Dimenticare Tienanmen!

L’anniversario della strage di Tienanmen non ha dato la stura ai fiumi di retorica che, soprattutto nel nostro paese, sono lo scotto da pagare in queste ricorrenze. Ci sono diverse buone ragioni che spiegano il ricordo sobrio e quasi in sordina della rivolta contro il Rosso Impero di Mao Tse Tung, il cui ritratto campeggia ancora nella piazza più importante di Pechino. Innanzitutto la Cina è una grande potenza industriale e finanziaria, che suscita ammirazione e che viene, per le sue imponenti realizzazioni, trattata con rispetto. Sta comprando mezza Africa e, in Europa, i suoi investimenti massicci, che rappresentano per alcuni il nuovo “pericolo giallo”, sono per altri una risorsa insperata per imprese (e persino per società sportive) decotte. L’Unione Sovietica pregorbaceviana, in quanto  realtà economica lontana ed estranea all’Europa, suscitava uno sdegno e una indignazione per le sue politiche repressive incomparabilmente ben maggiori di quelli suscitati  dai carri armati di Deng e dei suoi successori in doppio petto: il suo tasso di totalitarismo non era affatto superiore a quello cinese (chi parla mai delle stragi di Mao e delle violenze della rivoluzione culturale?) ma, ciononostante, tuttora in letteratura gli studiosi del totalitarismo continuano a citare, insieme a Hitler, Stalin ma raramente il “Grande Timoniere”. Diciamoci la verità, in una società come quella in cui viviamo, per la quale esistono ormai solo gli interessi economici, da un lato, e i diritti, dall’altro, e in cui l’universalismo individualista del mercato fa a gara con l’universalismo individualista dei diritti nell’eliminare come tertium incomodo la dimensione della politica, dello Stato, delle identità culturali, delle tradizioni etc., affidando beni e valori esistenziali nel primo caso, al Mercato Globale e, nel secondo a corti giudiziarie sovranazionali, la Cina non può in alcun modo rientrare nella categoria degli “stati canaglia”. A destra come a sinistra.

A destra (mi riferisco a una destra che non è poi tanto destra, quella iperliberista) perché è difficile, in realtà, avercela con un sistema politico che, grazie a dosi massicce di capitalismo, sta facendo registrare a un popolo asiatico, che, a differenza di quello giapponese, sembrava refrattario alle “benedizioni della modernità”, un progresso tecnologico gigantesco quale non si era mai visto nel corso della sua storia millenaria. A molti liberali questo basta—in fondo odiavano l’URSS più per il suo collettivismo che per la sua mancanza di libertà attribuita esclusivamente al controllo statale dell’economia—e se pure ammettono che, per Pechino, il cammino verso la “società aperta” è lontano (manca, ad es., la libertà sindacale ma i lettori di Ludwig von Mises sanno bene che per il loro Maestro non era poi così indispensabile ed anzi poteva essere nociva alla libertà imprenditoriale), vedono con soddisfazione nel modello cinese la riprova dei miracoli che può fare il mercato (sia pure con tutti i vincoli che ancora lo impacciano e che, secondo loro, verranno rimossi dalla logica delle cose). A loro modo, sono dei “materialisti storici”: è la “struttura”, sono i rapporti di produzione, che determina la “sovrastruttura”, lo Stato con i suoi apparati, i suoi simboli, il suo diritto etc.

A sinistra per motivi forse molto più complessi. Se si parla con qualche reduce del ’68, ci si sente dire della Cina di Xi Jinping: “ma che è socialismo questo?”. E tuttavia come i nostalgici del fascismo—non certo grati a Franco per non essersi associato alla guerra dell’Asse ma costretti a riconoscere che “elementi di fascismo” non potevano essere negati, se non al franchismo reale, ai crociati di “Arriba Epagna” —anche i delusi dal comunismo reale e dal tramonto delle idealità della “Lunga Marcia” non possono far finta che a Piazza Tienanmen non ci sia ancora il ritratto di Mao. I nuovi dirigenti della Repubblica Popolare saranno membri degeneri ma conservano un posto incontestabile nell’ “album di famiglia”.

Divenute pacifiste e non violente, le sinistre oggi riconoscono senza esitazione che la repressione degli studenti cinesi, che chiedevano libertà e democrazia, è ingiustificabile ma, ad attenuare l’indignazione, è il morbo totalitario di cui stentano a guarire. “Si, ammettono in molti, la restaurazione dell’ordine affidata ai carri armati fu crudele e disumana, ma gli stati capitalisti non hanno fatto di peggio? Condannare Pechino significa vedere l’albero (comunista) e non accorgersi della foresta (capitalista)”.

Ebbene la mens totalitaria consiste proprio in questo: nell’attaccare a un robusto chiodo piantato sul muro di una storia immaginata, tutta la rete dei rapporti sociali e degli eventi tragici che ne conseguono (il monocausalismo). E’ il trionfo della sineddoche: ciò che fa parte di un insieme (gli ebrei, i capitalisti, le etnie culturali, i retrogradi, i progressisti) viene reso responsabile del tutto ovvero di tutte le tempeste che su quell’insieme si sono abbattute e si abbattono. Le guerre? Le colonizzazioni? Le politiche di potenza? Per la  sinistra, che ancora non si è liberata del tutto del virus totalitario,  non sono fenomeni che dipendono da una serie sterminata e complessa di cause che avrebbero potuto anche combinarsi diversamente (ad es., l’industria metalmeccanica avrebbe potuto far valere il suo europeismo e il suo interesse all’apertura dei mercati contro l’industria metallurgica, legata a logiche protezionistiche e potenzialmente guerrafondaie) ma sono il prodotto di un “Capitalismo”—sempre identico pur nelle sue forme proteiche— abile nel rivestire ideologicamente i suoi biechi interessi con idealità superiori (la “guerra di civiltà”, la “missione dell’uomo bianco” etc.). Se, come ho rilevato altre volte, l’azzeramento della complessità è il segno equivocabile della sindrome totalitaria, tale azzeramento porta a porre sullo stesso piano, Portello della Ginestra e la rivolta di Budapest,  Tienanmen e Piazza della Loggia: in ognuno di questi casi, il “sistema” semina morte.

Eh no, va ricordato ai protagonisti degli “anni ruggenti” di ieri, divenuti oggi scettici e antipolitici, le violenze comuniste (e fasciste) nascono da una volontà precisa, da un programma, da un potere politico ben determinato che controlla la società civile e la tiene prigioniera; le violenze che costellano la storia dei regimi liberali e democratici dove il governo è un attore tra gli altri sono il risultato (spiacevole quanto si vuole) di un interagire tra gruppi sociali, associazioni, località, chiese, istituzioni culturali, stampa, scuola, i cui interessi diversi e intrecciati determinano spesso “conseguenze inintenzionali”.

Dire pertanto: “neppure a me piace quanto è avvenuto a Tienanmen ma pensate al Vietnam e alle altre guerre “capitalistiche””, significa, ahimè, restare prigionieri di un’ideologia che continua a rendere difficili i nostri rapporti con la civiltà liberale.

Articolo inviato a Il Dubbio



La “sindrome garibaldina”, quel nostro male oscuro a cui ha contribuito anche Garibaldi

Ho una passione per Giuseppe Garibaldi non inferiore – si licet magnis componere parva – a quella nutrita da Giovanni Spadolini e da Bettino Craxi, grandi collezionisti di libri e di cimeli di camicie rosse. Il nizzardo era uomo di gran cuore e tutt’altro che un incolto. La sua formazione intellettuale fu quella di un irregolare – come ce ne furono tanti nella storia, e non solo italiana – ma non estraneo ai grandi problemi sociali, culturali, politici del suo tempo. Dovette il suo apprendistato ad alcuni esuli sansimoniani che aveva conosciuto a bordo di una nave e furono essi che gli instillarono un socialismo “buonista” ma attento alle grandi trasformazioni indotte dalla scienza e dalla tecnica. Fu un impareggiabile “guerrigliero” ma, altresì, un “vero” generale come dimostrò la grande battaglia del Volturno, che segnò la fine irrimediabile del Regno delle Due Sicilie. Molto più realista del suo primo mentore Giuseppe Mazzini, mise da parte (ma non rinnegò mai) il suo istintivo repubblicanesimo, consapevole che l’Italia avrebbe potuto unificarsi solo se, se ne fosse fatto carico uno Stato moderno, con un esercito regolare, e con un monarca determinato e pronto a rischiare il trono per la buona causa.

 Da qualche tempo l’Eroe dei Due Mondi è diventato il bersaglio preferito di un revisionismo storiografico che con quello vero – mi riferisco a storici della statura intellettuale di Renzo De Felice e di François Furet – ha un rapporto, a essere blandi, solo di omonimia. A “sparare sulla croce rossa”, anzi sul poncho rosso, sono stati anche giornali divenuti poi organici al “luogocomunismo progressista” (espressione di Luca Ricolfi), a cominciare dal Foglio di Giuliano Ferrara. Sono passati i tempi – ricordati da Alessandro Barbero in una bella intervista televisiva di qualche tempo fa – in cui Garibaldi era il santo patrono sia dei fascisti (v. l’esaltazione fattane dalla Repubblica Sociale) sia degli antifascisti (v. le Brigate Garibaldi e il volto dell’eroe sul simbolo del Fronte popolare). Oggi quando non è rimosso dalla memoria collettiva viene ricordato, tutt’al più, come benemerito pacifista, generoso combattente per la libertà di tutti i popoli, e gran tribuno delle plebi italiche che voleva redimere da una condizione secolare di abbrutimento e di miseria materiale e morale. È un santino, lo ribadisco, che venero anch’io ma… E purtroppo c’è un “ma” grande come una montagna, che riguarda anche Garibaldi e la sua eredità spirituale, a riprova che nel “legno storto” siamo stati intagliati tutti anche i più fulgidi esempi di eroismo civile. Al male oscuro, dal quale il paese non riesce a guarire, ha contribuito, ahimè, pure il solitario di Caprera e in maniera decisiva.

Intendo riferirmi all’idea che al di sopra delle leggi e delle istituzioni c’è un paese morale che ha il diritto e persino il dovere di non tenerne conto quando i suoi valori son “calpesti e derisi” dall’applicazione letterale delle norme e al suo corollario, che custodi di questi ultimi siano famiglie o ceti o movimenti carismatici. Una sorta di ritorno (laicissimo beninteso) al Medio Evo e alla sua concezione dei due poteri, quello temporale, detentore della spada, e quello spirituale, erede della croce. Finché il primo – in Italia, lo stato sabaudo – si muove in conformità alle direttive spirituali che gli vengono dal secondo, nulla quaestio ma ogni volta che travalica sia pure appellandosi a leggi formali incompatibili con la sostanza etica della comunità nazionale, è compito dei Custodi dell’Ideale scendere in piazza e ricordare ai governanti i loro obblighi. In questa ottica, i diritti individuali e gli stessi pronunciamenti elettorali del “popolo sovrano” non hanno alcuna rilevanza: fanno parte del “paese legale” contrapposto al “paese morale” (la vecchia espressione “paese reale” è del tutto impropria: cosa c’è, infatti, di più “reale” del voto espresso dalla maggioranza degli elettori?).

Se ci si riflette bene, c’è uno spirito garibaldino, sia in Mussolini che portava a S. M. il Re “l’Italia di Vittorio Veneto”, sia nella pretesa della Cgil e dell’Anpi genovesi, che nei giorni scorsi avevano chiesto alle istituzioni di non autorizzare la manifestazione di Casa Pound – in cui, tra l’altro, era previsto l’intervento di una brava persona, il politico di lungo corso Gianni Plinio, passato dal MSI a Forza Italia. In entrambi i casi, la superiore legittimità di cui si sentivano portatori fascisti e antifascisti rendeva vana, ieri, la considerazione che la marcia su Roma era un autentico colpo di Stato e oggi che impedire la riunione di un partito legalmente riconosciuto e in competizione con gli altri partiti alle elezioni europee avrebbe costituito un vulnus per la democrazia, impensabile senza la più assoluta libertà di parola e di propaganda.

In un paese normale, non c’è nulla di male se si chiede al sindaco, al prefetto, al questore di non autorizzare il raduno di temuti avversari politici: chi lo fa mostra di non conoscere l’abc della democrazia liberale ma non si è obbligati ad avere sempre idee giuste e il controllo delle proprie emozioni. Da noi, però, è questo il punctum dolens, scatta la “sindrome garibaldina”: i Custodi dell’Ideale non si limitano a chiedere e a deprecare ma, se non vengono ascoltati, mettono in atto sanzioni severe, mobilitano i seguaci, provocano tafferugli con le forze dell’ordine, bloccano per ore il centro cittadino. Che ci siano chierici, giornalisti, opinion makers per i quali tutto questo è normale e non dipende affatto da una political culture che dovrebbe spaventarci bensì da una reazione eccessiva ma comprensibile all’Ur-faschismus di umbertechiana memoria, è qualcosa a cui non possono rassegnarsi gli amici, sempre meno numerosi in Occidente, della “società aperta”.

A scanso di equivoci, si può anche ritenere giusto e “costituzionale” lo scioglimento di Casa Pound – sempre ove si dimostri che la sua apologia del fascismo è un reato che prelude a una cospirazione reale progettata da adepti armati reali – ma è assurdo pensare che contro una decisione che il Governo e il Parlamento non hanno ancora preso né intendono prendere, si possa ricorrere all’Inquisizione della Cgil, dell’ANPI e finanche dei Centri sociali (antifascistissimi of course), intesi come supplenti (moralmente) autorizzati delle istituzioni carenti. Nessuno Stato di diritto può riconoscere sopra di se un pouvoir spirituel, una chiesa, che lo tenga sotto tutela.

Articolo pubblicato su Atlantico il 28 maggio 2019



Il martedì di Capaneo a Dio spiacente e a li nimici sui

Il Presidente della Vulgata

Gettano un’ombra di tristezza nell’animo degli italiani pensosi e alieni da ogni tipo di retorica (ce ne sono e sono la maggioranza) gli interventi di Sergio Mattarella sul 25 aprile e prima ancora sul giorno della memoria. Era doveroso ricordare, nelle scuole e sui media, il giorno in cui fu abbattuto un regime che, portando il paese nel baratro, aveva causato la ‘morte della patria’ ma, ricordando una pagina che Benedetto Croce scrisse nel 1918 (forse il documento spirituale più alto del 900 italiano), quando gli arrivò la notizia della fine della guerra, ci si chiede: far festa perché? Se in un incidente stradale si perde la gamba destra invece di perdere la vita, se fuor di metafora, l’Italia è stata bombardata, dilaniata dalla guerra civile, ferita nei suoi monumenti storici e nei suoi ricordi e, in tal modo, ha potuto evitare il peggio del peggio, ovvero il destino di satellite del Terzo Reich, c’è proprio materia di festeggiamento? E non sarebbe stato meglio, invece delle adunate antifasciste alle quali l’ANPI ha invitato i resistenti palestinesi (dimenticando, lo ricorda Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo’ che «in quegli anni le autorità religiose islamiche simpatizzavano per il nazismo e nessun gruppo ad essi ispirato partecipò alla Resistenza»), non sarebbe stato meglio, dicevo, deporre corone di fiori nei cimiteri di guerra inglesi, americani, polacchi che della Liberazione furono i veri non retorici artefici?

 Mattarella non ha avuto nessun dubbio nel ripercorrere le strade del fascismo, che sulle sue discutibili ricostruzioni della storia d’Italia apponeva il sigillo delle verità ufficiali: allora il dissenso comportava una condanna penale, oggi (per fortuna) comporta solo un’esecrazione morale—quella che manda in visibilio Ugo Magri, il Mario Appelius della ‘Stampa’, che, dinanzi alle esternazioni del Presidente, commenta ammirato: «Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle».

Colpisce non poco che, tranne qualche eccezione, Mattarella abbia fatto a pezzi il revisionismo storiografico del più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, senza suscitare la benché minima reazione da parte di studiosi e di pubblicisti che pure continuano a richiamarsi alla lezione dello storico reatino. Il fascismo fu una bieca tirannide che tenne per vent’anni gli italiani schiavi di una dittatura implacabile, sanguinaria, spietata con «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». E gli ‘anni del consenso’, al quale era dedicato il più importante volume dell’opera monumentale di De Felice che quarant’anni fa scatenò la reazione dei retori dell’antifascismo ma di cui, di lì a poco, si sarebbe riconosciuto da tutti il valore storico (a cominciare dal Giorgio Amendola dell’Intervista sull’antifascismo)? Cancellati dalla retorica quirinalizia! Dire che il fascismo ha lasciato opere pubbliche ed enti assistenziali importanti, ricordare che alle une e agli altri si interessò molto Franklin D. Rooosvelt che incaricò una Commissione di studiare le ricette fasciste per la crisi, significa diventare complici del nazifascismo (v. la pioggia di insulti caduta sul povero Tajani). «La storia non si riscrive!» ha sentenziato Mattarella: il fascismo è stato quello che ci hanno detto l’ANPI e gli storici partigiani, punto e basta! De Felice, scrive Francesco Perfetti, «contesta duramente la qualifica di ‘secondo Risorgimento’ per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli ‘ideali civili’ (sintesi di ‘nazione’, ‘patria’, ‘libertà’) del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto ‘secondo Risorgimento’». A Mattarella non potrebbe interessare meno: parlare di ‘Secondo Risorgimento’ significa infatti—per lui come per l’establishment culturale di sinistra– che la Resistenza non fu una mera ‘restaurazione democratica ’(come la definì—‘riduttivamente’?— Panfilo Gentile), ma una vera e propria rifondazione della comunità politica che non doveva limitarsi a disinfestare la casa occupata dall’invasore nazista  ma costruire un nuovo edificio, ispirato alla ‘democrazia progressiva’—la formula escogitata da Togliatti per far dimenticare lo stalinismo del PCI e mettere in piedi un’alleanza di tutte le forze antifasciste, dai cattolici ai soupirants azionisti.

Ognuno è libero di pensare e di dire quel che crede—anche il Presidente della Repubblica, anche il Presidente del Parlamento europeo— ma ci si chiede sommessamente: l’opinione pubblica—su cui si fonda la democrazia, quel ‘banale conteggio delle teste’—conta qualcosa o no? E se l’opinione pubblica non vede nella dittatura fascista (almeno fino alle leggi razziali, che secondo Mattarella, noto studioso dell’antisemitismo e del razzismo, erano connaturate all’ideologia di Mussolini) l’inferno in terra,  se non vuol saperne di democrazia progressiva, come dimostrò nel 1948 con la sconfitta del Fronte popolare, se sente così poco il 25 aprile—Festa in piazza, ma i partigiani sono pochi, ha scritto Ettore M. Colombo sul QN— da tenersi lontana dalle cerimonie ufficiali, come  reagirà il Colle? Potenziando l’ANPI, moltiplicando le iniziative tipo la storia in piazza, esigendo dai professori di storia contemporanea l’impegno solenne a non riscrivere la storia? La libertà non si baratta con l’ordine ma neppure col ‘politicamente corretto’, Signor Presidente!

Pubblicato il 30 aprile su L’Atlantico



Su sovranisti, sinistra ed elezioni. Intervista a Dino Cofrancesco

Domanda. Sovranisti e popolari insieme, uno scenario possibile per il prossimo parlamento europeo secondo lei?

Non sono un columnist: il teatrino della politica non mi ha mai interessato. Mi considero un osservatore attento del costume politico, degli stili politici, delle ideologie politiche e, pertanto, dichiaro la mia incompetenza per quel che riguarda la possibile composizione del prossimo parlamento europeo. Non credo, tuttavia, che sovranisti (qualsiasi cosa possa significare questo termine) e popolari possano comporre una maggioranza stabile e un’alleanza durevole. Sovranisti e populisti sono particolarmente esposti ai venti delle volubilità popolari e potrebbero esserci inversioni di tendenze, come dimostra il caso spagnolo, a mio avviso molto significativo. Inoltre i popolari rappresentano la vecchia Europa che resta diffidente nei loro confronti.

D. Quali sono le ragioni culturali e politiche che potrebbero portare a un’alleanza di questo tipo? E quali gli ostacoli da superare?

Le ragioni culturali e politiche, facili da individuare, si possono sintetizzare in un anti-, in una contrapposizione all’establishment politico, economico, culturale che può assumere varie volti, a seconda delle diverse storie nazionali, ma che viene percepito come un ceto transnazionale—i Macron, i Monti, i Prodi, gli Junker, i Timmermans—alla cui politica si attribuiscono le difficoltà di ogni tipo in cui versa l’Europa. Gli ostacoli da superare sono tanti. L’anti-establishment può declinarsi in varie forme, da destra a sinistra e i disaccordi possono riguardare valori irrinunciabili che mettono in secondo piano la ‘rivolta contro le élite’.

D. Ma sovranismo è sinonimo di fascismo?

Assolutamente no. E’ l’ora di finirla con questa continua evocazione dell’ombra del Banquo fascista e l’assordante All’armi siamo antifascisti! Il fascismo è quel regime che Renzo de Felice e altri storici ‘revisionisti’ ci hanno descritto e spiegato nelle loro opere e continuare a richiamarsi, contro quanti esaltano il ‘duce’, alle leggi Scelba e Mancino è semplicemente grottesco. Ma soprattutto è inquietante e umiliante: ci dice che lo ‘spirito repubblicano’ non trova di meglio che di contrapporsi a chi da più di settant’anni è scomparso tra le macerie della Seconda guerra mondiale. Ci si definisce non per quello che si è e si progetta ma per quello che si combatte. E più si alzano i toni dello scontro irreale più si rischia di ricalcare le orme assai poco esaltanti di quel vecchio e faziosissimo azionista torinese che chiedeva per i fascisti una ‘notte di S. Bartolomeo’.

D.Perché chi oggi evoca la sovranità è considerato oggi nella migliori delle ipotesi un troglodita?

Siamo un popolo di faziosi e di intolleranti che all’analisi sostituisce l’insulto. La volontà di capire l’altro è una tentazione alla quale si resiste senza difficoltà. Si prenda un quotidiano come ‘Il Foglio’ (e cito un giornale sedicente di area liberaldemocratica): negli editoriali del direttore e dei suoi principali collaboratori non c’è il minimo tentativo di comprendere l’avversario. Solo dileggi, sarcasmi, accuse di ignoranza e di incompetenza, richiami alla scala F di T. W. Adorno. Nessun sospetto che dietro il sovranismo—ovvero, per citare l’Enciclopedia Treccani, la «posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione» —ci sia un’angoscia epocale ovvero l’azzeramento della dimensione politica e la sua sostituzione con l’economia e col diritto. E’ un azzeramento che viene da lontano se si pensa che nel saggio di Norberto Bobbio, L‘età dei diritti, la politica—gli stati, le nazioni con i loro codici specifici—è del tutto assente. Viviamo in un’epoca in cui i diritti e gli interessi degli individui hanno cancellato tutto e poiché la gente è ritenuta incapace di perseguirli saggiamente, la stessa democrazia liberale entra in crisi, sostituita dal governo dei competenti (Cassese? Calenda? Monti?) che non mette ai voti diritti e interessi. Non ritengo che i sovranisti siano in grado di farci uscire dalle secche in cui si sono arenati i vecchi stati nazionali ma leggere che i Giulio Tremonti, i Paolo Becchi, i Paolo Savona sono ignoranti e irresponsabili mi fa pensare: ma che razza di paese stiamo diventando?

D.Quali sono i rapporti tra sovranità e globalizzazione?

Sulla base di quanto ho detto, la risposta è ovvia. La globalizzazione è planetarizzazione dell’economia (il mercato mondiale) e del diritto (i diritti universali degli individui uti singuli indipendentemente dalla loro cittadinanza) e questo comporta sconvolgimenti epocali, sul piano sociale e culturale, ai quali si reagisce con la chiusura comunitaria, col ‘nazionalismo’. Si può dissentire dal modo con cui ci si difende ma solo un cervello eterodiretto dal buonismo universalista (cattolico e laico) può pensare che non c’è nulla da cui ci si debba difendere…e che ci si debba guardare dall’’odio’.(v. l’infelice slogan elettorale di Nicola Zingaretti).

D.Il concetto di nazione è appannaggio esclusivo della destra? E oggi dunque della Lega?

Non parlerei di ‘nazione’—concetto sfuggente e ambiguo quant’altri mai— ma di ‘stato nazionale’, quale è stato messo a fuoco da Pierre Manent e, prima di lui, dal suo maestro Raymond Aron, forse la più alta coscienza etico-politica del secondo dopoguerra europeo. Lo stato nazionale volle essere l’arena istituzionale in cui si potessero tutelare efficacemente i diritti individuali, praticare la solidarietà nei confronti dei ‘fratelli’ più deboli e rimasti indietro, far fluire le correnti impetuose dell’economia tra le sponde sicure dello stato di diritto. In passato la Lega non è mai stata sensibile alla filosofia dello stato nazionale, ha inteso le nazioni come entità naturali, ha stigmatizzato il centralismo soffocatore della vita dei popoli, ha contrapposto all’edificio unitario sabaudo le nazionalità naturali (da Gianfranco Miglio a Paolo Becchi) ha affermato con vigore il diritto di secessione. La Lega inalbera ora quel tricolore sul quale Bossi sputava, meglio così. Se lo stato nazionale è il trait-d’union tra l’universo e la tribù, come dice Manent, neppure la destra tradizionale può rivendicarne l’eredità, giacché del binomio ‘universo/tribù’ salvaguarda solo la tribù. D’altra parte, la sinistra da noi non si è mai nazionalizzata veramente e il Sessantotto ha contribuito in maniera definitiva alla snazionalizzazione delle masse, come ho cercato di dimostrare nel fascicolo di Paradoxa dedicato ali ‘anni formidabili’.

D.Nazione, sicurezza, immigrati…i temi chiave della Lega. Perché oggi sono ancora vincenti in Italia nei sondaggi?

Sono vincenti et pour cause ovvero per le cause messe così bene in luce da Luca Ricolfi. Da parte mia aggiungo: siamo un’economia in recessione, con l’indice di produttività più basso d’Europa, il nostro welfare state è al collasso, il lavoro manca. ’Facciamo entrare tutti?’va bene ma siamo disposti a rinunciare a una parte del nostro reddito per assicurare ai migranti condizioni di vita decenti?. Mi ha colpito molto quanto ha dichiarato Luca Ricolfi, nell’intervista ad Anna Chirico: «Adesso si parla di muri eretti dagli Stati europei, ma la realtà è che la chiusura reciproca fra gli Stati dell’Unione è la conseguenza dell’incauta scelta di non difendere militarmente i confini esterni. Una scelta su cui hanno inciso sia la domanda di forza lavoro a basso costo da parte delle imprese, sia l’ideologia dei diritti umani e della libera circolazione delle persone. Un patto d’acciaio fra liberisti e libertari che è stato compreso tempestivamente da pochi, fra cui qualche intellettuale di estrema sinistra (Slavoj Žižek, ad esempio). L’anticapitalismo radicale, che vede le migrazioni come “deportazioni di massa” a favore dei cattivi capitalisti, ha capito la situazione molto meglio della sinistra moderna e illuminata e pro-mercato, abbagliata dal mito del “gettare ponti” fra le civiltà.

D.Quali errori ha compiuto la sinistra su questo fronte?

Il vecchio PCI, come previde genialmente Augusto Del Noce, è diventato un ‘partico radicale di massa’, ha convertito i desideri individuali in diritti, ha parlato, con ministri come Graziano Del Rio e Pier Carlo Padoan la lingua dell’establishment, ha frequentato più gli ambienti confindustriali che i quartieri operai. Una sproletarizzazione che non sta pagando troppo cara giacché seguita a occupare tutti i bastioni dell’apparato statale con uomini di fiducia e mantiene saldamente nelle sue mani il potere culturale (che la destra ha sempre trascurato e snobbato).

D.Il capo politico dei 5Stelle Di Maio sta provando, a partire dal richiamo ai valori della resistenza il 25 aprile, ad annoverarsi come l’unica alternativa di sinistra, in opposizione alla Lega con cui governa. Ci sta riuscendo secondo lei nel rapporto con il Pd?

L’antifascismo di Di Maio non ha nessuna credibilità, è mero opportunismo che nasce dalla volontà di posizionarsi più a sinistra di Salvini per sottrarre voti a Zingaretti. Non va trascurato, tuttavia, il fatto che almeno la metà degli elettori M5S viene da sinistra (e talora dalla sinistra estrema). Per Alessandro Di Battista e Roberto Fico, ad esempio, l’antifascismo non è solo retorica.

D.Il Pd è stato sorpassato a sinistra anche sulla vicenda Siri. Come si sta muovendo secondo lei il segretario Zingaretti?

La vicenda Siri è emblematica. In un paese normale, il solo sospetto sulla propria condotta dovrebbe indurre un membro del governo a dimettersi. In Italia, con la magistratura che ci ritroviamo, dimettersi può significare dare un addio alla vita politica. E’ ipocrita dire: «Dimostra in tribunale la tua innocenza, poi ti riprendiamo» giacché passerà tanto di quel tempo tra processo e sentenza che non ci sarà più nessun consiglio di ministri in cui rientrare. In questa vicenda Zingaretti non si mostra né giustizialista né garantista: è come se avesse impresso sulla fronte il marchio del perdente.

D.Mancano venti giorni al voto. Che giudizio dà della campagna elettorale dei competitors in campo?

Un giudizio sconsolato. Specialmente se guardo alla sinistra e ai suoi giornali—dal ‘Foglio’ a ’Repubblica’. Quando il voto è richiesto per fronteggiare un ‘pericolo mortale’ e non per sostenere un programma politico, siamo proprio alla frutta. I grandi protagonisti della politica europei e americani seducevano gli elettori attorno con progetti ambiziosi, a sinistra (Kennedy, Johnson, Blaire etc.) e a destra (de Gaulle, Thatcher etc.). Oggi si chiama a raccolta al grido di ‘no pasaran! ’ contro le camice verdi di Salvini! Come davvero siamo caduti in basso!

Intervista a cura di Alessandra Riccardi, pubblicata su Italia Oggi l’8 maggio 2019



Giovanni Amendola eroe del liberalismo che amava la nazione (e capì il fascismo)

Giovanni Amendola. Una vita in difesa della libertà (Ed. Rubbettino) è il titolo del volume collettaneo, a cura di Elio d’Auria, lo storico che ha dedicato un’esistenza allo studio e alla raccolta di scritti del leggendario capo dell’opposizione aventiniana al fascismo. Della complessa e poliedrica personalità di Amendola vi vengono analizzati quasi tutti gli aspetti: dal filosofo (Girolamo Cotroneo, Angelo Sabatini), al pubblicista (Mario Pendinelli, Sandro Rogari, Gerardo Nicolosi), dallo statista (Federica Guazzini) al teorico di una nuova democrazia (Fabio Grassi Orsini, Luigi Compagna). Non mancano capitoli di grande interesse sulle ‘amicizie politiche’ di Amendola (Sergio Zoppi, Lucio D’Angelo), sulle sue idee economiche (Guido Pescosolido), sulla sua analisi del fascismo (Giuseppe Bedeschi).

Sintetizzando il significato più profondo dell’impegno etico-politico amendoliano, ha scritto d’Auria: «La battaglia che egli combatté in difesa della libertà e della democrazia, si concentrò nel ridare allo Stato l’autorità di organismo al disopra delle parti che risolveva i conflitti sociali e politici attraverso la libera partecipazione dei cittadini all’esercizio degli affari pubblici» Alla forte valenza mazziniana di tale battaglia si era richiamato il prestigioso storico cattolico Gabriele De Rosa: «Tutta la pubblicistica amendoliana—si legge in un saggio del 1961— si muove attorno a una concezione mazziniana della democrazia, attorno a una concezione, cioè, in cui l’istanza parlamentare è subordinata all’idea dello Stato nazionale, come espressione degli interessi e delle aspirazioni ideali di una comunità che non esaurisce la sua vita pubblica in quella delle classi e dei partiti».

In un’epoca, come la nostra, in cui il Risorgimento, i suoi ‘eroi’, i suoi simboli sembrano tramontati nelle coscienze e nel ricordo degli Italiani, non può che apparire inattuale la lezione del  filosofo napoletano che rivendicava con forza il nesso tra lo stato nazionale, la democrazia e i diritti di libertà: un nesso che le giovani generazioni, va detto francamente, non sentono più, anche per colpa dei petulanti revisionismi storici che, presenti persino in trasmissioni televisive di grande ascolto (v. ‘Made in Sud’), dileggiano la fede dei ‘nostri padri’—di Francesco De Sanctis, di Benedetto, Croce, di Giustino Fortunato, di Gaetano Salvemini, di Gioacchino Volpe, di Rosario Romeo etc. etc.—riproponendo vetusti luoghi comuni come il ‘saccheggio piemontese’.

Introducendo la raccolta dei suoi scritti politici, chiestagli da Piero Gobetti, Amendola ricordava con orgoglio il principio ideale a cui aveva ispirato tutta la sua vita di filosofo e di combattente. «Tale direttiva si riassume in una appassionata ed incrollabile fede nello Stato nazionale, concepito come la sola creazione veramente rivoluzionaria in un millennio di storia del popolo italiano, e come la sola garanzia efficace del suo avvenire; ed in una consapevole volontà di azione rivolta ad introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato, allargando, profondando e consolidando le sue fondamenta in tutta 1’estensione spirituale della coscienza italiana». Di qui, altro motivo della sua inattualità, il suo liberalismo anti-individualista che lo portava a scrivere: «L’individuo non ha diritti assoluti contro la tradizione e contro la società; perché tradizione e società entrano a costituirlo in larga misura. Pertanto l’autonomia del singolo, su cui è fondata la libertà civile, non assolve l’individuo dalle sue responsabilità verso il passato, il presente e l’avvenire della società in cui egli vive; ma anzi le rende più precise ed imperative».

Ne derivava una strategia dell’attenzione verso Mussolini—v. il magistrale saggio Bedeschi—nutrita di illusioni comuni a gran parte dei liberali del suo tempo (sulla possibile costituzionalizzazione del fascismo) ma, altresì, capace di porre problemi cruciali che la retorica antifascista e resistenziale ha azzerato. Non si tratta per lui solo di riconoscere che contro la ‘minaccia del bolscevismo dissolvitore’ il fascismo (siamo nel 1922!) «rappresenta una tutela, la cui persistenza continua ad essere necessaria, una garanzia per l’avvenire del nostro Paese» ma di ben altro: del tentativo, appunto, di «introdurre tutto il popolo nella vita dello Stato», nella fattispecie, «l’Italia di Vittorio Veneto». Per Amendola la vera tragedia italiana sta nel fatto che una reazione ‘sana’, quella fascista, si sia trasformata nella demolizione dello ‘Stato di diritto’ e che il rimedio sia risultato peggiore della malattia. Risposta sbagliata a un problema reale, quindi: è quanto una storiografia anpista e faziosa si ostina ancora a non vedere.

Alla luce di questi rilievi, ci si chiede davvero chi possa essere interessato al pensiero di Amendola: non gli antisovranisti duri e puri, per i quali lo Stato nazionale è un fantasma di cui ci si deve disfare al più presto; non i neo-liberali per i quali un liberalismo anti-individualista sarebbe un ossimoro; non gli idolatri del nuovismo, per i quali destra e sinistra non stanno sullo stesso piano, giacché l’una è la reazione e l’altra il progresso (Amendola aveva denunciato il ‘bacillo deleterio’ che portava a non riconoscere più nello stato democratico il garante della civile competizione tra destra e sinistra); non i fanatici della globalizzazione, che non intendono più il nesso aristotelico, chiaro ad Amendola, tra la forza delle classi medie e la vitalità della democrazia liberale. (v. l’opportuno cenno di Pescosolido).

E tuttavia il ‘superato’ Amendola fuori d’Italia non si troverebbe oggi in cattiva compagnia. Da anni, infatti, in Francia come nei paesi anglosassoni, la demonizzazione dello Stato nazionale è oggetto di profonda revisione critica. Autori come Abigail P. Aguilar, Yoram Hazony, Pierre Manent, David Miller, Roger Scruton, Yael Tamir parlano di «liberal nationalism» in un senso che sarebbe piaciuto molto al grande antifascista. Uno dei più importanti sociologi del nostro tempo, Edward Shils  nel 1995 aveva scritto in Nazione, nazionalità, nazionalismo e società civile: «I diritti nascono dall’essere membri di una collettività indipendentemente dal fatto di venire etichettati come ‘diritti umani’. Essi sono rivendicazioni nei confronti degli altri membri della collettività, non sono diritti che un individuo  possiede per il semplice fatto di appartenere alla specie homo sapiens; egli chiede e ottiene diritti come conseguenza dell’essere membro di una collettività.». Amendola avrebbe condiviso toto corde.

Articolo pubblicato su Il Giornale del 5 aprile 2019