I partiti e l’Unione Europea, il difficile impatto con le cifre

Al governo si fanno i conti con i numeri, con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti: è avvenuto negli anni scorsi in Portogallo, dove ha avuto un ruolo decisivo il presidente della Repubblica.

Il Portogallo è uno splendido Paese. Vi risiedono migliaia di pensionati italiani ai quali della flat tax non importa un fico secco avendo l’esenzione fiscale per dieci anni. Nel 2011 era sull’orlo del crollo, un po’ come l’Italia del governo Berlusconi. Invocò l’aiuto dell’Europa che concesse un credito di 78 miliardi. Lisbona accettò tutte le condizioni dei creditori e, dopo tre anni, uscì dal programma di assistenza finanziaria. Alle elezioni del 2015, la coalizione di governo (centrodestra) arrivò prima ma senza ottenere la maggioranza. Poco davanti all’alleanza di centrosinistra, che aveva fatto dell’opposizione al rigore la propria bandiera elettorale. Ma erano stati i socialisti, con il premier Socrates, a chiedere nel 2011 l’intervento europeo. E ne pagarono subito un prezzo politico: dovettero cedere la guida del governo ai liberali e moderati di Passos Coehlo. Cambiarono poi posizione, dissero no all’austerità ma persero voti. Comunisti e verdi, da sempre contrari all’euro e persino alla Nato, ricevettero invece numerosi consensi. E divennero decisivi per la formazione del nuovo governo. Andato a vuoto il tentativo di una grande coalizione, l’allora presidente della Repubblica Cavaco Silva (si trovava in quello che noi chiameremmo il semestre bianco) diede l’incarico al socialista Costa di formare l’esecutivo con l’appoggio esterno delle due formazioni di estrema sinistra. Ma solo dopo essersi sincerato che venissero accettate alcune condizioni. La principale: non disperdere i sacrifici delle riforme e i vantaggi del consolidamento fiscale. Quindi, approvare la legge di bilancio con gli obiettivi già fissati in precedenza; rispettare i vincoli dell’eurozona, inclusa la rinuncia alla ristrutturazione del debito, sventolata in campagna elettorale come inevitabile dal Blocco di Sinistra; permanenza del Portogallo nella Nato.

Il governo Costa non ha però rinunciato, in questi anni, a rimodulare la spesa pubblica, ad aumentare le pensioni più basse e a elevare il salario minimo, un seppur pallido reddito di cittadinanza. La ripresa dell’economia del Portogallo è stata semplicemente spettacolare. Il deficit si è ridotto, la disoccupazione è scesa. Il turismo esploso, le esportazioni a gonfie vele. Dopo Irlanda e Spagna, quella del Portogallo è stata la ricetta di ristrutturazione economica europea di maggior successo. Il ministro delle Finanze, il tecnico indipendente Centeno, è ora il presidente dell’Eurogruppo. Il suo collega tedesco, il falco per antonomasia Schäuble, disse di lui che era come Cristiano Ronaldo. Per la straordinaria rovesciata (ci perdonino i tifosi juventini) impressa all’economia portoghese. La buona austerità fa bene. Si tagliano le spese improduttive e si promuovono gli investimenti nel quadro delle compatibilità di bilancio e dei vincoli europei senza i quali il Portogallo sarebbe stato abbandonato, anche dai mercati, al suo destino. Si pensava poi che il nuovo capo dello Stato portoghese, il conservatore Rebelo de Sousa, sostenuto pubblicamente anche dall’ex allenatore dell’Inter Mourinho, potesse sciogliere il Parlamento e mandare a casa gli estremisti. Si è ben guardato dal farlo.

Come si può constatare, le analogie con la situazione italiana non mancano. Certo a Lisbona non ci sono partiti formalmente populisti, ma certamente in origine euroscettici. C’è una dinamica ancora sostanzialmente bipolare fra conservatori e socialisti. Il capo dello Stato viene eletto direttamente. Il successo lusitano è stato reso possibile anche grazie al pragmatismo di alcune forze politiche radicali che hanno cambiato le loro idee. In campagna elettorale non è proibito sognare. Al governo si fanno i conti con i numeri. Con la dura realtà. E chi poi ottiene buoni risultati non perde voti. Anzi, li guadagna come dimostra l’esperienza del socialista Costa. Questa presa d’atto, nel dibattito politico italiano, non è ancora avvenuta. Si continua a discutere in assenza di gravità, sospesi nella rappresentazione fiabesca delle promesse. Nel primo giro di consultazioni il presidente Mattarella ha esercitato una preziosa funzione maieutica. E, come ha scritto sul Corriere Marzio Breda, non ha mancato di ricordare ai suoi interlocutori i vincoli europei e gli impegni internazionali dell’Italia. Immaginiamo che nel secondo, da giovedì prossimo, possa continuare nella sua opera di educazione politica, nel suo esercizio di sano realismo. L’esperienza positiva del suo omologo portoghese è certamente utile. E persino incoraggiante. Essendo il massimo garante della Costituzione, pensiamo che Mattarella non trascurerà di parlare con i propri ospiti del dettato dell’articolo 81, modificato nel 2012 per introdurre il pareggio di bilancio strutturale (cioè al netto del ciclo e delle misure una tantum). Votarono a favore quasi tutti — salvo poi in parte pentirsi — dal Pd all’allora Pdl, meno Lega e Italia dei Valori. La Lega in prima lettura si dichiarò favorevole. «L’approvazione, all’unanimità — disse il leghista Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione Bilancio della Camera — della proposta di legge volta a dare attuazione al principio del pareggio di bilancio, rappresenta un punto di equilibrio che testimonia, in un momento particolarmente delicato… il senso di responsabilità di tutte le forze politiche». Il senso di responsabilità, appunto. Coraggio, l’impatto con la nuda e dura terra dei numeri si avvicina.

Articolo pubblicato da Il Corriere della Sera il 9 aprile 2018



Vademecum elettorale

In allegato il Vedemecum elettorale con l’analisi delle promesse dei partiti in vista delle prossime elezioni. L’allegato contiene anche i sei articoli pubblicati da Luca Ricolfi su “Il Messaggero” nelle ultime settimane.

Vademecum Elettorale per il 4 marzo

 




Reddito di cittadinanza? Il grande inganno

Tasse, sicurezza e occupazione sono gli unici temi che sono stati centrali in tutte le campagne elettorali della seconda Repubblica, compresa questa. Oggi però si è aggiunto un quarto tema, assolutamente centrale e senza precedenti: il reddito minimo.

Con nomi e forme diverse lo hanno proposto un po’ tutti. Il Pd parla di reddito di inclusione, il Centro-destra di reddito di dignità, i Cinque stelle di reddito di cittadinanza (una sorta di fake word, o parola usata a sproposito, visto che il reddito di cittadinanza è tutt’altra cosa). I costi sono ragionevoli (pochi miliardi) nel caso della proposta del Pd, alti ma indeterminati (per mancanza di dettagli) nel caso del Centro-destra, certamente molto elevati (fra i 15 e i 30 miliardi) nel caso dei Cinque Stelle.

Fra tutte le forze politiche, quella che più risolutamente e da più tempo punta sul reddito minimo, e da ben cinque anni ha depositato un disegno di legge, è il Movimento Cinque Stelle. L’idea è di garantire a chiunque, indipendentemente dal fatto di lavorare o meno, il raggiungimento di un reddito familiare pari alla soglia di povertà relativa, che attualmente in Italia è di oltre 1000 euro per una famiglia di 2 persone e di 1500 euro per una di 3 persone. La misura, fondamentalmente, riguarda tre categorie di soggetti; chi lavora e guadagna meno della soglia di povertà; chi è disoccupato e cerca un lavoro; chi si trova nella condizione di pensionato, di casalinga o di inoccupato con un reddito familiare inferiore alla soglia. In sostanza ne sono esclusi soltanto i minorenni, e chi ha un reddito dichiarato superiore alla soglia di povertà.

Detta così, l’idea è affascinante. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli (e nelle conseguenze).

Vediamo. Primo dettaglio, il costo: comunque lo si computi (le stime oscillano fra 15 e 30 miliardi, ma se si sta alla lettera del disegno di legge la seconda cifra è la più verosimile), un costo annuo di una ventina di miliardi corrisponde a una manovra finanziaria permanente. E’ come dire che, una volta impegnati questi soldi, null’altro si potrà fare: né abbassare le tasse, né incentivare l’occupazione e gli investimenti, per non parlare delle altre innumerevoli promesse dei Cinque Stelle stessi.

Secondo dettaglio: il disincentivo a lavorare. Il disegno di legge sul reddito di cittadinanza ignora il fatto che, così configurato, il reddito minimo renderebbe non conveniente lavorare per ben 9 milioni di italiani. Perché mai un occupato a tempo parziale a 500 euro al mese dovrebbe continuare a lavorare se può guadagnarne quasi 700 non facendo nulla?

Certo, si può obiettare che, in realtà, il diritto al reddito di cittadinanza si perde se non si rispettano determinati obblighi (come la ricerca di un lavoro, la formazione, la disponibilità a lavori socialmente utili) e, soprattutto, se si rifiutano le offerte di lavoro. C’è un piccolo dettaglio, però: il percettore di un reddito di cittadinanza può rifiutare ben 3 offerte di lavoro, e arrivato alla quarta può eccepire che l’offerta non è “congrua”, o che una delle precedenti offerte non lo era, e quindi non va inclusa nel conteggio. Ma che significa congrua?

Lo specifica nei minimi dettagli il comma 2 dell’articolo 12 del Disegno di legge dei Cinque Stelle. Un’offerta di lavoro è considerata congrua se (cito solo alcune delle condizioni); “è attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario”; “la retribuzione oraria è maggiore o eguale all’80% di quella riferita alle mansioni di provenienza”; il posto di lavoro è raggiungibile in meno di un’ora e 20 minuti con i mezzi pubblici. Tutte condizioni che devono essere soddisfatte congiuntamente, altrimenti l’offerta non è congrua.

Non ci vuole moltissima fantasia ad immaginare le conseguenze. L’enorme burocrazia di funzionari pubblici pagati per gestire questi 9 milioni di beneficiari non riuscirà ad “accompagnare” al lavoro, al servizio civile, o nei corsi di formazione che una minima parte di essi. A chiunque non voglia accettare un’offerta di lavoro perché preferisce percepire il sussidio senza lavorare (o lavorando in nero) basterà rifiutarla (ha diritto a rifiutarne ben tre senza alcuna giustificazione). Se poi fosse così sfortunato da riceverne ben quattro, e anche la quarta non gli andasse bene, gli basterà considerarla “non attinente alle sue propensioni ed interessi”, che evidentemente nessuno, tantomeno un giudice del Tar, potrà pretendere di conoscere meglio del diretto interessato (l’unico freno all’abuso di questa possibilità di rifiuto è posto dal comma 2, che comunque scatta solo dopo un anno e nel caso di rifiuto di tutte le offerte precedentemente ricevute). In breve: l’effetto economico più macroscopico del reddito minimo in formato Cinque Stelle sarebbe di ridurre ulteriormente l’offerta di lavoro, che in Italia è già patologicamente bassa rispetto a quella delle altre economie avanzate.

Ma il dettaglio più inquietante del reddito minimo sta nella sua iniquità. Essendo basato sul reddito nominale, anziché sul potere di acquisto, esso non potrà che creare nuove diseguaglianze, come se non ne avessimo già abbastanza. Una misura equa, come il “minimo vitale” proposto dall’Istituto Bruno Leoni, dovrebbe basarsi sul reddito in termini reali e non sul reddito monetario. Stanti le enormi differenze nel livello dei prezzi, analiticamente documentate dall’Istat, mille euro di un operaio che vive a Milano valgono poco più della metà di quel che valgono per un manovale che vive in un piccolo comune del Mezzogiorno. Ecco perché tutte le misure basate sul reddito nominale (anche quelle del Pd e del Centro-destra) sono intrinsecamente inique: rischiano di escludere dal beneficio molti veri poveri nelle regioni del centro-nord, e di sussidiare molti finti poveri in quelle del Mezzogiorno. Per non parlare di altri squilibri: l’iniezione nell’economia di 20 miliardi di sussidi all’anno sulla base del reddito nominale dichiarato è strutturalmente una misura pro-evasori, perché beneficerebbe chi guadagna abbastanza ma dichiara poco o nulla, e taglierebbe fuori chi guadagna poco ma dichiara tutto.

Si potrebbe obiettare, naturalmente, che il fascino del reddito minimo deriva anche dal fatto che la formazione di posti di lavoro è molto lenta, molti mestieri e molte occupazioni stanno sparendo, i robot e l’intelligenza artificiale stanno sostituendo gli uomini. In un mondo in cui, come aveva previsto Keynes fin dagli anni ’20 del Novecento, il monte ore totale di una società tende a contrarsi, è logico che la maggioranza non lavori, e che sia la mamma-Stato a provvedere agli sfortunati (o ai fortunati?) che dal lavoro saranno esentati, che lo vogliano o non lo vogliano. Dopotutto, almeno in Italia, in parte è già così: la patologia di uno Stato che da sociale si fa assistenziale risale a circa mezzo secolo fa, quando per la prima volta venne denunciata vigorosamente da un manipolo di studiosi e di politici coraggiosi: Franco Reviglio, Giorgio Galli, Alessandra Nannei, Ugo La Malfa, autori di libri e analisi tanto memorabili quanto inascoltate.

A questa obiezione si possono, a mio parere, fornire due sole risposte. La prima è una domanda: è questo il tipo di mondo in cui vorremmo vivere? Davvero ci piacerebbe che il lavoro fosse il destino di una minoranza di super-efficienti, competitivi, stakanovisti cui spetta, attraverso la mano pubblica, mantenere tutti gli altri?

La seconda risposta, invece, è una constatazione, che emerge dal confronto con gli altri paesi. Se guardiamo all’evoluzione del numero di posti di lavoro nelle società avanzate, scopriamo una cosa molto interessante, anche se leggermente frustrante per noi: dopo la crisi, e a dispetto della crisi, sono molti i paesi che hanno oggi un tasso di occupazione più alto di quello di dieci anni fa. Questo basta a mostrare che automazione, intelligenza artificiale, globalizzazione, delocalizzazioni non bastano a spegnere le energie di un paese vitale, che vuole continuare a crescere e prosperare.

Certo, è possibile che fra dieci o venti anni l’Italia si ritrovi irrimediabilmente al di fuori dei sentieri della crescita e della modernizzazione, e che a un manipolo di produttori sia affidato il compito di mantenere una maggioranza di cittadini impoveriti e impotenti, in un paese che decresce e diventa sempre più marginale. Ma non raccontiamoci che è colpa del progresso, o che era destino, o che la responsabilità è dell’Europa, della signora Merkel o dell’austerità. Perché se a noi andrà così, e altri invece ne verranno fuori come già stanno facendo, è solo a noi stessi che dovremo chiedere: come mai, anziché reagire alla crisi, creando posti di lavoro veri, abbiamo preferito continuare, come facciamo da mezzo secolo, a puntare tutte le nostre carte sullo Stato assistenziale?

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 24 febbraio 2018




Abbattere il debito pubblico?

All’inizio della campagna elettorale, di debito pubblico si parlava poco.  I partiti, piuttosto che spiegare se e come si sarebbero occupati del debito, preferivano snocciolare il rosario delle promesse: molto sbilanciato verso le maggiori spese nel caso del Movimento Cinque Stelle e del Pd, più sbilanciato verso le minori tasse nel caso del Centro-destra. Poi, lentamente, le cose sono cambiate.  I leader dei tre maggiori partiti devono aver capito che, anche di fronte agli investitori internazionali e alle autorità europee, non potevano esimersi dal mettere le carte in tavola. E così hanno fatto.

I tre maggiori partiti un programma di riduzione del debito ce l’hanno. Il più radicale (o irrealistico, se preferite) è quello di Forza Italia: portare il rapporto debito/Pil dal 132% attuale al 100% in 5 anni, il che significa ridurlo al ritmo medio di 6.4 punti di Pil all’anno (ai prezzi attuali 6.4 punti di Pil corrispondono a circa 110 miliardi di euro). Un po’ meno ambizioso è l’impegno dei Cinque Stelle: portare il rapporto debito/Pil al 90% ma in 10 anni costa 4.2 punti di Pil all’anno, ossia poco più di 70 miliardi. Quanto al Pd, l’obiettivo è lo stesso di Forza Italia (rapporto debito/Pil del 100%), ma diluito in 10 anni anziché in 5: il conto è di “soli” 3.2 punti di Pil, pari a circa 55 miliardi l’anno. Tutte cifre che potrebbero essere indolori solo con tassi di crescita cinesi, non certo con i nostri asfittici 1 virgola qualcosa.

Se accanto a queste cifre poniamo quelle delle mirabolanti promesse (più spese e meno tasse) dei tre maggiori partiti, non importa se valutate ai costi dichiarati dai proponenti o a quelli ben più credibilmente calcolati nei giorni scorsi dal prof. Roberto Perotti, non è difficile rendersi conto che ci stanno proponendo due obiettivi incompatibili: se manterranno l’impegno a ridurre il debito, non potranno fare le decine di cose meravigliose che ci promettono, se invece cercheranno di attuare una parte ragguardevole delle cose che ci promettono, non potranno che aumentare il debito, ovvero il fardello che peserà sui nostri figli e nipoti.

Se dai tre partiti maggiori ci spostiamo verso gli altri, il quadro cambia un po’. Lega, Liberi e Uguali, Fratelli d’Italia, forse anche perché si sentono meno investiti da responsabilità di governo, non paiono molto interessati ad assumere impegni precisi di riduzione del debito pubblico. Con qualche sfumatura e differenza, mi pare li accomuni l’idea che in questi anni abbiamo già avuto troppa austerità, che solo la crescita ci salverà, e che per sostenere la crescita stessa un po’ di deficit e di debito in più non guastino.

Dobbiamo concludere che la riduzione del debito non interessi proprio nessuna delle forze in campo?

Non esattamente. Una forza politica che, anche nei giorni scorsi, ha molto insistito sulla assoluta necessità di abbattere il debito pubblico c’è, ed è la lista “Più Europa” di Emma Bonino. L’idea della Bonino è di portare il debito pubblico sotto il 110% del Pil in 5 anni, un percorso che costerebbe 4.4 punti di Pil (75 miliardi) all’anno, più o meno lo stesso ritmo ipotizzato dai Cinque Stelle.

Ma come fare?

Leggendo i documenti della lista Più Europa, e scorrendo le dichiarazioni di Emma Bonino, si scopre una circostanza di cui pochi sembrano essersi accorti: habemus Thatcher. L’analisi e le ricette che ci vengono proposte sono sostanzialmente le stesse delle due grandi rivoluzioni liberiste degli anni ’80, quelle attuate dalla signora Thatcher nel Regno Unito e da Reagan negli Stati Uniti. Cose che, se a proporle fossero Berlusconi o Tremonti, scatenerebbero la piazza, le tv, i giornali, i sindacati, gli intellettuali, gli artisti, i preti, tutti indignati contro i tagli alla sanità, alla scuola, al welfare in genere (la cosiddetta “macelleria sociale”).

L’analisi parte da un giudizio durissimo (peraltro condivisibile) sulla politica degli ultimi anni: “quasi tutte le risorse come gli 80 euro, i vari bonus, la quattordicesima alle pensioni basse sono state fatte in deficit e ben poche risorse sono state trovate grazie alla spending review, che per motivi elettorali è stata messa in soffitta”. Di qui l’idea che si debba capovolgere le politiche attuate finora: “la nostra proposta in materia fiscale e di bilancio è esattamente l’opposta rispetto a quanto fatto in questi anni”.

Il nucleo della proposta di Più Europa è di congelare per alcuni anni la spesa pubblica bloccandola al livello attuale in termini nominali (il che significa farla scendere in termini reali), tagliando “uscite correnti e agevolazioni fiscali”, e solo in un secondo tempo, dopo una spending review draconiana, cominciare a ridurre le tasse (Irpef e Irap). Il tutto naturalmente corredato da privatizzazioni, liberalizzazioni, misure a favore della concorrenza.

Per certi versi la posizione di Emma Bonino non deve stupire, e forse neppure scandalizzare se non per il suo estremismo economico. Dopotutto i radicali hanno sempre predicato la concorrenza e le virtù del mercato, spesso scavalcando i riformisti di destra e di sinistra su terreni minati come l’articolo 18 o la flat tax. Ma la realtà storica è che quasi tutte le grandi battaglie dei radicali non sono state sull’economia, bensì sul terreno dei diritti.  Perché, nel profondo, ai radicali le questioni che interessano davvero, quelle per cui sono pronti a scatenare campagne politiche all’ultima firma, sono quelle che riguardano il funzionamento delle istituzioni (giustizia, carceri, ecc.) e le grandi “battaglie di civiltà”: divorzio, aborto, testamento biologico, eutanasia, fecondazione assistita, coppie di fatto, diritti dei migranti, diritti dei gay, e così via. Non certo l’articolo 18, o le tasse, o la spending review, che fanno parte della loro ideologia, non della loro pratica. Ecco perché possono preoccuparsi del debito: perché, occupandosi di regole e di diritti civili, non hanno una lista della spesa imbarazzante come quella degli altri partiti.

Per altri versi, invece, la durissima requisitoria di Emma Bonino sulle politiche di questi anni lascia un po’ perplessi. L’elettore ingenuo come me, che ha fatto l’errore di leggere sia il programma di Più Europa sia quello del Pd si chiede come possano essere alleati, visto che Emma Bonino definisce la sua proposta di politica economica “esattamente opposta” a quel che il Partito democratico ha praticato in questi anni (per non parlare dei contrasti con Minniti sulla gestione dei migranti).

Se proviamo a tirare le fila il quadro è sconcertante. Nessuno dei sei maggiori partiti italiani ha veramente intenzione di ridurre il debito, altrimenti non farebbero le promesse che fanno. L’unico che prende sul serio il problema, ovvero Più Europa, lo fa con un programma ultra-liberista che non spaventa nessuno solo perché pochi lo conoscono, tutti sappiamo che le questioni che davvero scaldano il cuore del mondo radicale sono altre, e comunque non è a loro che sarà affidato il governo dell’economia.

La cosa che più mi sorprende, tuttavia, è un’altra. Ed è che tutti gli attori politici che provano a dire qualcosa sul debito pubblico diano per scontato che il problema sia abbattere il rapporto debito/Pil. Eppure non è detto che questa sia l’unica strada per alleggerire il fardello delle nuove generazioni, e ridurre i rischi di una nuova crisi come quella del 2011. La comparazione con gli altri paesi, e l’analisi statistica del funzionamento dei mercati finanziari in questi lunghi anni di crisi, suggeriscono anche un altro approccio possibile. Più che pretendere di abbattere in pochi anni la massa complessiva di un debito che si è accumulato in decenni e decenni, dovremmo forse porci due obiettivi più limitati e realistici. Il primo è di mantenere gli impegni che prendiamo in Europa, anziché disattenderli come facciamo ogni anno. Meglio promettere poco, ad esempio una riduzione del rapporto debito/Pil di soli 2 punti l’anno, ma poi attuarla davvero, implacabilmente e anno dopo anno. Il secondo obiettivo è di aumentare progressivamente la quota di debito detenuta da investitori interni, secondo il modello giapponese (il Giappone sopporta tranquillamente un rapporto debito/Pil superiore al 200% perché esso è in gran parte in mani giapponesi). E’ facile mostrare, infatti, che la vulnerabilità dei conti pubblici di un paese non dipende tanto dal rapporto debito/Pil, ma dal rapporto fra debito pubblico detenuto da investitori esteri e Pil, una grandezza che può avere un andamento sostanzialmente diverso da quello del debito complessivo (negli ultimi due anni, ad esempio, il suo andamento è stato relativamente favorevole).

Ma forse non dovrei sorprendermi troppo. Il fatto che i partiti enuncino obiettivi di abbattimento del debito del tutto irrealistici, e disdegnino sentieri di risanamento più graduali e praticabili, è semplicemente il segno che, con quel problema, non hanno la minima intenzione di fare i conti.




Abolire “la Fornero” ?

Wanted, o “ricercata”. Un marziano che sbarcasse in Italia e posasse gli occhi su slogan e manifesti di questa avvilente campagna elettorale sarebbe indotto a pensare che la professoressa Elsa Fornero sia uno dei principali pericoli pubblici di questo paese. Quel che colpisce, della caccia alla Fornero, non è tanto l’animosità degli attacchi cui la docente torinese è sottoposta da ben sei anni, bensì la loro universalità: ad essere risolutamente (eufemismo) contro la Fornero e la sua riforma delle pensioni troviamo infatti nientemeno che la Cgil, ossia il più grande sindacato italiano (peraltro zeppo di pensionati), il Movimento Cinque Stelle (ossia il più grande partito italiano), la Lega (il più radicale partito di destra), Liberi e uguali (il più radicale partito di sinistra). Tenuto conto che queste forze rappresentano gruppi di elettori scarsamente sovrapposti, è facile concludere che “abolire la Fornero” è probabilmente l’unico obiettivo su cui esiste una larga, larghissima, convergenza politica. Una sensazione, questa, rafforzata dalle dichiarazioni di Salvini, che giusto pochi giorni fa, in una intervista al Corriere della Sera, ha riconosciuto la vicinanza fra Lega e Cinque Stelle su questo punto; e pochi giorni prima, aveva pubblicamente annunciato che “la legge sulla pensioni sarà la prima cosa che cancelleremo se andremo al governo”.

Fuori dal fronte anti-Fornero l’unica forza politica importante è il Pd, visto che Forza Italia, stante la sua alleanza con la Lega, non può che barcamenarsi fra gli slogan radicali (“abrogare la legge Fornero”, Brunetta) e le formule più prudenti (“eliminare gli effetti negativi”, Berlusconi).

Da che cosa deriva tanto interesse per il tema delle pensioni e tanto accanimento verso la riforma Fornero? Essenzialmente dal fatto che i pensionati sono un gruppo sociale amplissimo, in continua crescita, e con una propensione al voto relativamente alta. L’esatto contrario dei giovani, che sono un gruppo sociale ristretto, in continua diminuzione, e fortemente tentato dall’astensione.  Il fatto che le statistiche dimostrino che anziani e pensionati siano il gruppo sociale che meno ha risentito della crisi, o la circostanza che l’Italia sia il paese europeo in cui più si spende per le pensioni, nonché uno dei paesi in cui l’età effettiva di andata in pensione è più bassa, non impressiona minimamente i nostri politici: a loro interessano i voti dei pensionati, e per acchiapparli sono disposti a tutto. Lo strumento principe di questa “acchiappanza” è la demonizzazione della legge Fornero, e in particolare del principio dell’adeguamento automatico dell’età della pensione all’allungamento della vita.

Tutto questo non significa, naturalmente, che la riforma Fornero non abbia limiti e difetti, oltre a quello ben noto di non aver previsto e gestito il problema degli “esodati” (persone che si sono improvvisamente venute a trovare senza lavoro e senza pensione): fra questi il modo, attuarialmente ingenuo, di calcolare la speranza di vita, o la filosofia dirigista che la ispira, due punti su cui ha di recente attirato l’attenzione Francesco Forte, stimato docente di Scienza delle finanze, e più volte ministro in governi del passato.

Il punto, però, è che tutto il dibattito sulla riforma Fornero è drammaticamente sprovvisto di lealtà e di concretezza. E, cosa interessante, a truccare le carte sono sia i difensori che i critici della riforma Fornero.

L’argomento principe dei difensori, per lo più fondato su conteggi della Ragioneria generale dello Stato, è che abolire la riforma Fornero costerebbe una cifra enorme, dell’ordine di 25 miliardi l’anno. Questa argomentazione finge di credere che i nemici della legge Fornero, una volta al governo, si limiterebbero ad abrogarla, tornando al sistema precedente: solo questo presupposto, infatti, consente di affermare che il costo dell’abolizione sarebbe di una determinata entità.

A questo argomento i critici obiettano, non senza ragione, che essi non intendono tornare al sistema precedente, ma cambiare le regole introdotte dalla Fornero, un compito che alcuni (Berlusconi) paiono intendere nel senso di “correggere alcuni difetti”, altri (Salvini, Di Maio) nel senso di “cambiare radicalmente”, ad esempio eliminando l’aumento automatico dell’età della pensione, o colpendo le pensioni più elevate.

Il difetto di questa posizione, tuttavia, è che non solo si guarda bene dallo scendere nei dettagli, ma si rifiuta ostinatamente di rispondere alla domanda cruciale, che dovrebbe precedere qualsiasi esposizione approfondita di come le cose dovrebbero funzionare “se vinciamo noi”. La domanda è questa: stante che la legge Fornero, rispetto alla disciplina precedente, comporta un risparmio ingente (dell’ordine di un paio di decine di miliardi l’anno), la vostra riforma farebbe aumentare, farebbe diminuire o lascerebbe invariata la spesa pensionistica? E se non la lascerebbe invariata, di quanti miliardi la farebbe aumentare o diminuire rispetto alla situazione di oggi?

A questa basilare domanda gli acerrimi nemici della legge Fornero non hanno, per ora, saputo fornire alcuna risposta. Io stesso, qualche tempo fa, ho avuto occasione di constatarlo in un dibattito televisivo con l’on. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia. Quando ho posto quella domanda, ne ho ricevuto la seguente, a suo modo geniale, risposta: “non condivido la domanda”.

Ecco perché, di fronte al pomo della discordia costituito dalla legge Fornero, penso non si possa che assumere un atteggiamento scettico. Nessuna legge è perfetta, e quella legge ha sicuramente dei difetti. Ma almeno non è a scatola chiusa, come lo sono quelle dei suoi critici: nulla, al momento, ci garantisce che essi la sostituirebbero con una legge migliore, e che, nella ricerca del meglio, non metterebbero a repentaglio i conti dello Stato.

Speriamo che, di qui al 4 marzo, almeno una delle forze politiche che vogliono disfarsi della legge Fornero abbia il coraggio di scoprire le carte, e di rispondere perlomeno alla domanda preliminare: quanti miliardi in più o in meno all’anno ci costerà la nuova legge?