Rileggendo oggi Rosario Romeo

Cancel culture. Il tumore maligno che ha colpito l’epoca contemporanea è la rimozione della storia, che è poi il rifiuto del destino che ci è toccato

«Un ragazzo di colore, Tory Bullock – ha scritto Giulio Meotti sul “Foglio” alcuni mesi fa – chiede di abbattere la statua, perché Lincoln non è un liberatore, ma soltanto un uomo bianco, in piedi sopra un ragazzo nero in ginocchio. In un video pubblicato giovedì sulla sua pagina Facebook, Bullock, uno scrittore, attore e influencer, ha fatto appello al sindaco di Boston Marty J. Walsh per rimuovere il memoriale. Ha lanciato una petizione, raccogliendo migliaia di firme». L’amministrazione democratica della città ha accolto la richiesta dell’afro-americano e così l’imponente statua è stata rimossa. Del resto Fred Kaplan, nel saggio Lincoln e gli abolizionisti, ha messo il timbro del politically correct sull’intera questione: “il presidente americano che ha abolito la schiavitù lo ha fatto con indugi, politicismi e lentezze perché, in fondo, era uno sporco razzista”.

Ho rilevato spesso – ma temo di essere la classica vox clamantis in deserto – che non è affatto da sottovalutare quanto sta accadendo in America. Non si tratta di accessi di follia o di un momentaneo “oscuramento dell’intelligenza” o di effimere mode culturali destinate a durare l’espace d’un matin ma della fine di un mondo – del nostro mondo – alla quale dovremmo purtroppo rassegnarci. Ciò che tramonta è l’idea che tutto ciò che siamo, nel bene e nel male, è il prodotto delle generazioni che ci hanno preceduto e che ogni passo avanti sulla via del cambiamento non avviene bruciandosi i ponti alle spalle. Se si fa il deserto dietro di noi ci si ritrova, immancabilmente, col deserto davanti a noi. Non solo gli individui, anche le società non possono trovare il necessario equilibrio interiore per produrre grandi opere di civiltà se non fanno i conti col passato, selezionandone i lasciti vitali da quelli caduchi.

Il tumore maligno che ha colpito l’epoca contemporanea è la rimozione della storia, che è poi il rifiuto del destino che ci è toccato. Roma conquistò il mondo finché la pietas nei confronti degli antenati fu il lievito della sua etica pubblica: le guerre civili che la insanguinarono, le forme di governo che sperimentò nel corso della sua storia secolare non le impedirono di rendere omaggio a quanti avevano concorso alla sua grandezza. In fondo Giulio Cesare venne pugnalato ai piedi della statua eretta a Pompeo Magno. La Rivoluzione francese non abbatté i monumenti che celebravano i grandi re che avevano costruito lo Stato e la Nazione e la stessa dittatura sovietica dovette ricordare le figure dei grandi zar per infiammare gli animi di odio antitedesco nell’anno dello sciagurato attacco di Hitler alla Grande Madre Russia.

Per avere senso compiuto del mondo che si è perduto, si potrebbero rileggere con profitto gli scritti del più grande storico italiano della seconda metà del XX secolo, Rosario Romeo. Non parlo solo dell’imponente studio su Cavour – un autentico chef-d’œuvre della storiografia italiana – ma degli articoli pubblicati sui grandi quotidiani, dal “Corriere della Sera” al “Giornale”. Dove è stupefacente la capacità dello studioso siciliano di impartire raffinate lezioni di metodo storico, recensendo le ricerche storiche via via sfornate dall’editoria italiana. Romeo era un autentico liberale ma il suo era un liberalismo che si traduceva in maturo “giudizio storico”, in meditazione profonda e documentata del passato, in volontà di comprendere i valori politici in conflitto: non venne mai tentato di spiegare ai suoi allievi e lettori “che cos’è il liberalismo” e non solo per la sua totale estraneità all’approccio ideologico agli eventi umani – caratteristico, va sans dire – di tanti suoi colleghi, (soprattutto marxisti) ma anche perché, nella dialettica tra la “vita” e le “forme”, gli interessavano gli individui concreti – gli attori sociali e politici – e non i programmi o gli intenti rimasti sulla carta.

Nel volume Scritti storici 1951-1987 che raccoglie i suoi interventi sui quotidiani (Ed. Il Saggiatore 1991 con Introduzione di Giovanni Spadolini) mi è parsa esemplare la recensione dedicata al lavoro di Mario Silvestri, Isonzo 1917 (Ed. Einaudi 1965). Al moralismo del pur apprezzato Silvestri, che condivide il giudizio di condanna emesso da Benedetto XV sulla prima guerra mondiale, Romeo obietta: “Perché certamente, la prima guerra mondiale, vista a mezzo secolo di distanza può apparire davvero ‘inutile strage’, guerra civile” rovinosa per l’Europa che sacrificò una somma enorme di energie e aprì essa stessa la via al declino della sua posizione nel mondo, senza che nessuna delle mete proposte ai popoli dai governi e dai ceti dirigenti a giustificazione dell’immenso massacro – di gran lunga il maggiore che l’Europa occidentale abbia conosciuto, anche in confronto al secondo conflitto mondiale – fosse paragonabile al sacrificio. Ma è evidente che con siffatte argomentazioni si rischia di troppo dimostrare: e a questa stregua non solo la prima guerra mondiale ma le rivoluzioni nazionali del Quarantotto e la stessa Rivoluzione francese con le successive guerre napoleoniche, per non parlare delle guerre di religione o delle Crociate appariranno inutili massacri compiuti per ideali di cui si può mostrare facilmente che non furono più alti di quelli che il Silvestri giudica “falsi” e “grotteschi” del 1914, o che quanto meno simboleggiavano mete assai più economicamente raggiungibili per altra via. In tal modo l’intera vi­cenda degli uomini può apparire assurda e grottesca: se a fermarci su questa strada non intervenisse il ricordo di quale somma di valori sta invece intrecciata a quel grottesco, e se non fosse doverosa una generale riserva metodica di fronte al patente anacronismo di giudizi come questi, nei quali ideali interessi e aspirazioni del nostro presente vengono assunti a criterio di valutazione di epoche e di uomini che non li conob­bero e che si mossero invece sulla scia di altri interessi, aspirazioni e ideali”.

Siamo davvero a una svolta storica epocale: quello che Romeo giudicava un esito paradossale – e quindi assolutamente impensabile in una società civile moderna – sta diventando in America senso comune e, di lì, si sta riversando sull’Europa. Se oggi si facesse leggere a uno studente (liceale o universitario), il lungo brano appena citato, il suo stupore sarebbe eguale a quello provato dal grande risorgimentista se, redivivo, leggesse il libro di Fred Kaplan su Lincoln e gli abolizionisti. Giudizi anacronistici quelli di Mario Silvestri, di Benedetto XV e ora di Papa Francesco? No dal momento che il principio della retroattività in fatto di morale, sembra essere inteso e vissuto ormai come la grande conquista del nostro tempo.

Mi si consenta, però, una perplessità: non si dovrebbe, sul piano dell’assolutismo etico, che ispira la “cancel culture”, rammentare il detto evangelico “chi è senza peccato, scagli la prima pietra”? Se siamo così poco indulgenti verso i nostri padri e nonni, se non siamo affatto disposti a ricordare che, accanto ai lati oscuri del loro difficile “mestiere di vivere”, ci sono anche quelli positivi – le virtù che ci hanno fatto crescere moralmente e spiritualmente – non dovremmo usare la stessa, spietata, intransigenza verso di noi e i nostri vizi? Non dovremmo farci santi, diventare tutti “arcangeli della morte”, come l’integerrimo Saint-Just che con Robespierre, impose “la virtù all’ordine del giorno”?

No, non è proprio il caso di sottovalutare l’iconoclastia nordamericana ed europea! Quel che sta accadendo oggi non è una pericolosa stravaganza, è l’inizio di un incubo. E lo si capisce solo se il vilipeso “storicismo” – divenuto quasi sinonimo di passatismo, di avversione alla scienza e alla modernità – è stato una componente importante della nostra educazione dell’anima.

Pubblicato su Huffington Post il 2 gennaio




Cultura e stili di vita centrati sul presente, sindrome del nostro tempo

Uno dei più grandi giuristi del nostro tempo Ernst Wolfgang Boeckenfoerde, in uno scritto ripreso in Diritto e secolarizzazione (ed. it. Laterza 2010), si chiedeva «in quale misura i popoli riuniti in uno Stato possono vivere soltanto della garanzia della libertà del singolo, senza un vincolo unificatore preesistente a questa libertà?». I singoli in virtù del processo di secolarizzazione, che in sostanza estrometteva Dio dalla politica, «dovettero cercare una nuova comunanza e omogeneità, se non volevano che lo Stato cadesse in preda alla disgregazione interna, che porta poi con sé un cosiddetto totale controllo esterno». Nel XIX secolo «una nuova forza unificatrice subentrò a quella antica: l’idea di Nazione. L’unità della Nazione prese il posto dell’unità religiosa e fondò una nuova omogeneità, sia pure orientata in senso più esteriore e politico». Sennonché la Nazione – e lo Stato nazionale – ha perso da tempo la sua «efficacia formativa» e non solo in molti Paesi europei.

Le parole di Boeckenfoerde fanno venire in mente uno degli scritti più ispirati di Rosario Romeo, il principe della storiografia italiana della seconda metà del Novecento, Nazione (1979) pubblicato nell’ “Enciclopedia del Novecento” (e ripreso poi nella raccolta Italia, mille anni ( Ed. Le Monnier). Nella nostra epoca, sosteneva l’Autore, «sono così diffuse e presenti nella cultura di tutto il mondo le tentazioni e i rischi di una concezione e di uno stile di vita tutto risolto nel presente e non più in grado di conferire all’esistenza degli uomini quel senso e significato che viene dalle grandi concezioni storiche e religiose». La causa veniva riportata alla crisi dello Stato nazionale che ha coinciso con un drastico abbassamento della vita culturale. «Quale può essere, si chiedeva Romeo, il livello della vita collettiva in un Paese che ha di fatto rinunciato a decidere in modo autonomo dei propri destini, limitando la propria realtà essenzialmente alla buona amministrazione e alla corretta gestione dell’economia, e rinviando invece ad altre potenze, di altro rango e statura internazionale, le decisioni relative dai grandi problemi della sicurezza e della pace nel contesto mondiale?». La grande potenza diventava, così, condizione necessaria (ma non sufficiente) di responsabilità, di elevazione culturale, di etica pubblica, di senso profondo della dignità del cittadino. Non a caso nel corso universitario tenuto su Richelieu, lo storico legava il ruolo internazionale acquisito dalla Francia grazie al cardinale, all’egemonia che la lingua francese esercitò per due secoli sul vecchio continente, alla grande letteratura, al teatro, all’arte, alle scienze che trovarono a Parigi stabile dimora.

A rileggere le pagine di Boeckenfoerde e di Romeo sembra di trovarsi in un altro pianeta. In particolare la critica mossa dal secondo alle teoriche federaliste (che attribuivano allo stato nazionale la responsabilità di tutte le guerre e dei tutti i crimini), le riserve (già di Benedetto Croce) sul Tribunale di Norimberga, la denuncia della divisione della Germania, l’assenza di retorica occidentalista nel racconto della seconda guerra mondiale sono polpette avvelenate per la mensa del “politicamente corretto”. Quest’ultimo non comprende solo il buonismo universalista ma il ripudio stesso della storia, vista illuministicamente, come un catalogo di violenze insensate, di sopraffazioni, di negazione dei diritti più elementari alla libertà, alla dignità, al rispetto. La cancel culture è il lievito spirituale di quella contraffazione del liberalismo classico che è il moderno libertarismo di ispirazione nordamericana. Quest’ultimo riprende e assolutizza tematiche della grande scuola austriaca degli Hayek e dei Mises, fa a pezzi, nella galleria della “società aperta”, le statue di Immanuel Kant, di John Stuart Mill, di Alexander Hamilton di Max Weber, di Benedetto Croce. La sua filosofia politica è molto semplice: dove c’è stato, c’è nazione, dove c’è nazione, c’è fascismo.

Per il filosofo del diritto, Carlo Lottieri, autore dell’agile manuale Liberali e non. Percorsi di storia del pensiero politico ( Ed. La Scuola 2013) John Stuart Mill – l’autore di On Liberty – si colloca al di fuori del liberalismo non avendo compreso come «le potenzialità negative della ricchezza e delle idee» fossero «una minaccia alla libertà solo indirettamente, quando si alleano con la politica», ovvero con lo Stato moderno, che si è abbattuto sul povero genere umano facendo più vittime delle dieci piaghe d’Egitto. Non lo sfiora neppure l’idea del rapporto libertà individuale/statualità: la fine dell’ordine medievale, con la sua «logica policentrica» è per lui l’inizio del grande arretramento del diritto che nasce dal basso, dal rapporto di persone concrete che stipulano accordi circoscritti e l’ascesa del Leviatano che tutto spiana al suo passaggio. Se ne deduce che il passato – con le sue glorie, con i suoi monumenti civili, con le sue culture impensabili senza i grandi conflitti di civiltà – va rimosso come un incubo che ancora grava sulle nostre vite. Che senso ha idealizzare la regina Vittoria, imperatrice delle Indie, erigere monumenti ai grandi zar modernizzatori, a Giuseppe Mazzini, reo di ritenere che senza la dimensione collettiva e nazionale gli Italiani saranno sempre i paria tra le nazioni, ai grandi re che fecero la Francia – soffocando come riteneva Proudhon l’anima delle singole regioni?

Che si possa fondare una “scuola di pensiero” su queste idee, su questa visione del mondo, si può comprendere. Dovremmo però essere consapevoli che esse creano una frattura insanabile nella cultura liberale. Il liberalismo classico (non quello di Lottieri) nasce dalla profonda meditazione sulla storia, da una critica del razionalismo fondata non su un astratto giusnaturalismo – i diritti individuali assoluti che lo Stato moderno mette in forse – ma sullo scetticismo classico, anch’esso, inteso come senso della relatività delle opinioni, che si traduce in bargaining, in compromesso tra i valori politici in conflitto affidato all’arte politica.

Pubblicato su Il Dubbio del 28 novembre 2020




Usa, “atomi sociali” in libera uscita

Da tempo ormai le stelle degli Stati Uniti sono diventate sempre più opache e lontane: la terra promessa della democrazia liberale è solcata da lacerazioni di ogni tipo – ingovernabilità dei degradati quartieri afro-americani, violenze della polizia, contestazione della Civic culture che aveva fatto grande il Nuovo Mondo, abbattimento dei suoi simboli antichi, declino delle classi medie, allargamento della forbice tra gli have e gli have not, catastrofi ecologiche fuori controllo – tali che inducono a parlare di crisi epocale del mondo anglosassone, se non di tramonto di quell’Occidente che oltre Atlantico celebrava i suoi trionfi.

Agli States è rimasta la potenza industriale e quella finanziaria, una pesante armatura, dentro la quale, come nel Cavaliere inesistente di Italo Calvino, c’è il vuoto. In questo Sunset Boulevard vien voglia di rileggere quanto avevano scritto sul nuovo continente i grandi viaggiatori e sociologi dell’Ottocento e del Novecento, da Alexis de Tocqueville a James Bryce, da Michel Chevalier a Gunnar Myrdal ovvero gli scrittori politici che avevano più contribuito a consolidare nell’immaginario collettivo una certa idea dell’America.

Un importante momento di questa fabbrica del mito americano può essere costituito dalla Society in America di Harriet Martineau (1837) di cui la storica delle dottrine politiche e appassionata studiosa della “questione femminile”, Ginevra Conti Odorisio, ha curato un’edizione ridotta per la collana da lei diretta, Donne e politica, pubblicata dall’editore Aracne. La Martineau, infatti, si presta ad essere un significativo case study per comprendere che cosa del mondo americano affascinò gli europei colti e “progressisti”(in senso lato) e che cosa sfuggì ad essi e di cui oggi ci rendiamo drammaticamente conto.

La poligrafa scrittrice inglese – è sterminato l’elenco delle sue opere, dall’economia politica ai romanzi letterari – ha un duplice merito: il primo, scientifico, di aver svolto un’inchiesta a tappeto sulla società e sui costumi americani, consultando gente di ogni ceto sociale, razza, regione, religione, sì da venir considerata a mio avviso con qualche esagerazione – anche da studiosi come Robert Nisbet e Seymour M. Lipset, la fondatrice della sociologia; il secondo, etico-politico, di aver denunciato sia la soggezione delle donne americane, prive del diritto di voto, sia la vergogna della schiavitù. In anni in cui la questione razziale non aveva ancora toccato il punto più drammatico, la Martineau spiegò agli europei «cosa significasse la segregazione negli atti più elementari della vita quotidiana, come mangiare, pregare lavorare. Esclusa dall’istruzione, dalle cariche pubbliche, dalle professioni e dalle associazioni scientifiche e letterarie, la gente di colore vive in un clima umiliante, ammessa soltanto ai lavori più duri e ingrati». E ancora con parole roventi: «Nella fisionomia di ogni animale vi è vita e una certa forma di intelligenza anche in quella della stupida pecora; mentre non vi è nulla di così spento e vago come nello sguardo dello schiavo.|…| Visitammo il quartiere dei negri e dovunque mi recassi in questa piantagione provai un profondo disgusto. Era una via di mezzo tra un covo di scimmie e un’abitazione di esseri umani». Tralascio citazioni di pagine sulla questione femminile e mi limito a ricordare che il principio fatto valere della Martineau – e al centro del femminismo liberale dell’800 e del 900 – che “nessuno è tenuto a obbedire a leggi alle quali non ha dato il suo consenso”, fa della lettura di Società in America un testo che avrebbe potuto essere scritto cento e più anni dopo.

Vorrei invece richiamare l’attenzione sul coté illuministico dell’opera, ovvero sull’idea che i principi egualitari su cui si fondava la Dichiarazione di indipendenza – e che facevano sì che in ogni agglomerato urbano si trovasse «un cittadino indipendente» e «nelle campagne un proprietario terriero» – sarebbero stati il lievito spirituale di una civiltà superiore più libera, più generosa, più colta di quelle europee. E in ogni caso avrebbero portato a un melting pot disgregatore dell’idea di Nazione.

Per l’America, «la varietà dei suoi abitanti costituisce un’inesauribile risorsa. Per una Nazione può essere motivo d’orgoglio discendere da un unico ceppo, ma in definitiva è molto meglio che diverse Nazioni abbiano concorso alla sua formazione. Ne risulta un miscuglio di qualità fisiche e intellettuali, l’assimilazione di pregiudizi nazionali, l’incremento delle risorse mentali che finiscono per elevare il carattere della Nazione».

Erano entusiasmi ingenui di una fervente “radical” vittoriana, giacché come ha dimostrato Samuel P. Huntington in un grande libro, La nuova America ( 2005): «E’ difficile che la gente trovi nei principi politici – libertà, uguaglianza, democrazia, rispetto dei diritti civili, non-discriminazione, rispetto della legge – il profondo contenuto emozionale e il profondo significato che vengono assicurati dai vincoli sociali e familiari, dai legami di sangue e dal senso di appartenenza, dalla cultura e dalla nazionalità». Molti americani fino alla Seconda guerra mondiale e ancora diversi anni dopo, erano arrivati «a convincersi che il loro Paese poteva essere multinazionale, multietnico e privo di un’essenza culturale specifica, pur rimanendo una Nazione coerente, la cui identità veniva definita unicamente dal credo. Ma è proprio così? Una Nazione può essere definita solo da un’ideologia politica?». L’abbattimento delle statue dei Founding Fathers, esaltati nella Società in America, sono una risposta eloquente. Molti studiosi della Martineau – penso soprattutto a Michael Hill – vorrebbero che venisse riconosciuta la sua superiorità scientifica (!) rispetto a Tocqueville, condizionato – nei suoi appunti di viaggio e poi nella Democrazia in America – dal suo essere un bianco, maschio, aristocratico, portato a selezionare i fatti e a ritenere solo le opinioni da lui condivise.

Sennonché il nobile normanno per tutta la sua vita fu assillato da un problema cruciale: in una società di eguali – e gli Stati Uniti ne costituivano il modello politico per antonomasia – che cosa tiene insieme gli “atomi sociali” liberi ormai da ogni obbligo e da ogni autorità spirituale e temporale del passato?

Pubblicato su Il Dubbio del 31 ottobre 2020




Eterno non è il fascismo ma il manicheismo, nemico della civiltà liberale

Nelle ultime settimane dell’estate si tiene a Camogli il Festival della comunicazione, ideato da Umberto Eco e da Danco Singer. Una Valle di Giosafatte in cui ci sono tutti: scrittori, saggisti, attori, registi, giornalisti storici, psicologi, sociologi, letterati etc. etc. Non tutti, per la verità, ma quasi tutti giacché una conventio ad excludendum ne tiene fuori quanti non fanno parte del mainstream culturale – diciamo, brutalmente intellettuali vicini al o non lontani dal centrodestra. Non è casuale, del resto, che a ridosso del Festival, “Repubblica” – diretta dal liberale Maurizio Molinari – abbia distribuito, nei giorni 15 e 16 settembre due scritti di Umberto Eco, Il fascismo eterno e Migrazioni e intolleranza.

Eco è stato un benemerito degli studi semiologici in Italia, ha scritto diversi romanzi (“Il nome della rosa”, “Il pendolo di Foucault” etc.) per la verità di faticosa lettura e, soprattutto, ha coltivato il genere parodistico talora in maniera geniale. (Fu lui a far ripubblicare da Bompiani l’Antologia apocrifa di Paolo Vita-Finzi).

Le bustine di Minerva sono, sia pure per palati raffinati, una lettura divertentissima degna dei grandi umoristi della letteratura italiana. Sennonché il filosofo alessandrino – che aveva una solida formazione medievistica e una non comune competenza di storia dell’estetica – decise, a un certo punto, di diventare il maître-à-penser di un paese ormai incamminato sulla via della secolarizzazione e che del marxismo aveva rimosso i fondamenti teorici portanti ma non la rivolta contro il capitalismo e la società di mercato. Forse la vera anima del sessantottismo totalitario fu proprio Eco, con la sua dissacrazione della società borghese e della sua etica repressiva. A questo punto, però, ci si chiede: come mai della sua vasta e importante produzione intellettuale si sono scelti proprio i due discutibili volumetti sul fascismo e sull’intolleranza? La spiegazione sta nel fatto che ormai in Italia, per citare Max Weber, le parole che si pronunciano nei Festival culturali, «non sono un vomere per fecondare il terreno del pensiero contemplativo, bensì spade contro gli avversari, strumenti di lotta», sono una politica fatta con altri mezzi. Si sarebbe tentati di dire: una patetica chiamata a raccolta di un ceto intellettuale che, incontrandosi e contandosi, si compiace di essere così numeroso ed esorcizza il fantasma di un popolo che elettoralmente ha voltato le spalle alla sinistra.

 L’Eco maître-à-penser rivela tutta la sua formazione cattolica: nel mondo si svolge l’eterna lotta delle forze del Bene contro quelle del Male e compito del filosofo è quello di mettere in guardia dalla lezione pluralistica di Isaiah Berlin per il quale «le peggiori catastrofi della storia nascono da contrasti tra principi buoni», come giustizia e libertà, tra valor militare e aspirazione alla pace, tra nazione e umanità.

Non meraviglia, quindi, che il fascismo diventi una sorta di Arimane che attraversa i secoli. Nella sua “brillante paranoia” – come Alfonso Berardinelli definì Il fascismo eterno – Eco lo associava a una serie di brutture (tradizionalismo, antimodernismo, culto dell’azione, criminalizzazione del disaccordo e del pacifismo, paura della differenza, appello alle classi medie frustrate, tribalismo, complottismo, invidia sociale, elitismo, militarismo, machismo, populismo qualitativo, neolingua) con le quali dovremo sempre cimentarci. Si tratta di caratteristiche presenti in molti regimi totalitari ma generosamente assegnate al solo Ur-Faschismus.

Se nichilismo significa cancellazione di un momento imprescindibile dell’umano, Eco, innegabilmente, aveva un coté nichilistico: la “comunità” (tradizione, patria, etnia, famiglia etc.) era per lui un disvalore assoluto, il cilindro da cui Satana faceva uscire i cavalieri dell’Apocalisse. In Migrazioni e tolleranza, profetizzava, non senza un sottile compiacimento, che «nel prossimo millennio l’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite, “colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso». «L’Europa sarà come New York o come alcuni paesi dell’America latina». Diventeremo quindi una società di meticci! E sia pure ma che c’azzecca l’esempio della civiltà romana, razzialmente meticcia ma con un senso così forte dell’identità culturale e istituzionale da trovare l’ultimo cantore in Rutilio Namaziano, un gallo narbonese. «Signora, disse Fustel de Coulanges all’imperatrice Eugenia, sua allieva— noi siamo di razza celtica ma di cultura romana». Sarebbe assai difficile trovare tale orgoglio nei Black Lives Matter o nelle altre etnie che rendono le società multiculturali latino-americane (e ora anche gli Stati Uniti) così instabili e conflittuali.

Lo stesso Eco, è vero, riconosce (retoricamente) che la “tolleranza aperta” è cosa buona ma «dobbiamo nello stesso tempo riconoscere che ci sono abitudini, idee, comportamenti che sono e devono restare per noi intollerabili». Ma chi, poi, in una democrazia che si rispetti, deve stabilire cosa è da conservare se non i cittadini che non si affidano alla sofocrazia ovvero ai preti, ai dotti, agli scienziati, ma valutano l’accettabile e il non accettabile in base alle loro esigenze e al loro ideale di “vita buona”?

Per Eco, i populisti non hanno idee ma solo «pulsioni selvagge»: l’”altro” quindi non è un avversario politico ma un agente patogeno.

Non ci resta che un commento malinconico: eterno non è il fascismo ma il manicheismo, il vero, grande, nemico della civiltà liberale. Nelle scuole di una volta si insegnava che la validità di un’analisi storica, politica, sociologica si mostra in ciò che concede all’avversario: se a quest’ultimo non si riconosce nessun valore, nessuna istanza iscritta nell’umano, nessuna “ragione”, vuol dire che non abbiamo a che fare con la ricerca della verità ma con l’invettiva lanciata dal pulpito. Dal chierico traditore… anche lui “eterno”.

Pubblicato su Il Dubbio del 19 settembre 2020




Legge e ordine non è uno slogan trumpiano ma uno dei capisaldi di ogni democrazia

In un articolo impeccabile pubblicato sul Foglio del 1° settembre, Perché se dici che legge e ordine sono il presupposto della democrazia ti prendi del fascista, Paola Peduzzi cita Andrew Sullivan che su Weekly Dish mostra il pericolo rappresentato da Black Lives Matter per la democrazia in America.

Se parlo di «assolutismo nelle strade, delle macerie che vengono spazzate via ogni mattina in molte città americane dove ci sono proteste ininterrotte e violente, se segnalo i video in cui i negozianti raccolgono pezzi delle loro vetrine e implorano di smetterla perché l’assicurazione non paga più nulla, contribuisco anch’io a far vincere Trump?» si chiede Sullivan che, amaramente, richiama il principio (hobbesiano) che senza legge e ordine non può esserci libertà politica.

«Le sommosse e l’assenza della legge sono un male – scrive – Ogni autorità che permette, tollera o sminuisce la violenza, i saccheggi e i disordini nelle strade si spoglia di ogni legittimità. Senza ordine non c’è spazio per altre questioni. Il disordine sempre e ovunque richiama altro disordine; nel momento stesso in cui le autorità sembrano tollerare la violenza, questa violenza è destinata a crescere. E se i liberali non difendono l’ordine, lo faranno i fascisti». Come lo fecero in Italia, ce ne ricordiamo bene, quando la borghesia liberale volse le spalle a Giovanni Giolitti che aveva tollerato l’occupazione delle fabbriche.

Non mancano anche nel nostro paese analisti consapevoli della gravità della situazione americana e che – a differenza di Riccardo Barlaam (Il Sole- 24 Ore) o di Gianni Riotta (La Stampa) non attribuiscono le violenze nelle strade all’inquilino della Casa Bianca che getta benzina sul fuoco.

Penso, ad esempio, a Federico Rampini (La Repubblica) che ricorda come Portland sia «diventata il simbolo di una protesta anti-razzista di Black Lives Matter che è sfuggita di mano, ha creato delle zone proibite di fatto alle forze dell’ordine, dei ghetti dove si sono allargate le gang, moltiplicando i reati».

E tuttavia anche professionisti seri e realisti come Sullivan e Rampini, a mio avviso, non colgono fino in fondo il significato epocale delle sommosse statunitensi. Lo coglie, invece, il sociologo Antonio Bettanini – uno dei protagonisti intellettuali della stagione craxiana – in un articolo inviato all’Avanti. Vale la pena citarne un lungo brano. La diagnosi pessimistica di Bettanini è ineccepibile: «La mia ipotesi è che ci troviamo  di fronte ad una espressione di neo-totalitarismo ideologico – favorito dai meccanismi strutturali che presiedono al racconto dei media –  i cui tratti riconosciamo forse con difficoltà (e con prudenza) anche a giudicare dalla cautela con cui si sono poi  decisi a scendere in campo 150  rappresentanti autorevoli dell’universo intellettuale angloamericano in difesa della libertà di espressione e contro la “cancel culture” degli anti-razzisti. Un campanello d’allarme (su Harper’s Magazine) sulla deriva e sulla tirannia che un certo mondo delle minoranze sembra poter esercitare sull’opinione pubblica. La “novità” sta nel fatto che questa attività (di comunicazione) per quanto esercitata, in principio, in nome di un universalismo di valori (declinato però negativamente: la lotta al razzismo), sembrerebbe appoggiarsi sulla distruzione di tutto quanto, sotto forma di memoria collettiva, celebri il mondo colpevole della bianchitudine. Una leva di propaganda che ricorda il fondamento distintivo (l’arianesimo, l’appartenenza di classe) sul quale i due grandi totalitarismi del ‘900 formarono la loro identità ed il loro principio di esclusione. Qui la lotta al razzismo si accompagna sia ad una prepotente richiesta di risarcimento dei torti subiti (le forme ed i contenuti della disuguaglianza), sia ad un’opera di “igiene della memoria” indifferente alla complessità dei diversi contesti storici.  Si tratta di riscrivere la storia alla luce della sensibilità dell’oggi. Ecco che allora il sindaco democrat di Columbus decide per l’abbattimento della statua di Colombo così che: “Noi non vivremo più all’ombra del nostro brutto passato”».

Lo spettro del totalitarismo si aggira davvero nell’area euro-atlantica. E tuttavia, a mio parere non si può ridurre la partita che si sta giocando in questi ultimi tempi a quella tra minoranze, infettate dal virus totalitario, e maggioranze (ancora) legate alle vecchie istituzioni e ai vecchi valori. Per adoperare un termine impegnativo, non ci troviamo, temo, dinanzi a una crisi di modelli sociali economici e politici “che perdono colpi” ma a un’eclisse della civiltà occidentale che sembra realizzare davvero l’incubo di Oswald Spengler.

In parole povere, abbiamo creato società civili che traevano la loro legittimità dalle catastrofi soprattutto morali causate da “forme di governo” che contrapponendosi violentemente al binomio democrazia/mercato e azzerando l’uno o l’altro – o entrambi – avevano scatenato l’inferno sulla terra, in forma di Lager o di Gulag. Sennonché, ricacciati i demoni nell’Ade, non si è riusciti a radicare forme di convivenza civile soddisfacenti per tutti. È come se al collante sociale fornito dal terrorismo totalitario si fosse sostituito l’indebolimento, fino all’estinzione, di qualsiasi altro legame tra individui, gruppi, territori. Insomma, masse sempre più numerose di cittadini “non si trovano bene”, non si riconoscono nei valori del sistema, nei suoi simboli storici, nel suo “sacro”, per citare un filosofo dimenticato come il neo-hegeliano Eric Weil.

Questo sottoproletariato interno, straniero indipendentemente dall’appartenenza etnica, non rispetta nulla: né la proprietà, né le leggi, né i monumenti a Colombo o a Jefferson personaggi lontani anni luce dal loro vissuto quotidiano. Cosa vogliamo farne?

Reprimerlo brutalmente, come chiedono i conservatori trumpiani?

Assecondare la sua furia iconoclastica, in nome della “tolleranza” e della “comprensione” come vorrebbero i buonisti di tutto il mondo uniti?

Purtroppo non si intravedono vie di uscita.

Pubblicato su Il Dubbio del 5 settembre 2020