Nazionalizzare tutto?

La parola d’ordine è quella: nazionalizzare tutto. La agitano i Cinque Stelle, e pare aver fatto breccia anche in alcuni esponenti della Lega, se è vero che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti ritiene che si debbano rivedere tutte le concessioni. Quanto all’opposizione, la sinistra e Forza Italia paiono contrarie, ma Fratelli d’Italia, per bocca di Giorgia Meloni, pare sottoscriverla senza riserve, almeno per quanto riguarda le infrastrutture strategiche (trasporti, acqua, energia, telecomunicazioni, poste).

E’ una buona idea?

Credo che dare una risposta generale, univoca, pro o contro le nazionalizzazioni, sia impossibile, anche da un punto di vista politico o ideologico. Contrariamente a quanto molti credono, le nazionalizzazioni e il loro opposto (le privatizzazioni) non dividono la destra e la sinistra, ma spaccano al loro interno i due schieramenti che – fino a ieri – si sono contesi il governo, in Italia come altrove. Le nazionalizzazioni sono piaciute ai fascisti (negli anni ’30) ma anche ai socialisti (negli anni ’60), le privatizzazioni sono piaciute alla sinistra riformista, ma anche alla destra berlusconiana, a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. La posizione verso le nazionalizzazioni, insomma, ha ben poco a che fare con la divisione fra destra e sinistra.

Se prendere posizione sulle nazionalizzazioni in base all’ideologia è impossibile, ancor meno facile è farlo sulla base dell’esperienza, almeno in Italia. Il guaio del nostro paese è che, se guardiamo agli ultimi decenni, sono innumerevoli sia i casi di fallimento dei privati, sia quelli di fallimento dello Stato. Alitalia è stata un disastro sia come impresa pubblica sia come impresa privata. Lo stesso caso del ponte Morandi è emblematico: Atlantia e la società Autostrade per l’Italia hanno fallito, su questo non vi sono dubbi, ma lo Stato ha fallito per certi versi ancora di più: doveva solo controllare il rispetto della convenzione, e non è stato capace di fare neppure quello. Come si possa, a questo punto, immaginare che la nostra elefantiaca ed inefficiente Amministrazione Pubblica, di cui si conoscono gli innumerevoli sprechi e malversazioni, possa sobbarcarsi il compito di gestire tutta la rete autostradale, resta per me un mistero.

Posto che sia i monopoli di Stato sia le società private spesso non sono state all’altezza dei loro compiti, resta comunque il problema di scegliere una via: puntare sulle nazionalizzazioni, proseguire nelle privatizzazioni iniziate negli anni ’90, decidere caso per caso, concessione per concessione, come saggiamente pare suggerire Giorgetti. L’impressione è che si punterà sulle nazionalizzazioni, capovolgendo la politica messa in atto negli anni ’90, che puntava a ridurre il perimetro dell’intervento pubblico. E’ vero che la Lega sembra opporre qualche resistenza, ma ritengo più probabile che alla fine a riportare qualche vittoria siano i nazionalizzatori: il controllo pubblico dell’economia, con la possibilità di governare la spesa pubblica, gli investimenti, le commesse pubbliche, le nomine, le elargizioni e i favori, è qualcosa che interessa ai politici di governo in quanto tali, indipendentemente dalla loro ideologia.

Resta il dubbio che una politica che punta sull’allargamento del perimetro dell’intervento pubblico sia, fondamentalmente, più nell’interesse dei governanti che in quello dei cittadini. E questo per almeno tre buoni motivi.

Il primo è che non è affatto detto che un controllo e una gestione diretta (statale) delle infrastrutture sia, per i cittadini, più sicuro di una seria sorveglianza sui concessionari.

Da questo punto di vista è davvero curiosa l’idea del ministro Toninelli che il ministero delle Infrastrutture possa costituirsi parte civile conto la società Autostrade: tutto lascia pensare che, nel processo per il ponte Morandi, sul banco degli accusati saranno chiamati sia Atlantia sia il Ministero di Toninelli, magari nella persona di qualche ex ministro delle infrastrutture.

Il secondo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è che, anche in regime di monopolio statale, è prevedibile che i lavori di ricostruzione dei ponti, manutenzione delle autostrade, costruzione di nuove arterie sarebbero in gran parte affidati a società private, ossia a chi ha le competenze e l’esperienza per realizzare le opere. La nazionalizzazione, in altre parole, potrebbe risultare più nominale che sostanziale.

Il terzo motivo di perplessità sulle nazionalizzazioni è il loro costo. Mentre privatizzare porta risorse nel bilancio dello Stato, nazionalizzare brucia risorse pubbliche: la sola revoca della concessione ad Atlantia potrebbe costare allo Stato 20 miliardi, e non è affatto detto che i ricavi netti di una gestione statale delle autostrade sarebbero superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una concessione. Se moltiplichiamo queste cifre per tutte le attività e funzioni che potrebbero essere nazionalizzate, è abbastanza evidente che i costi per lo Stato, cioè per i contribuenti, sarebbero esorbitanti. La nazionalizzazioni, in altre parole, aggraverebbero il nostro problema centrale, quello di un debito pubblico enorme, che non si riesce né a stabilizzare né a far scendere.

Nonostante tutto ciò, penso che alla fine la linea delle nazionalizzazioni finirà per prevalere. Oggi come ieri, infatti, quel che è decisivo non è il bene dei cittadini, ma sono le esigenze dei governanti. E ai governanti di ieri (1996, governo Prodi) conveniva ridurre il debito pubblico per guadagnare il biglietto di ingresso nell’Eurozona, di qui una delle più colossali operazione di dismissione del patrimonio pubblico che si ricordino (oltre 100 miliardi di euro). Ai governanti di oggi (2018, Salvini e Di Maio), conviene assumere il controllo più ampio possibile della macchina dello Stato, costi quel che costi, non certo guadagnare il rispetto delle autorità europee, che detestano e con cui (forse) cercano l’incidente.

Con quale prezzo per tutti noi, contribuenti, risparmiatori, lavoratori, nessuno lo sa. Ma io temo che sarà alto.




Ponte Morandi, le domande che non ci facciamo

Mentre non è ancora finito il tragico conto delle vittime del disastro di Genova, mentre diverse famiglie ancora si chiedono angosciate se i propri cari siano fra i dispersi, seppelliti sotto tonnellate di cemento, i responsabili diretti e indiretti, prossimi e remoti, di questa ennesima catastrofe italiana stanno dando uno dei peggiori spettacoli cui io abbia mai assistito.

Dicendo questo non mi riferisco tanto all’incredibile ritardo con cui la società Atlantia-Autostrade per l’Italia e la famiglia Benetton (che ne ha il controllo indiretto) hanno trovato modo di esprimere cordoglio e vicinanza alle famiglie delle vittime, quanto alla girandola di dichiarazioni strumentali, talora palesemente false o spudoratamente fuorvianti, con cui politici di governo e di opposizione (ma sarebbe più esatto dire: governanti di oggi e di ieri) hanno provato a trarre profitto elettorale, o a limitare possibili perdite di consenso, dal disastro del ponte Morandi.

Eppure, di fronte a quel che è successo, dovrebbe essere abbastanza chiaro che sono molti, e non uno solo, i soggetti che potrebbero farsi qualche domanda.  Certo, se come è molto probabile l’inchiesta dimostrerà che non è stato né un sabotaggio né un evento incontrollabile a provocare il disfacimento del ponte, sul banco degli accusati non potrà non salire la società privata Autostrade per l’Italia, che dal 2007 ha in concessione la gestione di buona parte delle autostrade italiane. La concessione prevede senza ambiguità che la responsabilità della manutenzione e della sicurezza è in capo alla concessionaria, né vi possono essere dubbi sul fatto che il ponte Morandi richiedesse ulteriori interventi (che infatti erano già stati pianificati, salvo poi rimandarli a dopo l’estate).

Fin qui tutto relativamente chiaro. Ma non è tutto. L’attuale ministro alle infrastrutture Danilo Toninelli ha dichiarato che il Ministero da lui presieduto potrebbe costituirsi parte civile nel giudizio contro Autostrade per l’Italia, il che – in concreto – significa pretendere un risarcimento in quanto parte danneggiata. Peccato che la situazione sia leggermente diversa: è vero che la società Autostrade per l’Italia ha la piena responsabilità della sicurezza, ma dal 1° ottobre 2012 è al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (MIT) che spetta la vigilanza sulle concessionarie, che prima era in capo all’ANAS. E infatti presso il ministero presieduto da Toninelli esiste una specifica “Direzione generale per la Vigilanza sulle Concessioni autostradali” (DGVCA), fra i cui compiti vi è precisamente la “verifica del rispetto dei parametri tecnici di qualità e sicurezza” da parte delle società private che gestiscono le autostrade.

Non saprei dire (non sono un giurista) se qualche vittima potrebbe costituirsi parte civile contro il Ministero delle infrastrutture, o accusare il Ministro di “omesso controllo”, ma non mi sembra possano esservi dubbi sul fatto che, su un piano politico e morale, oltre alla responsabilità della società concessionaria, vi sia anche una responsabilità da parte del concedente e cioè del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Certo, al neo-arrivato ministro Toninelli non si può imputare di non aver vigilato, ma semmai di non avere ancora capito di quante cose è tenuto ad occuparsi il suo ministero, e forse ancor più di non possedere l’umiltà di chi sta imparando un mestiere difficile. Qualche domanda potrebbero invece farsela i ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti (Del Rio, Lupi, Passera) che sono venuti prima di Toninelli, sotto i governi Gentiloni, Renzi, Letta, Monti, e cioè nel periodo in cui la vigilanza sulle concessionarie autostradali era passata dall’ANAS al MIT. Il ministro Del Rio ha dichiarato che, sulla tragedia del Ponte Morandi, “non ci dorme la notte”, e di “non aver mai ricevuto segnalazioni di alcun tipo”, senza farsi la domanda cruciale: ma il mio ministero ha vigilato abbastanza? Una domanda che, forse, i numerosi crolli, sprofondamenti, cedimenti di ponti e viadotti avvenuti degli ultimi anni avrebbero potuto suggerirgli.

Con questo non voglio certo dire che, sul banco degli accusati, dovremmo chiamare, oltre ad Atlantia (che ha la piena responsabilità della sicurezza, ed è giusto che paghi se ha sbagliato), tutti i ministri e presidenti del consiglio che hanno indirizzato la politica delle infrastrutture negli ultimi decenni. Quel che mi colpisce è quanto poco i politici (ma anche noi stessi, come cittadini) siano disposti a interrogarsi sulle proprie responsabilità, certo non penali, non dirette, non immediate, ma pur non del tutto insussistenti.

Penso a tante omissioni, a tanti sviamenti, a tante domande che potremmo farci e non ci facciamo. I Cinque Stelle, ad esempio, sono penosamente impegnati a nascondere il fatto di essere stati vicini (per usare un eufemismo) al movimento No-Gronda, fieramente avverso a chi il problema del ponte Morandi lo aveva posto, e aveva suggerito un alleggerimento mediante una nuova arteria di scorrimento. Salvini non si vergogna ad imputare all’eccesso di regole, vincoli e parametri imposti dall’Europa lo stato deplorevole delle infrastrutture in Italia, come se non fossero state italianissime (e politiche) le scelte che in questi anni hanno prima portato ad aggredire il debito pubblico vendendo i “gioielli di famiglia” (fra cui le reti stradali e di telecomunicazione) anziché eliminando gli sprechi, e poi – nei lunghi anni della crisi – a ridurre ai minimi termini gli acquisti e gli investimenti della Pubblica Amministrazione, pur di salvare le spese correnti portatrici di consenso, a partire dagli stipendi dei dipendenti pubblici e dalle pensioni più o meno anticipate.

Se fossi un politico che ha governato l’Italia negli ultimi 30 anni, certe domande me le farei. Mi chiederei se sia normale che, da decenni, i costi delle opere pubbliche in Italia siano molto più alti di quelli europei. Mi chiederei se sia normale che ci siano centinaia di ospedali, strade, pontili, raccordi iniziati e mai terminati. Mi chiederei se è stato giusto elargire miliardi e miliardi di false pensioni di invalidità, anziché mettere in sicurezza gli edifici scolastici. Mi chiederei se, per entrare in Europa, anziché vendere ai privati il patrimonio pubblico, non sarebbe stato meglio provare a spendere e sprecare di meno.

Mi chiederei, infine, se anche noi, come cittadini, come società civile, come corpi intermedi, non abbiamo le nostre responsabilità, se non altro per aver permesso a chi ci ha governati di portarci al disastro di cui poco per volta stiamo prendendo atto. Soprattutto, riguardo allo stato delle nostre infrastrutture, non chiamerei in causa l’Europa. Che ha tanti e gravi difetti, limiti e colpe, ma non quella di aver impedito all’Italia e ai suoi governi di fare quel che doveva e poteva essere fatto.

Articolo pubblicato su il Messaggero il 18 agosto 2018