all’onnipotenza, dopo una rivoluzione involontaria, venne schiacciato dal disprezzo di chi si definiva nazionale, dal risentimento delle masse e dall’amarezza frutto di una sconfitta della quale aveva raccolto l’eredità». Senza “il prestigio delle istituzioni tradizionali” una democrazia non dura: Aron tirava in campo la “legittimità politica”, un concetto ormai incomprensibile nell’era dell’imperialismo del diritto e dell’economia.

Articolo inviato a Il Foglio