Aumentano gli italiani poveri

Cresce ancora il rischio povertà o esclusione sociale nel nostro paese. I dati diffusi recentemente dall’Eurostat parlano di un nuovo aumento (seppur basato su dati provvisori) delle persone economicamente vulnerabili nel 2016: sono circa 600mila in più rispetto a quanto registrato nel 2015. Ci riferiamo a quel segmento costituito da poco più di 18 milioni di persone che hanno sperimentato almeno una delle seguenti condizioni:

  • percepire un reddito equivalente inferiore al 60% del reddito medio disponibile nazionale
  • sperimentare difficoltà dal punto di vista materiale (come essere in arretrato nel pagamento di bollette o affitto, o il non poter sostenere spese impreviste di 800 euro)
  • vivere in famiglie con bassa intensità di lavoro.

Sono quasi un terzo degli italiani. Solo nella fase più acuta della crisi (2012) si erano raggiunti valori simili.

Se è il Mezzogiorno a presentare i valori più elevati (qui le cifre superano addirittura il 40%, raggiungendo il 55% in Sicilia), è il Nord-Ovest, con il Piemonte, ad aver registrato, nell’ultimo anno, l’aumento maggiore (+5,7 punti percentuali).




Dal fisco alla scuola/Tre domande per la destra di governo che verrà

Anche se nessun partito ha ancora presentato un programma elettorale preciso, ormai un’idea me la sono fatta. All’appuntamento di marzo, quando saremo chiamati alle urne, la sinistra si presenterà, inevitabilmente, come la paladina e la garante della continuità. In un modo o nell’altro, è al governo da sei anni, e da quasi quattro, ossia da quando Renzi ne ha conquistato il comando, governa sostanzialmente da sola, con condizionamenti minimi da parte dei cespugli che circondano il Pd. E’ dunque verosimile che, alle urne, si presenti chiedendo agli italiani di consentirle di continuare il lavoro fatto da Renzi e Gentiloni. Se siamo stati così bravi fin qui, perché cambiare?  Molto difficile che, prima del voto, il Pd attui quella svolta a sinistra (ma sarebbe più esatto dire: quel ritorno al passato), che scissionisti e nostalgici invocano quotidianamente.

Il Movimento Cinque Stelle si presenterà nel registro opposto, come l’unica garanzia di un cambiamento vero, come l’unica forza che – essendo nuova e non avendo mai governato (o meglio: avendo governato in modo controverso a Roma, Torino e qualche altro comune) – può davvero cambiare il Paese. E cercherà di convincere gli italiani a votarlo soprattutto con la proposta di un (assai generoso) reddito minimo garantito, che si ostinerà a chiamare “reddito di cittadinanza”, che suona meno assistenziale.

Il vero rebus, per me, è la destra. Intanto perché, a destra, a differenza che altrove, siamo in presenza di tre partiti e non di uno solo: Forza Italia e la Lega stanno in prossimità del 15%, Fratelli d’Italia sta ormai stabilmente intorno al 5%, ben oltre ogni ragionevole soglia di sbarramento. Ma soprattutto per un altro motivo: il programma politico dell’alleanza che si va profilando fra i tre partiti di destra non è affatto chiaro. E non lo è non già su quisquilie e pinzillacchere, ma su almeno tre punti fondamentali.

Il fisco, innanzitutto. Sia Salvini sia Berlusconi parlano di flat tax, ovvero di un’unica aliquota sul valore aggiunto (IVA), per il reddito personale e per il reddito di impresa.

Ma per Salvini l’aliquota unica deve essere al 15%, per Berlusconi al 23% (una differenza enorme, sul piano macroeconomico). Entrambe le proposte sono al di sotto del 25%, ossia dell’aliquota proposta dall’Istituto Bruno Leoni, probabilmente il think tank più liberal-liberista che vi sia in Italia. E notate che l’aliquota unica proposta dal Bruno Leoni, molto efficacemente e dettagliatamente spiegata da Nicola Rossi in un denso volumetto di qualche mese fa (Venticinque% per tutti, IBL Libri), è già stata considerata irrealistica (troppo bassa) da qualificati studiosi di questioni fiscali. A destra si pensa che Salvini e Berlusconi troveranno un punto di equilibrio (20%?), ma la vera questione non è a che livello si metteranno d’accordo i due principali partiti del centro-destra, ma in che modo si possa attuare un programma così audace nell’orizzonte di una legislatura. Perché si fa presto a dire riduciamo il perimetro della Pubblica Amministrazione, combattiamo gli sprechi, facciamo la spending review: quando si arriva al dunque, nessuno riesce a chiudere gli enti inutili, nessuno riesce a liberarsi del personale in eccesso, nessuno riesce a privatizzare quel che andrebbe privatizzato, e la soluzione che mette d’accordo tutti i governi, di destra e di sinistra, è da 10 anni sempre la stessa: liberarsi dei commissari alla spending review.

Il secondo punto poco chiaro è quello del contrasto alla povertà, un dramma che continua a perdurare e anzi si è ancora (leggermente) aggravato negli ultimi tempi. Qui quel che si vorrebbe capire è se il centro-destra pensa sul serio di introdurre un’imposta negativa sul reddito (nel qual caso farebbe bene a spiegare innanzitutto che cos’è, visto che non tutti hanno studiato Milton Friedman e Friedrich von Hayek). E, se sì, su quali basi, con quali risorse, e destinata a chi. Giusto per ricordare qualche nodo: l’esistenza di prezzi molto diversi fra Nord e Sud rende iniqua un’imposta basata sul reddito nominale; aggredire la povertà costerebbe almeno 10 miliardi; quasi il 40% dei poveri è costituito da immigrati.

Un terzo punto che meriterebbe di essere chiarito è quello della sicurezza e dell’immigrazione irregolare. Se non ci fosse Minniti, la linea del centro-destra sarebbe scontata: stop alle politiche di accoglienza indiscriminata (e disordinata) attuate fino a pochi mesi fa. Ma adesso c’è Minniti che quelle politiche le ha già cambiate parecchio. Quindi la domanda diventa un’altra: fareste come Minniti? O fareste di più, o cose diverse? E se la risposta fosse quest’ultima, quali cose fareste fra quelle che si possono effettivamente fare, al di là dei facili slogan di una campagna elettorale? Come affrontereste il problema degli alloggi popolari abusivamente occupati da italiani non meno che da stranieri?

Ci sarebbe poi un punto ulteriore, che però non riguarda specificamente la destra, ma un po’ tutte le forze politiche: sulla scuola, e più in generale sul mondo dell’istruzione, che cosa possiamo aspettarci dal prossimo governo?

Perché almeno un paio di cose sono chiare, per chi ha occhi per vedere. La prima è che l’alternanza scuola-lavoro ha presentato forti “criticità”, per usare un eufemismo caro alla politica. Un peccato per gli studenti, ma forse anche un’occasione sprecata per le imprese, che potrebbero dare molto di più ai giovani (e a sé stesse) se fossero messe in condizione di fare della vera formazione sul posto di lavoro. La seconda è che l’abbassamento degli standard, in atto in tutti gli ordini di scuola da almeno mezzo secolo, non accenna a interrompersi. Nessun governo degli ultimi 50 anni ha mai fatto qualcosa per fermare questa deriva, e quasi tutti hanno molto operato per accelerarla.

Non sarebbe ora che almeno una forza politica si decidesse, non dico a combinare qualcosa di buono, ma almeno a riconoscere il problema?

Pubblicato su Il Messaggero il 21 ottobre 2017



Selezionare i migranti per contrastare la povertà

A seconda di come la si guarda, la storia economica di questi ultimi 10 anni si presenta con due facce opposte.

Il dato più confortante, a mio parere, è che nel corso del 2107, finalmente, la percentuale di famiglie in difficoltà è finalmente scesa più o meno al livello del 2007, ossia al livello pre-crisi. Per “famiglie in difficoltà” non intendo le famiglie povere (qualsiasi cosa si intenda per povero) bensì le famiglie che, alla fine del mese, sono costrette ad attingere ai risparmi o fare debiti. Questo insieme di famiglie, che storicamente si colloca fra il 10 e il 15% del totale, aveva raggiunto la cifra record del 30-35% nella fase acuta della crisi (2012-2013), ma dal 2014 è costantemente e regolarmente diminuito, fino a dimezzarsi rispetto al picco del biennio 2012-2013: oggi sono circa il 15% del totale, 1 famiglia su 7.

A questa recente diminuzione hanno contributo, a mio parere, soprattutto tre fattori. Il primo è la ripresa del Pil. Il secondo è la politica dei bonus (80 euro e incentivi alle assunzioni). Il terzo è l’accresciuta capacità delle famiglie di fronteggiare la diminuzione del potere di acquisto sfruttando la moltiplicazione delle promozioni e delle offerte di prodotti gratuiti (o apparentemente gratuiti). Quest’ultimo fattore può apparire marginale, o strano, ma lo è meno di quel che sembra se riflettiamo sul fatto che il peso delle famiglie che quadrano il bilancio, o addirittura risparmiano, è tornato ad essere quello di 10 anni fa, mentre il potere di acquisto pro capite è ancora abbondantemente al di sotto dei livelli pre-crisi (-10%). Forse a fronte di un minore potere di acquisto teorico (quello calcolato dall’Istat), le famiglie hanno messo in campo strategie di spesa più attente e sofisticate.

Tutto bene dunque, almeno dal punto di vista delle famiglie?

Non esattamente. Accanto a questo dato positivo, infatti, ve n’è un altro che appare di segno opposto: il numero dei poveri è aumentato. Per l’esattezza è quasi triplicato in 9 anni, dal 2007 al 2016. E anche negli ultimi 3-4 anni, con la ripresa del Pil e dell’occupazione, ha continuato ad aumentare, sia pure di poco. Nel 2007 gli individui che vivevano in povertà erano meno di 2 milioni, oggi sfiorano i 5: come è possibile, visto che la percentuale di famiglie in difficoltà è tornata ai livelli pre-crisi?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima di tutto sgomberare il campo da un dubbio: per poveri intendiamo i poveri veri e propri, ossia coloro che hanno un reddito inferiore alla soglia di sussistenza (definita dall’Istat), e non una delle numerose definizioni allargate di povertà, quelle che – secondo Kenneth Minogue – i governanti continuamente producono per giustificare il proprio ruolo, ovvero il crescente intervento dello Stato per combattere la povertà stessa (Breve introduzione alla politica, IBL Libri 2014).

Dunque i poveri, i veri poveri, sono molti di più di 10 anni fa, e sono (leggermente) aumentati anche mentre il numero di famiglie in difficoltà diminuiva. Come è possibile?

Una prima risposta è che, se quasi tutte le famiglie povere risultano in difficoltà, non tutte le famiglie in difficoltà sono povere: una parte non è affatto povera, semplicemente spende più di quel che guadagna. E’ questo, verosimilmente, il segmento sociale che più ha beneficiato della ripresa e della politica dei bonus, una politica che ha lasciato a bocca asciutta i veri poveri, ovvero quanti, o perché inoccupati, o perché disoccupati, o perché occupati precari, irregolari o a basso reddito, non guadagnavano abbastanza per pagare le tasse e quindi usufruire del bonus (che, lo ricordiamo, non è un assegno, ma uno sgravio fiscale).

C’è però anche una seconda risposta possibile, forse più inquietante. Se andiamo a vedere chi sono i poveri oggi in Italia, scopriamo che quasi il 40% di essi sono stranieri, e che negli ultimi 4 anni questa quota è molto aumentata (prima del 2013, sfortunatamente, mancano i dati). Se poi andiamo a vedere come è cambiato il tasso di occupazione negli anni della crisi, scopriamo che quello degli italiani è diminuito, ma quello degli stranieri ha subito un vero e proprio crollo, molto più accentuato di quello degli italiani. In poche parole: l’aumento della povertà negli ultimi anni è interamente dovuto alla componente straniera, mentre la componente italiana è in sia pur lenta diminuzione. Ed è forse significativo che questo aumento del numero di stranieri poveri si sia prodotto negli ultimi 4 anni, ossia proprio nel periodo che ha visto un flusso senza precedenti di richiedenti asilo e migranti economici, con strutture di accoglienza chiaramente non all’altezza della situazione.

Difficile sottovalutare l’importanza di questi dati in vista delle prossime elezioni, in cui certamente temi come le politiche di contrasto alla povertà e il reddito di cittadinanza la faranno da padroni. Da questa analisi è infatti possibile trarre due ordini di conclusioni opposte.

Per alcuni l’aumento degli stranieri poveri dimostra soltanto che l’accoglienza non funziona se non è accompagnata da politiche di integrazione e di inserimento dei migranti.

Per altri dimostra invece che l’accoglienza genera povertà, e che le future politiche di sostegno del reddito rischiano di dirottare la maggior parte delle risorse sugli immigrati, a tutto discapito dei cittadini italiani.

Comunque la si pensi, una cosa è certa: dopo 10 anni di crisi, il problema della povertà e quello dell’immigrazione non possono più essere tenuti distinti. Di qui un dilemma, su cui gli elettori saranno chiamati a scegliere: o mobilitare sempre maggiori risorse pubbliche per sostenere il reddito degli immigrati poveri, o rendere molto più selettive le politiche di accoglienza, chiudendo le porte a chi non è in grado di sostentarsi.

Pubblicato da Il Messaggero




Il rischio povertà o esclusione sociale

Nel 2015 (ultimi dati disponibili) il 28,7% della popolazione italiana era a rischio povertà o esclusione sociale. Circa 17,5 milioni di persone hanno sperimentato dunque almeno una delle seguenti condizioni:

  • percepire un reddito equivalente inferiore al 60% del reddito medio disponibile nazionale
  • sperimentare difficoltà dal punto di vista materiale (come essere in arretrato nel pagamento di bollette o affitto, o il non poter sostenere spese impreviste di 800 euro)
  • vivere in famiglie con bassa intensità di lavoro.

Con questo valore il nostro paese si colloca in ottava posizione tra i paesi della UE (UE a 28),  al di sopra della media europea (23,8%) e di quella dell’Eurozona (23,0%).

La quota di chi sperimenta un certo grado di disagio economico e sociale, quota che tra il 2004 e il 2010 era rimasta sostanzialmente stabile oscillando intorno al 25%, ha iniziato a salire bruscamente nel 2011 sfiorando addirittura il 30% l’anno successivo. Ha poi invertito la rotta nel 2014, ma nel 2015 e leggermente risalita toccando appunto il 28,7%.

È il Mezzogiorno a presentare i valori più elevati. Qui le cifre superano addirittura il 40%, raggiungendo il 55% in Sicilia.




Qualcuno dica al signor Renzi di non vendere patacche

Qualcuno dovrà pur dirglielo, prima o poi, che il Presidente del Consiglio non è più lui.

Questo deve aver pensato il ministro Padoan quando, qualche giorno fa a Bruxelles, i giornalisti gli hanno chiesto di commentare le ultime proposte di Renzi in materia di economia: rottamare il fiscal compact, interrompere (anzi invertire) il già lentissimo percorso di riduzione del deficit, usare il deficit aggiuntivo (5 anni di indebitamento al 2.9%) per abbassare le tasse e fare investimenti pubblici.

Ma l’economia non è l’unico terreno su cui l’ex presidente del Consiglio ci martella da giorni. C’è anche il capitolo migranti, che si arricchisce ogni giorno di dichiarazioni e polemiche. Dopo aver praticato l’accoglienza indiscriminata nel suo triennio di governo, Renzi si è bruscamente risvegliato ed ora pare pensarla come Salvini: “aiutiamoli a casa loro”. Mentre per lo Ius soli arriva la decisione del premier Paolo Gentiloni di rimandare tutto all’autunno, con la possibilità che non se ne faccia più niente, per evitare un pericolosissimo voto di fiducia.

Né passa giorno senza che l’irrequieto segretario del Pd lanci i suoi strali, ora anche attraverso il suo nuovo libro (Avanti). Ce n’è per tutti, ma soprattutto per i suoi predecessori, Letta cui lui non ha fatto nulla (è stato il Pd a chiedergli di rottamarlo), Monti che è la vera causa dei nostri guai (se abbiamo le mani legate in economia è colpa sua). E se la Banca d’Italia rivede al rialzo le previsioni del Pil 2017 (dall’1.1% governativo di qualche mese fa a un incoraggiante 1.4%), eccolo di nuovo, che cinguetta su Twitter attraverso le parole del suo alter ego femminile, la sottosegretaria Maria Elena Boschi: “col tempo arrivano le prove che le politiche dei Mille Giorni erano coraggiose e giuste”.

Di fronte a una simile congerie di chiacchiere, forse, non sarebbe male provare a rimettere in fila i fatti. Perché il rischio dei mesi che ci aspettano, di qui alle elezioni (verosimilmente marzo 2018), è quello di una continua confusione fra il piano della realtà e quello della narrazione, fra la pietrosa verità delle cose e le parole alate con cui la politica prova ad addomesticarle.

Due sono, a mio parere, le insidie da cui dovremmo guardarci nei prossimi mesi. La prima è quella di prendere per buoni i propositi, spesso del tutto irrealistici, enunciati da chi si candida a guidare il paese. Vale per l’economia, dove l’idea di fare deficit (2.9% del Pil) per 5 anni, incrementando ulteriormente il nostro enorme debito pubblico, dovrebbe bastare a screditare chiunque la enunci, anziché essere dibattuta come un’alternativa davvero sul tappeto (e bene ha fatto il ministro Padoan a dissociarsene). Ma vale anche per l’immigrazione, dove sarebbe meglio prendere atto dei tre dati di fondo del problema anziché continuare ad alimentare illusioni: primo, l’Italia non ha né la volontà né la capacità di rimpatriare i migranti economici; secondo, la maggior parte degli Stati europei non hanno la minima intenzione di farsi carico dei rifugiati che noi abbiamo accolto; terzo, nessuno Stato europeo è disposto ad aprire i suoi porti alle navi che salvano migranti in mare.

Ma c’è anche un’altra insidia, ben più sottile, da cui dovremmo guardarci. Ed è l’insidia dei falsi bilanci, o fake stories (come verrebbe da chiamarle in questa strana era di fake news e di story telling). All’università c’è persino una disciplina scientifica che se ne occupa, si chiama “Analisi delle politiche pubbliche”. Dovrebbe essere obbligatoria per chi pretende di fare politica, e non farebbe male neppure a giornalisti e conduttori televisivi.

Che cosa si insegna in questa disciplina? In sostanza si insegnano le tecniche statistico-matematiche che, a certe condizioni, permettono di capire se un cambiamento intervenuto in un determinato sistema sociale in un dato arco di tempo è attribuibile all’azione di un decisore pubblico (tipicamente: un governo, nazionale o locale), e in quale misura. Ad esempio, se un aumento dell’occupazione, o della disoccupazione, o della povertà, è attribuibile a misure varate da un determinato governo. Quando sono usate con successo, queste tecniche di analisi dei dati aiutano ad evitare lo spettacolo cui i politici ci sottopongono sistematicamente quando raccontano i propri anni di governo.

Quali sono i capisaldi di questo spettacolo?

Sono tre: ignorare i fatti negativi, selezionare quelli positivi, attribuire questi ultimi alle politiche del governo.

Esempio. Ignorare che la povertà assoluta è aumentata e che il tasso di occupazione precaria ha toccato il massimo storico; sottolineare che l’occupazione è cresciuta e il Pil sta progredendo più velocemente di prima; attribuire questi ultimi risultati (positivi) all’azione di governo, e non fornire alcun resoconto dei primi (negativi).

Curioso. Uno studente di “Analisi delle politiche pubbliche” che ragionasse così sarebbe bocciato senza la minima esitazione. Un politico, invece, ottiene la deferente attenzione del pubblico e dei media.

Anche questo è un privilegio della casta. E, su di noi cittadini che dai politici siamo governati, produce effetti ben più gravi di quelli che siamo soliti attribuire ai vizi dei nostri governanti.

Pubblica su Panorama il 20 luglio 2017