Il Ddl Zan e i nuovi predicatori

Innanzitutto un sentito «grazie» a Silvia Bonino per il bell’articolo sul Ddl Zan e per la chiarezza con la quale ha illustrato le possibili ricadute che sulla psiche di bambini e adolescenti può avere una pedagogia al contempo moraleggiante e (nel caso specifico dei trans) priva di qualsiasi fondamento scientifico (sarebbe fra l’altro interessante sapere se gli insegnanti di scienze verranno invitati a partecipare alle iniziative cosiddette di sensibilizzazione anti-transfobia nelle scuole, e in caso affermativo, quali opinioni sarà loro consentito esprimere…). Mi venga qui consentito di aggiungere alcune considerazioni su un aspetto a mio giudizio cruciale della mentalità giovanile, aspetto che potrebbe pesare piuttosto negativamente rispetto alle finalità perseguite dal decreto.

Come ha modo di constatare non solo ogni genitore, ma anche ogni insegnante non accecato dai bagliori della sua ideologia preferita (nonché, più in generale, chiunque si ricordi di essere stato giovane), il periodo dell’adolescenza è molto spesso segnato dall’essere bastian contrario, dal rifiuto di accettare senza discussione le idee già bell’e fatte imposte da scuola e ambiente familiare. Se è vero, infatti, che in questi anni è rara la vera indipendenza di spirito ed è anzi spiccata la tendenza al «groupthink», o effetto gregge, tale conformismo si esplica soprattutto nei rapporti con il gruppo di coetanei, mentre allo stesso tempo ci si ribella contro gli adulti che predicano come se fossero in possesso della verità assoluta, contro chi approfitta di lezioni e pasti in famiglia per salire sul pulpito e infliggerti la sua visione del mondo senza possibilità di repliche. Una fase in cui, spesso e volentieri, si è convinti di saperne più delle generazioni che precedono e si prova così fastidio verso qualsiasi tentativo di indottrinamento.

Chi di noi, del resto, non ha conosciuto coetanei diventati ferocemente atei e mangiapreti dopo aver frequentato un scuola cattolica, in reazione alle messe e preghiere quotidiane loro imposte dal corpo insegnante? Quanti figli o allievi di persone dalle convinzioni dogmatiche e irremovibili hanno finito per abbracciare comportamenti e visioni del mondo diametralmente opposti a quelli degli adulti ?

Una proposta pedagogica come quella contenuta nel decreto, se attuata, rischia dunque a mio avviso di produrre, in molti casi, effetti esattamente contrari a quelli voluti : rendere le varie «fobie» una specie di frutto proibito, una forma di trasgressione rispetto alla cultura ufficiale, al limite un modo di sentirsi «cool». Questo magari in forma discreta e sotterranea: quando il docente parla di questo argomento secondo i canoni prestabiliti, è possibile che certi allievi poco convinti o addirittura ostili tacciano e facciano finta di assentire, o per non cacciarsi nei guai o perché pensano: «E’ inutile cercare di discutere, tanto non ci ascolta, vuol sempre avere ragione lui». In altri casi il messaggio non verrebbe in sé respinto, ma semplicemente accolto con indifferenza e noia e di fatto ignorato. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe dunque ben lungi dall’ottenere l’agognata conversione di massa, e nella peggiore non è azzardato temere un’impennata delle aggressioni fisiche e verbali contro omosessuali e trans: tanto più che, come sottolinea giustamente Silvia Bonino, il bullismo è favorito proprio dal trattare gli esseri umani come appartenenti ad una categoria a parte anziché come persone simili a noi. Se poi alla categoria in questione viene attribuito lo status di vittima e ne viene così sottolineato il carattere sacro e intoccabile, i bulli non aspetteranno altro per cominciare a perseguitarla.

Già avversato da quanti lo ritengono contrario nella sua ispirazione ai principi di libertà di pensiero e di espressione, nonché di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sanciti dalla Costituzione, il Ddl Zan rischia dunque, in più, di rivelarsi controproducente nella misura in cui insisterà a propinare ai giovani una nuova versione dei catechismi e delle feste comandate. Agli autori e sostenitori varrebbe forse la pena di ricordare che, fin troppo spesso, la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni.




Diversamente di sinistra ?

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo interessante testo di Cristina Cona.

Leggendo l’articolo di Luca Ricolfi  “Bandiere ammainate” mi si sono riaffacciati alla mente certi interrogativi sul ruolo che le varie forze in campo (politiche, culturali ed economiche) hanno svolto e continuano a svolgere nel diffondersi del politicamente corretto, nonché sulla coerenza, o viceversa incongruità, di certe scelte ideologiche.

Prendiamo ad esempio il modo in cui, ormai da anni, la sinistra non solo si beve acriticamente ogni sorta di teorie “woke”, ma si sforza anche di dare a queste ultime realizzazione concreta sul piano didattico, giuridico, penale. Queste prese di posizione non possono non lasciare perplessi, e ciò per un certo numero di ragioni.

Innanzitutto si tratta di dottrine e pratiche che si sono per lo più irradiate dagli Stati Uniti d’America: sì, proprio da quel paese che da decenni la sinistra considera come l’impero del male e la cui egemonia politica, economica e militare non ha mai smesso di denunciare e combattere. Ma allora: non le è mai venuto in mente che difficilmente un’egemonia così pervasiva sul piano strutturale può risparmiare quello sovrastrutturale? Che quando si parla di imperialismo USA bisogna fare i conti anche sui suoi risvolti culturali? Che, in altri termini, lungi dal rappresentare un’autentica opposizione alla tanto disprezzata America neocapitalista, la cultura “woke” ne sia espressione tanto quanto il modello economico, le multinazionali e le basi NATO, e che la scelta di accodarsi ad ogni sua manifestazione sia di fatto uno dei tanti aspetti della nostra sudditanza?

Anche perché un’occhiata anche rapida ai fatti di cronaca internazionale ci mostra come questa cultura sia stata abbracciata con un entusiasmo decisamente sospetto proprio dal grande capitale e dagli organi di stampa che possono essere considerati suoi portavoce, come certi grandi quotidiani prediletti dalle fasce sociali garantite dei paesi avanzati e le pubblicazioni a carattere finanziario. Un pubblico non certo proletario, insomma. Di fronte allo zelo con il quale certe grandi imprese modificano il linguaggio, gli slogan e le immagini da utilizzare a fini pubblicitari in funzione dei (veri o presunti) desiderata di gruppi ritenuti oppressi e vulnerabili (si pensi alla frenesia con la quale l’establishment hollywoodiano si sforza ad ogni pie’ sospinto di “abbracciare la diversità”), è lecito chiedersi quali interessi vengano serviti da queste genuflessioni alla moda “progressista” del momento.

Mi sembra comunque un fatto che, al di là del desiderio di conquistarsi un sempre più vasto numero di clienti e non farsi nemici tra quelli già acquisiti (anche se, ripeto, sussiste il dubbio che questo timore sia spesso più immaginario che reale), queste strategie non siano soltanto, soggettivamente, a finalità commerciale, ma risultino, oggettivamente, del tutto funzionali agli interessi del neocapitalismo, di quella che definirei “l’economia di supermercato”: un mondo dominato dal consumismo ben al di là degli aspetti puramente economici, in cui la vita umana nel suo insieme è vista, per l’appunto, come un gigantesco supermercato in cui ciascuno può scegliere tutto e il contrario di tutto, seguire cioè ogni suo capriccio, usare i rapporti umani, le scelte affettive, come se fossero giocattoli da buttare via quando non interessano più; non solo, ma pretendere di mettere a tacere qualsiasi opinione con la quale non è d’accordo, “cancellare” tutto ciò che sul momento gli può causare il minimo disagio … E’ davvero questo supermercato planetario infantilizzato il mondo al quale la sinistra intende dare il suo contributo? Non ha mai pensato che sotto questo manto falsamente progressista si rivela tutta la sua nudità?

Senza contare, poi, che la cultura “woke” sta regalando ai padroni del vapore un metodo quanto mai efficace di dividere i loro soggetti, attizzando fra loro perenne inimicizia e diffidenza. Alla sinistra (o almeno a quella parte di essa che ancora presta attenzione alle diseguaglianze sociali e al mondo del lavoro) vorrei chiedere: come immaginate di potere, in futuro, organizzare una protesta, un corteo, un’azione a carattere sindacale quando i lavoratori saranno già da tempo autoconfinati in gruppi distinti, contrapposti, talvolta ostili o ad ogni modo restii a collaborare per il bene comune (se pure questo concetto esisterà ancora …) e il risentimento reciproco avrà sostituito la solidarietà? In cui ovunque, ma soprattutto sul luogo di lavoro, la gente avrà smesso di esprimersi e di comunicare perché timorosa di offendere una delle tante categorie oppresse? Non si tratta di un’esagerazione: nei paesi soprattutto del mondo anglofono si afferma sempre più la tendenza, particolarmente marcata nelle scuole e nelle università, a richiudersi nella propria conventicola etnica, di genere, di orientamento sessuale, e vigilare su tutto quanto di dice e si fa, onde evitare guai anche gravi. Di questo autoisolamento ci si potrà forse rammaricare, ma è in fondo una scelta logica: se un uomo, un bianco, un eterosessuale, un non-trans (o “cis”) azzarda un commento o un gesto fino a poco fa considerato del tutto innocente, ma che oggi la cultura PC giudica alla stregua di un peccato mortale, e viene accusato di comportamenti discriminatori (con conseguenti ripercussioni sul piano lavorativo e anche sociale), la conclusione che ne trarrà, e che ne trarranno anche molti suoi colleghi, sarà che è meglio non avere che contatti minimi con quell’altro gruppo o gruppi, stare zitti e badare agli affari propri. E se c’è da unirsi per uno sciopero o una protesta: “chi me lo fa fare?”: tanto ci è stato spiegato che fra “noi” e “loro” non vi è alcuna comunanza di interessi … “Divide et impera”, dunque.

Un altro aspetto da non sottovalutare: lungi dal combattere efficacemente il sessismo, l’omo(trans)fobia, il razzismo, la censura e la minaccia di sanzioni non fanno che incoraggiare questi fenomeni. Se un’opinione è ritenuta sbagliata, il peggio che si possa fare è metterla fuori legge e costringerla alla clandestinità, perché in tal modo non verrà mai contestata e spinta a giustificarsi. Se una persona esprime in mia presenza un parere a mio giudizio errato, per non dire offensivo, posso rispondere “No, guarda che sbagli, e ti spiego perché …”, e magari in tal modo potrei indurre un ripensamento, ma se quella persona non mi conosce, non si fida di me e teme di venire denunciata se dice quello che pensa, le sue opinioni se le terrà per se e per i pochi amici che le condividono. Viene così a crearsi uno spazio autoreferenziale in cui non entra mai aria fresca e i discorsi fatti sempre e soltanto all’interno della propria cerchia rischiano di sfociare in posizioni ancora più estreme, alimentate fra l’altro dal rancore verso quei gruppi visti come privilegiati e immuni da ogni critica.

Rinuncia ormai esplicita alla difesa della libertà d’espressione, subordinazione acritica ai diktat ideologici del neocapitalismo, pseudoegualitarismo astratto e autoritario cui viene accordata la precedenza rispetto alla lotta al disagio sociale ed economico di vaste fasce di popolazione: sì, parliamo pure di bandiere ammainate. O magari, prendendo a prestito una delle formule più diffuse del gergo politicamente corretto, potremmo dire: diversamente di sinistra.




Ringraziamo l’avversario intelligente

Un texano bianco di una grassezza oscena che ostenta una sgargiante t-shirt raffigurante il volto di Donald Trump e un berretto da baseball con i colori della bandiera americana e che attribuisce la vittoria di Biden ad una colossale manipolazione delle macchine per la registrazione dei voti ad opera di George Soros; un salviniano dall’accento greve che esprime con frasi truci e sgrammaticate il suo rifiuto ad accogliere nuovi migranti; una giovane donna proletaria del nord dell’Inghilterra, scollacciata e sbracciata a mostrare un panorama ininterrotto di tatuaggi, che, sigaretta in una mano e hamburger nell’altra, dichiara di aver votato per la Brexit perché stufa di sentir parlare polacco nelle strade del suo quartiere.

Queste sono fra le tante immagini caricaturali che numerosi articoli di stampa, programmi televisivi, siti web, nonché un numero consistente di politici, si ostina a proporre al pubblico, con il sottinteso messaggio “ecco, sono gli imbecilli come questi ad opporsi al radioso avvenire che noi, i buoni, gli istruiti, vi promettiamo”. Il personaggio ignorante e volgare che viene mostrato come tipico di una certa tendenza non rappresenta solo l’avversario politico da combattere sul piano delle idee: è il Nemico, l’incarnazione stessa del male, e come tale dev’essere esposto al pubblico ludibrio. Intervistare trumpiani vestiti sobriamente e in grado di giustificare razionalmente la propria scelta elettorale, salviniani dai toni sommessi e portatori di almeno alcune istanze convincenti, Brexiteers che presentano discorsi lucidi e ben formulati … tutto ciò significherebbe venir meno al proprio dovere di crociati ed insinuare nel lettore/spettatore il dubbio che tutto sommato queste persone abbiano qualcosa di non del tutto inaccettabile da dire.

Certo i canali di informazione di proprietà privata e pertanto non soggetti agli stessi obblighi di imparzialità imposti alle emittenti pubbliche (va detto comunque che tali obblighi vengono assai spesso aggirati con metodi più o meno sottili) sono liberissimi, se vogliono,  di presentare macchiette anziché esseri umani  – anche se, così facendo, non dimostrano certo né una grande professionalità né il rispetto dovuto al pubblico, che deve essere informato e non manipolato. E fa comunque sorridere che non di rado il ricorso alle macchiette sia opera proprio di quei politici e giornalisti che normalmente si sgolano a cantare le lodi della diversità e a condannare senza quartiere ogni forma di odio, pregiudizio, stereotipo, e chi più ne ha più ne metta.

I problemi però non finiscono qui. Presentando l’avversario politico in forma deformata e parziale, politici e giornalisti fanno torto non solo al pubblico, ma anche, alla lunga, a se stessi, mettendo a forte rischio la propria credibilità. La gente non è così stupida: alla maggior parte di coloro che vivono nel mondo reale capita prima o poi di incontrare persone che risultano non conformi al cliché presentato, e a forza di vederle, di parlare con loro, si comincia a mettere in dubbio la caricatura. Senza contare che i tempi cambiano: con l’emergere di nuove problematiche sociali e politiche l’eccentrico, l’estremista, il paria di ieri possono facilmente diventare i protagonisti accettati, e talvolta riveriti, del presente. Pensiamo per esempio agli anni Sessanta e a come l’immagine di certi gruppi è radicalmente cambiata nella sua rappresentazione pubblica. Le femministe erano bollate da gran parte della stampa borghese come lesbiche isteriche; oggi molti degli stessi giornali ospitano regolarmente rubriche di denuncia del sessismo in tutte le sue forme. Gli omosessuali erano dipinti come, al meglio, malati, e al peggio, pervertiti i cui ambienti venivano regolarmente qualificati di “squallidi”; oggi chi non approva il matrimonio gay è considerato un cavernicolo di estrema destra. I giovani, e in particolare gli studenti, erano capelloni scansafatiche che acchiappavano al volo ogni scusa per non studiare; oggi gli stessi organi si distinguono per un acritico, patetico giovanilismo mirato chiaramente a non perdere lettori tra le nuove generazioni. Gli ecologisti erano derisi per le loro rivendicazioni, per il loro stile di vita e financo per le loro usanze alimentari; oggi si parla in continuazione di lotta ai cambiamenti climatici, di buoni-bicicletta, di città verdi, e vengono portati alle stelle i locali che offrono cucina vegana.

Forse a molti responsabili dei media questa perdita di credibilità importa ben poco: quel che conta (molto più della coerenza) sono le tirature, sono gli indici d’ascolto attuali, e ciò che è stato detto in passato per superficialità, ignoranza, conformismo può essere comodamente ribaltato senza patemi d’animo. Diverso è però il discorso per i politici: ingannarsi sul merito di certe argomentazioni dell’avversario (anzi, come si è detto, del Nemico) può costare molto in termini di consensi e talvolta portare ad un declino difficilmente recuperabile. E’ insomma pericoloso credere alla propria propaganda: eppure è tangibile, un po’ ovunque nel mondo occidentale, questa ostinazione a sottovalutare le ragioni chi non la pensa come noi, a crederlo nulla più che un cretino o una canaglia e ad illudersi che basti martellare il proprio messaggio perché ad un certo punto esca dalla scena con la coda tra le gambe.

Non è tutto. Anche chi comprende che l’opposizione non è da sottovalutare si riterrebbe comunque fortunato se, al posto dell’avversario agguerrito e capace, a fronteggiarlo ci fosse sempre un imbecille incapace di argomentazioni serie. Errore! In un confronto politico democratico, l’ultima cosa da augurarsi sono proprio i rivali di questo genere. Certo, all’inizio questi ultimi verrebbero sbaragliati senza grossi sforzi, si canterebbe vittoria… ma poi? A poco a poco, a forza di ricevere consensi si finirebbe per adagiarsi sugli allori, si perderebbe la capacità di valutare seriamente e spassionatamente il proprio operato, si rinuncerebbe a prendere atto delle nuove realtà sociali. E a questo punto, prima o poi, si perderebbe e ci si vedrebbe costretti a ricominciare da capo, con in più lo svantaggio di essere ormai disabituati a fare autocritica.

Si diventerebbe cioè come gli scolari ai quali il maestro dà sempre dieci anche quando meritano l’insufficienza, che in tal modo non riusciranno mai ad imparare seriamente. In politica, come nella vita, come a scuola, occorre trovarsi di fronte a sfide abbastanza impegnative da costringere a fare uso della propria intelligenza, evitare di impigrirsi, attrezzarsi per il confronto. Qui è forse utile un paragone con gli sport di squadra. Capita ogni tanto che per vari e imprevisti motivi una formazione calcistica trovi il campo sgombro da ogni rivale minimamente credibile e che continui così a vincere una partita dopo l’altra, conquistare coppe e scudetti a ripetizione. Tifosi contenti, finanziatori pure … senonché ad un certo punto, a forza di vittorie facili, la motivazione si fa sempre più fiacca, la concentrazione pure, l’allenamento viene preso un po’ sottogamba, la grinta si attenua, e così fino a quando i rivali rientrano in scena abbastanza ringalluzziti da dover essere presi veramente sul serio. Da questo momento è facile che comincino le sconfitte, e la stagione d’oro sarà ormai soltanto un bel ricordo.

Conclusione: un’opposizione che dà filo da torcere, un campo seminato di ostacoli, una serie di sfide impegnative e vissute come tali, sono non una sfortuna, bensì una benedizione. Solo in situazioni che impediscono l’autocompiacimento e la pigrizia mentale è possibile realizzare i progetti che ci stanno a cuore. Ringraziamo l’avversario intelligente. Per favore.




La triste fine della Hume Tower. I nuovi bigotti

E’ di pochi giorni fa l’ennesima capitolazione, da parte di un’autorità (se così si può ancora definire) accademica britannica, di fronte alla tirannia del politicamente corretto. Si tratta stavolta delle pretese di diverse centinaia di persone (in prevalenza attivisti studenteschi) le quali, con una petizione online, hanno insistito affinché venisse cambiato il nome di un edificio appartenente all’università di Edimburgo, la David Hume Tower. Il filosofo scozzese, una delle figure di punta dell’illuminismo europeo, viene infatti accusato di avere professato opinioni razziste “che giustamente sono oggi causa di grave turbamento” e di non meritare perciò un edificio che porti il suo nome: ignorando bellamente il fatto che le opinioni contestate erano state espresse nel Settecento, cioè in un secolo in cui erano condivise praticamente da tutti, intellettuali compresi, e che è assurdo giudicare idee di tre secoli fa con il metro attuale.

Ormai però questo tipo di reazione del corpo accademico, il suo cedimento all’illogicità, all’incapacità di storicizzare personaggi e comportamenti, allo strisciante terrorismo intellettuale, sembra essere prassi consolidata e quasi obbligata nel mondo anglofono (e, vista l’attuale supremazia culturale di questo mondo, in altri paesi occidentali sono percepibili le prime avvisaglie di questa mentalità). Sempre più le università inviano segnali che vanno contro quella che dovrebbe essere la loro vocazione: trasmettere conoscenze, spirito critico, voglia di dibattere senza preconcetti e senza scomuniche. Sempre più, ad essere considerata prioritaria è l’esigenza di non turbare la cosiddetta sensibilità (per meglio dire: fragilità psicologica e intellettuale) degli studenti. Anziché aiutarli a maturare, l’università sembra fare di tutto per infantilizzarli. Anziché aiutarli ad apprendere, sembra fare di tutto per incoraggiare l’ignoranza e l’approccio isterico e irrazionale ai problemi.

Il fenomeno della cosiddetta “cancel culture” naturalmente non si limita all’ambito accademico, ma mette ormai a repentaglio la libertà di espressione nell’editoria (libri “politicamente scorretti” rifiutati dagli editori, opere del passato messe al bando da scuole e biblioteche perché considerate razziste: valga per tutti, negli Stati Uniti, il caso del capolavoro di Mark Twain, Huckleberry Finn), nei rapporti di lavoro (non si contano più i casi di licenziamenti minacciati o messi in atto perché il dipendente aveva usato un linguaggio o espresso opinioni bollate come disdicevoli, anche in ambito privato), e anche e soprattutto sui cosiddetti “social”, che sarebbe forse meglio definire “antisocial media”. Sconfortante in tale contesto è poi constatare come la resistenza si riduca a poca cosa e come i presunti colpevoli scelgano quasi sempre di umiliarsi pubblicamente con formule di scusa che ricordano le autocritiche dei “nemici del popolo” durante la rivoluzione culturale cinese; non solo, ma nel caso delle università è quasi scontato che il corpo accademico obbedisca senza fiatare ai diktat più assurdi: come nel caso, appunto, della David Hume Tower.

Un recente, e purtroppo raro, esempio di ribellione ai nuovi inquisitori si è visto nello scorso mese di luglio, quando sulla rivista americana Harper’s Magazine è stata pubblicata una lettera, firmata da 150 autori ed accademici di fama (come JK Rowling, Noam Chomsky, Margaret Atwood, Salman Rushdie, Gloria Steinem) in cui si deplorava la crescente intolleranza nei confronti delle opinioni considerate politicamente scorrette. L’appello però sembra avere raccolto successivamente ben poche nuove adesioni, anzi, a far parlare è stato soprattutto il successivo “backlash”, con critiche spesso feroci rivolte da più parti agli autori.

In tutti questi casi, a colpire sono, da un lato, la pusillanimità delle autorità accademiche, che sembrano disposte veramente a tutto pur di non venire turbate nelle loro importanti attività quotidiane (nonché nelle loro prospettive di carriera …), e dall’altro il comportamento, altrettanto vile ed opportunistico, di editori e altri soggetti economici che mostrano di temere come il fuoco il boicottaggio dei loro prodotti da parte degli attivisti digitali. Qui bisogna essere chiari: se le persone cui stanno a cuore il pluralismo di idee e la cultura non si mobilitano con la stessa energia e prontezza di cui si sono dimostrati capaci i loro nemici, finiremo per vivere in un deserto intellettuale in cui le opinioni (o anche soltanto le parole) non conformi potranno soltanto essere bisbigliate fra amici e ogni ambito del sapere dovrà fare i conti con la censura di libri, personaggi, interpretazioni. La vicenda della David Hume Tower ha ora indotto diversi esponenti del mondo accademico britannico ad esprimere in merito posizioni molto critiche; se questo tipo di reazione dovesse estendersi, se i responsabili delle università venissero sistematicamente messi di fronte alla stupidità delle loro azioni, forse comincerebbero a farsi qualche domanda e a chiedersi se vale la pena di perdere la propria credibilità per dare retta ad una manica di bambini viziati di cui tutto induce a pensare che rappresentino solo se stessi.

Stesso discorso per i prodotti editoriali e d’altro genere, di cui gli attivisti minacciano regolarmente il boicottaggio. Anche in questo caso sorge il sospetto che le imprese si lascino prendere dal panico e sopravvalutino di molto il rischio di una perdita economica: rispetto al grande pubblico, che di fronte a certe controversie non ha mai mostrato di voler rinunciare in massa all’acquisto di certi prodotti, gli attivisti digitali fanno la figura di tigri di carta, e sarebbe interessante mettere alla prova l’efficacia delle loro minacce. Per dirne una: il libro di Woody Allen A proposito di niente, che la casa editrice Hachette aveva rinunciato a pubblicare, non sembra aver sofferto oltre misura delle reazioni negative provenienti dall’establishment politicamente corretto (in Italia si è addirittura piazzato subito in cima alla classifica delle vendite online). Proviamo dunque a mostrare ai nuovi bigotti che la censura nelle varie sue forme può essere non solo inutile, ma spesso anche controproducente. Perfino la Chiesa cattolica l’aveva già capito quando, nel lontano 1966, abolì l’Indice dei libri proibiti …. dove dal 1761 figuravano tutti gli scritti di David Hume!