La macabra barbarie contro i morti sepolti

Trovo barbaro, macabro e raccapricciante quel che sta succedendo in Spagna col governo sinistro di Pedro Sanchez. Non mi va nemmeno di parlarne, lo faccio perché qualcuno deve pur dirlo. La chiamano Memoria Democratica e consiste nel prendersela con i morti e i caduti della parte sconfitta, disseppellendoli dalle loro tombe e traslocandoli altrove, in anonime e private tumulazioni, per cancel-lare ogni “infame” accostamento tra i loro resti e quelli dei combattenti anti-fascisti, comunisti e repubblicani. Con l’aggravante di farlo per lucrare misera-mente sul residuale antifascismo e tenere in vita la più tetra memoria del passato per rovesciarla alle elezioni sugli avversari, come il movimento Vox.

Il generalissimo Francisco Franco, il “becero dittatore”, alla fine della Guerra civile, li aveva sepolti insieme, rossi e neri, comunisti e falangisti, repubblicani e nazionalisti, nella Valle de Los Caidos. Lo ritenne un gesto di pietà e di ricon-ciliazione, dopo tanto odio e tanto sangue. Ma la Memoria Democratica non am-mette requiem né civile memoria, tantomeno condivisa; neanche dopo morti e dopo 84 anni dalla fine della Guerra Civile. Respinge ogni idea di pacificazione degli animi e di parificazione delle vittime, rifiuta il senso cristiano della pietas almeno post mortem e si accanisce con bestiale sciacalleria sui resti di poveri caduti degli anni trenta. Lo fa oggi perché ormai non c’è più nessuno a difendere la memoria del passato, nessun familiare diretto, nessun movimento che ne tuteli la memoria; solo sparuti, anacronistici militanti della testimonianza proibita, come le poche decine di persone che hanno tentato una flebile protesta.

Il governo rosso cancella la definizione stessa di Valle dei Caduti, e deporta le spoglie di coloro che sono seppelliti ma che appartennero alla parte avversa all’epoca vincente, rispetto a quella repubblicana e antifascista che i vincitori invece seppellirono accanto ai vinti, per lanciare un messaggio di pacificazione a un paese così sanguinosamente lacerato. Dopo la traslazione dei resti di Francisco Franco, di cui scrivemmo, il governo in carica formato dall’alleanza tra la sinistra del vecchio Psoe e la nuova sinistra radicale e grilleggiante di Podemos, ha esumato e cacciato dalla sua tomba i resti di José Antonio Primo de Rivera, fondatore del Movimento Falangista, ucciso, anzi fucilato, a 36 anni dai repub-blicani. Primo de Rivera era il Che Guevara della Rivoluzione nazionale e sociale spagnola, non fece in tempo a vivere il regime di Franco né la fase cruenta della guerra civile; Franco alla sua morte, congelò lo spirito nazional-rivoluzionario del movimento falangista e la sua carica ideale. José Antonio non amava il Fuhrer e scriveva: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio” e detestava il razzismo. “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”. José Antonio fu ucciso agli inizi della guerra civile, dunque non partecipò al cal-vario più terribile di quel paese, le atroci crudeltà compiute da ambo le parti, con lo speciale accanimento dei comunisti e stalinisti verso suore e preti, civili e minori, e perfino anarchici. Una pagina atroce che destò il disgusto di molti combattenti idealisti che erano accorsi in Spagna per difendere la Repubblica antifascista ma rimasero poi sconvolti e spiazzati dalle crudeltà, anche gratuite, commesse dai loro stessi compagni. Ne cito alcuni, tra i più famosi, oltre il celebre Ernst Hemingway: lo scrittore cattolico Georges Bernanos, lo scrittore liberal-so-cialista George Orwell, la giovane pensatrice Simone Weil, il combattente repub-blicano Randolfo Pacciardi. Erano andati tutti per combattere in difesa della Repubblica e della libertà, contro il franchismo e il falangismo. Ma dovettero presto fare i conti con le atrocità compiute dai loro stessi compagni.

José Antonio era un mito per la gioventù europea, non aveva fondato alcun regime sanguinario, alcuna dittatura, si era solo battuto lealmente in una guerra civile per i suoi ideali e per la difesa della Spagna eterna contro il pericolo comunista, ateo e stalinista. Fu un capo carismatico, un oratore coinvolgente, un combattente intrepido, un sognatore politico. Era avvocato, padre di quattro figli, a sua volta figlio di Miguel Primo de Rivera, generale e dittatore col consenso del Re negli anni venti. José Antonio sognava una Rivoluzione nazionale che coniugasse i valori tradizionali della Spagna cattolica, con i valori popolari di giustizia sociale e difesa dei lavoratori. Mi innamorai di lui da ragazzo, ricordo il suo discorso testamento: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poe-ticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. A lui dedicò una biografia elogiativa Giorgio Almirante.

Non si tratta di riaprire e tantomeno di riscrivere le pagine della storia, figuria-moci. E’ proibito farlo, ormai, in Europa: e dico non in chiave apologetica e nem-meno revisionistica ma semplicemente e rigorosamente storica. Ma si tratta di denunciare a che livello di inciviltà, di disumanità e di odio sia giunta la “memoria democratica” toccando il fondo peggiore della “cancel culture” applicata alle spoglie dei defunti, ai trapassati remoti, fino al macabro disseppellimento e cacciata post mortem con odio eterno. Anche le più fiere e cruente ideologie mili-tari e militanti del secolo scorso, si sono fermate davanti all’oltraggio ai cadaveri. I regimi totalitari del passato, comunisti o nazisti, hanno sterminato milioni di morti ma nessun regime è andato a disseppellire e processare i cadaveri del passato. E’ solo una bestiale pratica del nostro presente, pur così pacifista, così sensibile e così pronto a indignarsi se viene maltrattato un fiore o un vitello. Dio ci scampi dalla Memoria Democratica.

di Marcello Veneziani




Bonaccini e Schlein non rispondono al nostro Questionario, Calenda si

Mentre continuiamo ad attendere quelle dei quattro candidati alla Segreteria del PD, Carlo Calenda ci invia le sue di risposte.

Le trovare di seguito segnate in rosso.

 

MERCATO DEL LAVORO

1          Che cosa pensa dei voucher?

□ rischiano di far aumentare la precarietà

□ possono agevolare la emersione del lavoro nero

2          Che cosa pensa del salario minimo legale?

□ sono contrario, meglio affidarsi alla contrattazione sindacale

□ sono favorevole a un salario minimo legale nazionale di (almeno) 9 euro l’ora

□ sono favorevole a un salario minimo legale, ma differenziato per settore produttivo e

    costo della vita del territorio

IMMIGRAZIONE, CRIMINALITA’, ORDINE PUBBLICO

3          Secondo lei la concorrenza degli immigrati contribuisce a tenere bassi i salari degli italiani?

□ sì

□ no

4          Se dovesse scegliere il ministro dell’interno, quale fra questi ministri del passato  preferirebbe?

□ Minniti

□ Lamorgese

5          Come vede il rapporto fra criminalità e immigrazione?

□ non ci sono differenze apprezzabili fra italiani e stranieri

□ gli stranieri delinquono di più, ma le vittime sono soprattutto gli italiani benestanti

□ gli stranieri delinquono di più, ma le vittime sono soprattutto gli abitanti delle periferie

ECONOMIA E POLITICHE SOCIALI

6          Supponga di avere 10 miliardi a disposizione, e di dover scegliere una e una soltanto fra tre destinazioni. Quale sceglierebbe?

□  sgravi fiscali su tutte le famiglie

□  sgravi fiscali su tutte le imprese

□  sgravi fiscali solo sulle imprese che aumentano l’occupazione

7          Pensa che, in questa fase, sarebbe utile per l’Italia varare un’imposta patrimoniale una tantum sui ceti alti e medio-alti?

□ sì

□ no

SCUOLA

8          Si parla talora della possibilità di introdurre borse di studio per consentire agli studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi di raggiungere i gradi più alti degli studi. Lei come giudica questo tipo di misura?

□ positivamente, perché il merito va promosso e premiato

□ negativamente, perché escluderebbe gli studenti privi di mezzi ma in difficoltà con gli studi

9          Che cosa pensa dei telefonini in classe?

□ sono da vietare, salvo il caso in cui l’insegnante li ritenga indispensabili a fini didattici

□ sono utili, non andrebbero vietati

10        In via generale, lei pensa che sarebbe giusto o sbagliato legare una parte della retribuzione degli insegnanti a una valutazione del merito?

□ giusto

□ sbagliato

11        Talora si parla della possibilità di dare ai presidi il potere di confermare i supplenti che hanno ben operato, indipendentemente dalle graduatorie.

Lei come giudica questa possibilità:

□ positivamente

□ negativamente

DIRITTI CIVILI

12        In materia di lotta alle discriminazioni lei riproporrebbe il ddl Zan?

□ sì, lo riproporrei tale e quale

□ preferirei una versione meno radicale

13        Lei è favorevole o contrario a legalizzare la gestazione per altri?

□ favorevole

□ favorevole, ma solo nei casi in cui la gestazione è gratuita

□ contrario in ogni caso

14        E’ favorevole o contrario al cosiddetto self-id (completa libertà di cambiare genere, sulla base di una auto-dichiarazione)?

□ favorevole

□ contrario

15        E’ favorevole o contrario alla liberalizzazione delle droghe leggere?

□ favorevole

□ contrario

ECOLOGIA E AMBIENTE

16        Se lei fosse attualmente al governo, appoggerebbe la direttiva europea che impone l’adeguamento entro il 1° gennaio 2030 delle case con classi energetiche F e G?

□ la appoggerei

□ cercherei di rimodularla, dando molto più tempo per l’adeguamento

17        Lei è favorevole o contrario alle trivellazioni in Adriatico per ridurre la nostra dipendenza energetica dall’estero?

□ favorevole

□ contrario

18        Quale è il suo giudizio sugli episodi di imbrattamento dei muri e delle opere d’arte nei musei in nome dell’ambiente?

□ prevalentemente positivo

□ prevalentemente negativo




A Bonaccini-Schlein-Cuperlo-De Micheli “Perchè non volete dire quel che pensate?”

Cinque giorni fa, in vista delle primarie del 26 febbraio, la Fondazione David Hume e l’Istituto Bruno Leoni hanno lanciato un appello ai candidati alla segreteria del Pd (appello di cui gli entourage dei candidati hanno confermato la ricezione).

Nell’appello (lo trovate qua sotto) si chiedeva loro di usare dieci minuti del loro tempo per rispondere a 18 quesiti politici fondamentali. Se lo avessero fatto, oggi avremmo le idee molto più chiare su che cosa ciascuno di essi pensa, e che cosa lo differenzia dagli altri tre.

Ed ecco le risposte:

Elly Schlein: nessuna risposta

Stefano Bonaccini: nessuna risposta

Gianni Cuperlo: preferisco non rispondere

Paola De Micheli: appena ho tempo vi rispondo (ma finora non ha trovato il tempo)

Che dire? Giudicate voi. Certo, è interessante che, finché possono restare nel vago, i candidati alla segreteria del Pd siano ben felici di parlare, ma appena li si interroga su questioni precise e politicamente sensibili, se ne guardino bene. Sembra quasi preferiscano non scoprire le carte.

E allora, visto che non possiamo sapere che Pd vogliono coloro che si candidano a guidarlo, perché non provate a compilarlo voi il questionario?

Per farlo basta cliccare qua sotto:

https://forms.gle/NWnyp78KwKHUgNmbA

Compilandolo, le vostre risposte (rigorosamente anonime) saranno registrate in un dataset che le raccoglie tutte, come in un sondaggio di opinione.

Dopo le primarie, Fondazione David Hume e Istituto Bruno Leoni renderanno pubblici i risultati del sondaggio.




Federalismo fiscale addio – Intervista a Luca Ricolfi

  1. Il Sacco del Nord, Federalismo addio. Cosa è cambiato in Italia da quando ha scritto quel testo?

Impossibile dare una riposta rigorosa. Il sacco del Nord, che è una radiografia degli squilibri territoriali, è stato scritto nel 2009, e ha richiesto un anno di lavoro a tempo pieno a me a alle mie collaboratrici. Per aggiornare la radiografia, ci vorrebbe un altro anno di lavoro, che peraltro fotograferebbe la situazione del 2020, stante la lentezza con cui escono i dati necessari. Quindi le rispondo lo stesso, ma avverto che nessuno ha i dati e gli strumenti per dare una risposta circostanziata.

Bene, data la lentezza con cui si modificano gli squilibri territoriali, la cosa più probabile è che poco sia cambiato. Probabilmente, se potessimo aggiornare Il sacco del Nord, ritroveremmo squilibri simili.

1bis. E cioè?

Che il Nord stacca ogni anno un assegno di 50 miliardi (che nel frattempo saranno alquanto lievitati, causa inflazione) a favore delle regioni del Sud, ma anche di alcune regioni inefficienti del Centro e del Nord. E che quell’assegno, oltre a coprire l’eccesso di spesa pubblica corrente del Sud (che è “solo” di 12 miliardi), copre le inefficienze nella erogazione dei servizi (20 miliardi) e il mancato gettito fiscale (18 miliardi), dovuto all’abnorme tasso di evasione della maggior parte delle regioni meridionali.

La vera differenza rispetto al 2010, quando uscì il mio libro, è che mentre allora si poteva temere che la Lega avrebbe tradito il progetto federalista (un dubbio che espressi allora, perché gli indizi c’erano tutti), ora è evidente che alla Lega quel progetto non interessa più. Molti l’hanno dimenticato, ma secondo le promesse di allora, oggettivate nella legge 42 del 2009, il federalismo avrebbe dovuto decollare entro 5, massimo 10 anni. Qualcuno lo ha visto?

Del resto è stato il Parlamento stesso, nel 2019, a certificare che quella legge è rimasta largamente inattuata, nonostante i partiti che l’avevano proposta siano stati quasi sempre al governo.

  1. Ha sempre la stessa idea sull’Autonomia?

Sì e no. Penso, come pensavo allora, che – in teoria – il federalismo fiscale sarebbe un’ottima via per far ripartire la crescita, che in Italia è ferma da quasi 30 anni. Ma, a differenza di allora, penso che ormai sia troppo tardi e che i politici non abbiano la minima intenzione di attuare quel progetto. Il che si vede anche dalla domanda che lei mi ha posto: come mai mi parla di autonomia, dopo trent’anni di discorsi sul federalismo fiscale?

La ragione è semplice: il ceto politico attuale del federalismo fiscale se ne infischia, perché comporterebbe un costoso (elettoralmente) richiamo alla responsabilità dei territori, e preferisce assecondare la spinta del ceto politico locale ad espandere la propria sfera di intervento. E, di conseguenza, le proprie possibilità di acquistare consenso con la spesa pubblica e l’aumento dei propri poteri regolativi e autorizzativi. Un progetto politico che, giustamente, viene portato avanti in nome dell’autonomia, senza alcun riferimento al federalismo fiscale.

  1. La riforma proposta dal ministro Calderoli può funzionare?

Certo. Dal momento che non stabilisce nulla, nessuno può affermare che non funzionerà.

  1. Condivide le proteste dei governatori del Sud?

Le capisco, più che condividerle. È possibile che, nell’attuazione dell’Autonomia, i territori che più dissipano risorse e meno contribuiscano al gettito fiscale, possano essere costretti a subire qualche ridimensionamento. Ma secondo me lo scenario più verosimile è quello di un ulteriore aumento della spesa pubblica in tutti i territori, compresi quelli che dovrebbero ridurla.

  1. Sono legate probabilmente al fatto che ci sono Regioni che in questo particolare momento hanno maggiori difficoltà economiche rispetto ad altre?

No, sono legate alla consapevolezza che – con l’Autonomia – il paradigma vittimario con cui il Mezzogiorno ha finora negoziato il proprio rapporto con lo Stato centrale potrebbe subire un’incrinatura, perché la gestione della riscossione e dei servizi pubblici del Sud è indifendibile. E, prima o poi, quel paradigma potrebbe dover competere con il paradigma responsabilista di Dambisa Moyo, la coraggiosa scrittrice zambiana che – giusto nel 2009, anno in cui in Italia veniva approvata la legge 42 sul federalismo fiscale – pubblicava Dead Aid, il suo libro più famoso (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo).

Una delle lezioni di quel libro è che gli aiuti ai territori sotto-sviluppati, se prolungati, privi di controllo e meccanismi di mercato, possono favorire la nascita di una classe politica inefficiente e priva di senso di responsabilità, con il risultato di bloccare lo sviluppo anziché promuoverlo.

  1. Si è parlato anche di macroregioni. Potrebbe essere la strada da seguire?

E’ la vecchia e saggia idea della Fondazione Agnelli, ma il ceto politico locale si opporrà con tutte le sue forze: macroregioni significa anche riduzione dei poteri dell’immensa rete di vassalli, valvassori e valvassini che si spartiscono il potere locale. Contrariamente a quanto sembra credere Bonaccini (e con lui tanti altri governatori e sindaci) gli amministratori locali – anche quando governano bene – sono una delle forze più ostili alla razionalizzazione e semplificazione della Pubblica Amministrazione.

  1. Altro tema il presidenzialismo. L’Italia è matura?

La maturità degli italiani è fuori discussione. E’ il ceto politico che non è maturo per varare una riforma delle regole del gioco senza mettere in primo piano gli interessi egoistici delle forze politiche coinvolte.

  1. Cambiando argomento, oggi tornano gli anarchici. Cosa sta succedendo nel Paese?

Sta succedendo che, come sempre, un piccolo problema gestibile (un terrorista che fa lo sciopero della fame) è stato trasformato in un grande problema ingestibile per la miopia delle forze politiche. E qui mi riferisco sia al duo Delmastro-Donzelli, sia al quartetto Orlando-Serracchiani-Verini-Lai.

  1. Considerando la crisi attuale, possiamo e dobbiamo temere qualcosa, considerando che più di qualcuno non condivide la linea troppo atlantista del governo, secondo i più assoggettata agli Stati Uniti?

Certo che dobbiamo temere qualcosa! Dobbiamo temere la terza guerra mondiale, che la classe politica occidentale sta rendendo ogni giorno più probabile. E questo non perché mandiamo armi all’Ucraina, ma perché – come ha spiegato nei giorni scorsi il generale Fabio Mini – non abbiamo alcuna ipotesi seria su come far terminare questa guerra. Non esiste un end state, un obiettivo finale che si cerca di raggiungere. Dire che l’unica soluzione è la resa della Russia, con il ritiro integrale dall’Ucraina, significa preferire il rischio di una guerra nucleare piuttosto che accettare un compromesso sui territori occupati. E il fatto che l’opinione pubblica sia poco preoccupata per la guerra è pericolosissimo, perché favorisce e alimenta l’irresponsabilità dei governanti. Zelensky a Sanremo è il simbolo perfetto di tutto ciò: l’orchestra europea continua a suonare mentre il Titanic affonda.

 

[intervista al quotidiano L’identità, 7 febbraio 2023]




Follemente corretto (14) – Guai ai normali

C’è stato un tempo in cui la gente non era malata di suscettibilità. In quel tempo le parole non erano radioattive. Dicevi invalido, magari per cedergli il posto sul tram, e nessuno aveva niente da ridire. Dicevi infermo, menomato, storpio, e nessuno pensava che tu volessi offendere. Ora non più. Oggi innumerevoli legislatori del linguaggio, spesso in disaccordo fra loro, ci spiegano quali termini usare per parlare con rispetto di chi ha qualche inconveniente fisico o mentale più o meno grave e più o meno permanente. La lista delle parole proibite si allunga ogni giorno, rendendo via via obsoleti gli eufemismi che in un tempo precedente erano apparsi accettabili. Sotto la tagliola cadono parole come handicappato, portatore di handicap, disabile, affetto da disabilità, diversamente abile. Per alcuni, persino invalido non va bene, e l’unico termine accettabile è “persona con disabilità”.

Fin qui tutto chiaro. Lo sappiamo, o meglio lo sanno quelli che lavorano con le parole, o hanno tempo per queste cose. Meno nota è l’altra faccia della medaglia: anche la parola ‘normale’ è fuori legge. Non puoi dire che una persona è normale, perché – così facendo – sottintendi che esistano delle persone anormali, che potrebbero offendersi. E l’interdetto si estende alle cose: anche “shampoo per capelli normali” sarebbe potenzialmente offensivo (per chi compra uno shampoo speciale), quindi da evitare.

Il discredito per chi è normale, in realtà, viene da lontano. Risale agli anni ’60 e ’70, quando fra i contestatori e fra gli intellettuali più impegnati si diffuse l’idea, alquanto romantica, che la devianza – dai matti agli hippy, dai detenuti ai capelloni – altro non fosse che ribellione alle regole del sistema, ben rappresentato dalle istituzioni totali e dalle persone “normali”, pronte a stigmatizzare come devianza ogni allontanamento dalle regole imposte dalla classe dominante.

Oggi lo stigma funziona a rovescio. A essere stigmatizzato è l’uso della parola normale e dei suoi sinonimi per significare che qualcuno è privo di disabilità.

  • normali non si può usare “perché implica che gli altri sono anormali”
  • normodotati non si può usare “perché implica che gli altri sono ipodotati” (chissà mai perché ipodotati, e non iperdotati)
  • abili non si può usare “perché implica che gli altri sono inabili”.

E allora, che facciamo?

Un consiglio è di scrivere la parola normodotati fra virgolette, o palare di cosiddetti “normodotati”, allo scopo di “evidenziare che la parola è semanticamente scorretta”.

Ma questa soluzione non è completamente soddisfacente. Meglio usare l’espressione temporaneamente “normodotati”, “per ricordare che una disabilità non è mai congenita ma è conseguente a una malformazione, una malattia o un infortunio”.

Abbiamo capito bene?

Se sei normale, nel senso che sei privo di disabilità, devi definirti temporaneamente“normodotato” perché una disgrazia potrebbe capitare anche a te?

Pare di sì. Ma niente paura, se siete superstiziosi potete fare gli scongiuri, se invece siete solo istruiti potete dire “sono normale” in  inglese: I am TAB (Temporarily Able-Bodied), sono temporaneamente equipaggiato con un corpo abile.

Che fa fine e non offende nessuno.