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Il declino dell’Occidente. Se spariscono critica e dubbio si uccide la liberal-democrazia

29 Luglio 2023 - di Dino Cofrancesco

In primo pianoPolitica

Ferdinando Adornato e  Rino Fisichella hanno dialogato, in un libro pubblicato da Rubbettino (a cura di Gloria Piccioni), sul problema cruciale del nostro tempo, La libertà che cambia. Dialoghi sul destino dell’Occidente. ”Mi sono chiesto, scrive Adornato, quale sia il vero senso delle riflessioni raccolte in questo volume. Ebbene, credo si possa dire che siamo entrambi andati alla ricerca dei motivi che possano rimotivare una grande alleanza tra la fede e la ragione. Tra il pensiero cristiano”. Insomma, il vecchio progetto che ispirò la nascita del ‘Multino” prima che diventasse una delle tante riviste del pensiero unico della sinistra.

Dico subito la dimensione etico-teologica del saggio mi sembra non poco problematica. Quando leggo  certe riflessioni–”.. se la libertà non avesse relazione con la verità, come potrebbe, anche un non credente, decidere cos’è il Bene e cos’è il Male? In base a quale ordine di valori si potrebbe decidere che Hitler o Stalin sono il Male? Chi ha stabilito, infatti, che uccidere o fare del danno agli altri è peccato se non le Tavole della Legge oppure, se si preferisce, i precetti dell’ordine naturale? In base a quale altro criterio di verità un essere umano potrebbe definire la propria e l’altrui libertà?”–mi vengono in mente non solo le parole di Ponzio Pilato,”quid est veritas?’ma, altresì, il   libro di un filosofo del diritto analitico, Etica senza verità. In politica non ci sono verità ma valori in conflitto di cui dobbiamo essere realisticamente consapevoli. Per citare Joseph A. Schumpeter: “Rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni, eppure difenderle senza indietreggiare, è ciò che distingue un uomo civile da un barbaro”. Parlare di una scienza del bene e del male significa, in ultima istanza, ignorare che l’essenza della democrazia sta nel registrare le cose che i cittadini, di volta in volta ,ritengono buone  o cattive.

Più convincente, invece, è la critica (sia pur non nuova) dell’individualismo dei diritti che sta inaridendo le società occidentali.” In sostanza, scrive Adornato, a partire dalla fine degli anni Sessanta, si è fatto strada un convincimento generale che ha assunto quasi le sembianze di verità di fede. E cioè l’idea che il benessere di una democrazia sia direttamente proporzionale all’estensione dei diritti individuali. Più diritti per l’individuo=più democrazia. Da allora in poi, sulla base di questa equazione, ogni provvedimento teso a far prevalere “diritti di comunità” (o soltanto norme di tutela collettiva) sui “diritti individuali” è stato letto come un “attentato alla democrazia”. Ed è logico: se la bontà del sistema viene vista unicamente nella realizzazione di un’illimitataespansione dell’individuo, qualsiasi proposta che punti a perseguire un equilibrio tra valori comunitarie diritti individuali non può che essere ritenutaantidemocratica. Lungo questa strada laicista, però,non viene colpita soltanto la morale cattolica: vienemessa fuori gioco qualsiasi nozione di etica pubblica. Escluso, ovviamente, il precetto della totale soddisfa-zione esistenziale” <L’esasperata ricerca della soddisfazione del diritto individuale—gli fa eco Fisichella—sta distruggendo il diritto sociale>.

 Sulle cause di questo oscuramento dell’intelligenza occidentale, gli autori però non vanno a fondo: non c’è traccia nel libro dell’imponente letteratura che, sulle due rive dell’Oceano, ha analizzato il nesso tra il declino della comunità politica (lo stato nazionale) e l’affermazione di quell’universalismo etico, giuridico ed economico inteso a delegittimare tutto ciò che si riferisce al ‘particolare’—dalla famiglia alla nazione. Penso ad autori come Pierre Manent, Pierre-André Taguieff, Yael Tamir, Margaret Canovan, lo stesso Yoram Hazony.

Adornato, in particolare, che pure stila una sorta di catalogo del conservatore, entra in polemica con una sinistra—ormai sparita–che al liberismo etico unirebbe stranamente uno statalismo economico, impensabile oggettivamente senza sovranismo. E’ come se  le analisi di Luca Ricolfi sulle metamorfosi della sinistra fossero cadute nel vuoto. In realtà, quella odierna è una sinistra europeista, globalista, iperatlantista (George Soros non è certo un simbolo di destra) che non dovrebbe dispiacere ad Adornato, che citando <una (per lui) felice espressione di Biagio de Giovanni> parla dell’emergere di uno <scontro tra ’potere orientale’(Russia, Cina, India, Iran) e ’potere occidentale’>che vede esploso nella guerra russo-ucraina. E’il  leit motiv di ‘Repubblica’, della ’Stampa’ etc.

 Nel suo iperatlantismo, Adornato arriva a prendersela con Papa Bergoglio che agli inizi del conflitto  sarebbe stato <troppo equidistante>.<La presunta la colpa della Nato di aver ‘abbaiato ai confini della Russia’> gli è sembrata <un’opinione geopolitica infondata>.Sennonché era pure l’opinione di George Kennan, di Harry Kissinger, di John Mearsheimer, il più grande scienziato politico statunitense dopo la morte di Samuel P. Huntington! A scanso di equivoci, ritengo anch’io che l’Europa, la Nato, il dovere di prestare aiuto a un paese aggredito come l’Ucraina rientrino nel bagaglio ideologico del democratico liberale. Credo, però, nel diritto di esaminare liberamente e criticamente le decisioni riguardanti la politica internazionale. Siamo alleati consapevoli e responsabili degli Stati Uniti o siamo gli ascari della Grande Arméeatlantica? Le colpe di Putin sono evidenti e indelebili ma come mai nel libro non c’è alcun accenno agli Accordi di Minsk, su cui aveva richiamato l’attenzione Matteo Renzi, deprecandone il mancato rispetto? <Certo, scrive Fisichella, si potrebbe discutere all’infinito se quei determinati confini siano ucraini o russi, ma nel momento in cui la comunità internazionale li riconoscesse come ucraini, quella dovrebbe essere accettata come l’identità di una nazione>. Se la comunità internazionale, quindi, decide che il Lombardo-Veneto è territorio austriaco, la guerra contro Francesco Giuseppe diventa  un attentato all’indipendenza degli stati sovrani? Forse va recuperato il senso della complessità insuperabile delle vicende umane.

Il caso Venezi

16 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoSocietà

Marzo 2021. Beatrice Venezi, al Festival di Sanremo, dichiara che preferisce essere chiamata direttore d’orchestra (piuttosto che direttrice o direttora). Laura Boldrini, ex presidente della Camera, trova il tempo e la voglia di montare una polemica: la presa di posizione della Venezi “è un problema serio”, e “dimostra poca autostima”.

Che dire?

Se uno pensa a quanti e quali problemi veri ha l’Italia, viene il mal di mare a constatare che ci sia qualcuno, a sinistra, che pensa che il fatto di preferire direttore a direttrice costituisca un “problema serio”. Quanto alla scarsa autostima, vien da ridere: la Boldrini ha visto il curriculum della Venezi? Si è accorta che è la più giovane direttrice d’orchestra italiana?

Ma andiamo avanti. 10 luglio 2023, Beatrice Venezi, incorre nell’ira di 14 associazioni (sedicenti) democratiche e anti-fasciste francesi. Alla fine del 2023 dovrebbe dirigere l’orchestra filarmonica per i tradizionali balletti di Natale e per il concerto di Capodanno. Ma le associazioni democratiche e anti-fasciste non ci stanno, e lanciano una petizione in cui chiedono al sindaco di Nizza e al direttore generale dell’Opera Nice Côte d’Azur di annullare l’invito. Motivi: le idee politiche di Venezi, la sua partecipazione alla Convention di Fratelli d’Italia la primavera dell’anno scorso, il suo ruolo di consigliere del ministro della Cultura Sangiuliano.

Non è finita. Due giorni dopo, il 12 luglio, a Lucca si svolge il Summer Festival dedicato al centenario pucciniano. Venezi dirige l’orchestra e include fra i brani l’Inno a Roma di Puccini, scritto nel 1919, ma successivamente usato dal fascismo e dal Movimento Sociale Italiano. Per protesta, diversi membri del Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane, fra cui alcuni sindaci e un presidente di provincia, disertano l’evento (peraltro dimenticandosi che il medesimo inno, cantato da Bocelli al Colosseo due anni fa, non aveva suscitato la benché minima protesta o contestazione).

Beatrice Venezi giustamente tiene il punto, e rivendica l’assoluta autonomia dell’arte rispetto alla politica (lo stesso, peraltro, dovrebbe valere per scienza, letteratura, sport). Respinge fermamente l’idea che un’opera o un autore possano essere cancellati per il solo fatto che sono piaciuti ai soggetti sbagliati. L’esempio di Richard Wagner è perfetto: non dovremmo più ascoltare la musica del grande compositore tedesco solo perché quella musica piaceva a Hitler?

Poi respinge l’accusa di essere neo-fascista, o che lo sia l’attuale governo. E accusa i suoi accusatori di misoginia, perché attaccano una giovane donna per le idee del padre (che era stato dirigente di Forza Nuova).

Tutto ineccepibile, ma forse manca qualcosa. Venezi è stata troppo soft. La petizione in cui si chiede di toglierle la direzione dei concerti di fine anno a causa delle sue idee politiche andrebbe considerata per quel che è: un incitamento a compiere un atto di discriminazione.

Sia nella Costituzione italiana (art. 3), sia nel diritto europeo (art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 14 della CEDU), le idee politiche sono indicate esplicitamente fra le ragioni sulla base delle quali è inammissibile effettuare discriminazioni.

Viste le cose da questa angolatura, diventa del tutto irrilevante stabilire quali siano le idee politiche di Beatrice Venezi. Perché il punto non sono le sue convinzioni, ma come mai, nel 2023, una parte della sinistra considera normale, anzi dovuto, discriminare una giovane donna a causa delle sue idee.

Non era, la lotta contro ogni discriminazione, uno dei cardini del politicamente corretto?

Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe

15 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Che, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.

Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.

Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.

La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.

C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.

In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.

Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?

Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?

Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?

Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.

Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?

No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.

La sinistra blu

5 Dicembre 2022 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Man mano che ci si avvicina al congresso del Pd, i giochi si fanno più chiari. Al momento, solo due candidati – Stefano Bonaccini e Elly Schlein – paiono avere buone chances di vittoria. Sfortunatamente, però, la consapevolezza di essere a una svolta storica, che potrebbe determinare il destino della sinistra in Italia, non si accompagna a un adeguato sforzo di approfondimento teorico e programmatico.

Per chi ricorda la ricchezza di analisi che accompagnarono la nascita del primo centro-sinistra, o la messa a punto della strategia del compromesso storico, le scarne e generiche dichiarazioni di Bonaccini e Schlein suonano deludenti, perché ben poco informative. A quel che è dato capire fin qui, il Pd di Schlein si differenzierebbe da quello attuale per una maggiore attenzione alla questione sociale (e forse pure all’ambiente), mentre quello di Bonaccini segnerebbe un parziale ritorno ai principi della Terza via e al riformismo della stagione renziana. Il primo dialogherebbe con i Cinque Stelle, e non disdegnerebbe incisivi interventi redistributivi, mentre il secondo dialogherebbe con il Terzo polo, e avrebbe un occhio di riguardo per il mondo delle imprese e le esigenze della crescita.

Ma è tutto qui lo spazio dei posizionamenti possibili? Siamo sicuri che, alla fine, si tratti solo di spostare il Pd un po’ più a sinistra (via socialdemocratica) o un po’ più a destra (via liberaldemocratica)?

Se guardiamo a quel che è successo e succede al di fuori dell’Italia la risposta è: no, dentro la sinistra, specie nel mondo anglosassone, da oltre un decennio esistono anche posizioni non riducibili all’alternativa fra massimalisti e riformisti.

Negli stati Uniti, ad esempio, fin dal 2008 esiste una componente dei Democratici che combina idee progressiste in materia economica (più welfare) con idee conservatrici e neotradizionaliste sul piano culturale e sociale, innanzitutto sul cruciale terreno della sicurezza. Denominati in vario  modo, ora Blue dogs ora “cowboy democratici”, sono stati essenziali nella vittoria di Obama nel 2008 (a suo tempo ne fornì una ricostruzione dettagliata Maurizio Molinari in Cowboy democratici).

Nel Regno Unito fin dal 2009 è molto attiva una componente del Labour Party, il cosiddetto Blue Labour, che si propone di recuperare il consenso dei “colletti blu” sposando idee spesso considerate conservatrici, come famiglia, fede, vita di comunità e, soprattutto, limiti all’immigrazione irregolare. A questa componente del partito laburista hanno dato contributi teorici essenziali pensatori come Marc Stears, Maurice Glasman, David Goodhart (autore di The Road to Somewhere, uscito nel 2017).

Una delle idee chiave di questo filone di pensiero è che gli strati popolari siano culturalmente conservatori e, anche per le loro condizioni di esistenza, siano portati ad assegnare una importanza decisiva al valore della sicurezza, quale che sia la fonte della minaccia (terrorismo, criminalità, immigrazione irregolare). Di qui l’assoluta necessità, se si desidera non perdere il contatto con gli strati popolari, di prenderne sul serio il tradizionalismo e la domanda di protezione, anche quando farlo implica abbandonare le politiche tradizionali di apertura verso i flussi migratori.

Si potrebbe pensare che la “sinistra blu”, ossia una sinistra non sorda ai valori tradizionali e alla domanda di sicurezza, sia un fenomeno esclusivamente anglosassone. Ma non è esattamente così. La recente vittoria della socialdemocratica Mette Frederiksen in Danimarca è avvenuta su un programma anti-immigrati di incredibile spietatezza (trasferimento dei detenuti stranieri in Kossovo). Ed è giusto di pochi giorni fa la presa di posizione critica di Ségolène Royal (a suo tempo candidata socialista alla presidenza della Repubblica francese) nei confronti delle Ong che trasportano migranti dall’Africa in Europa.

E da noi?

Da noi una vera e propria “sinistra blu” non esiste, tutt’al più sono esistiti politici progressisti che, in tempi diversi, hanno provato a prendere sul serio il problema della sicurezza. E in qualche caso, anche ad avviare una riflessione teorica (penso al libro Sicurezza è libertà, di Marco Minniti).

Forse è giusto così, dopotutto una sinistra che adotta valori conservatori che sinistra è?

Ma forse la domanda andrebbe capovolta: che sinistra è, una sinistra che rinuncia al sostegno dei ceti popolari?

 

Luca Ricolfi

Francesco Ghidetti di “Quotidiano Nazionale” intervista Luca Ricolfi

17 Novembre 2022 - di fondazioneHume

In primo pianoPolitica

Professore, arrivati a questo punto, è vero quello che dicono in tanti che il Pd è un partito mai nato?

Non esattamente, il Pd delle origini, quello del congresso di Torino, guidato da Veltroni, una sua fisionomia ce l’aveva. È lungo la strada che, poco per volta, ha perso la sua ragion d’essere.

La famosa “fusione a freddo” tra Ds e Margherita: sta lì l’origine del male?

In parte sì, ma più che altro è la pretesa di incorporare tutte le maggiori culture politiche del paese: socialista, cattolica, liberale, ambientalista. Un’aspirazione alla totalità che ha conferito al partito tratti culturalmente totalitari. Anziché cercare di rappresentare una visione particolare del paese, in competizione con quella della destra, hanno preteso di ergersi a custodi del Bene, depositari della civiltà.

In vista del congresso, il Pd è davvero al capolinea come scrisse l’ex storico dirigente del Pci Emanuele Macaluso?

Ogni giorno che passa senza un’iniziativa politica, segmenti via via crescenti dell’elettorato Pd si spostano verso i Cinque Stelle e, in misura minore, verso il Terzo polo. Se vanno avanti così, a marzo potrebbero trovarsi poco sopra il 10% con I Cinque Stelle vicini al 20% e il Terzo Polo a sfiorare il 10%.

Si parla di due nomi per il dopo Letta: Stefano Bonaccini ed Elly Schlein. Unica cosa che li accomuna la provenienza dall’Emilia-Romagna. Vede rischi reali di scissione?

Sì, ne vedo. Se vince Elly Schlein il Pd diventa esplicitamente quel che già è, ossia un “partito radicale di massa”, concentrato su diritti civili, migranti, con una spruzzatina di ambientalismo. Se vince Bonaccini il Pd diventa un partito riformista, difficilmente distinguibile dal Terzo Polo. Una specie di partito di Renzi senza Renzi. Ma c’è anche una terza possibilità…

Quale?

Che il partito se lo prenda la sinistra di Bettini, Orlando e Provenzano. In questo caso il partito potrebbe diventare un normalissimo partito socialdemocratico, attento alla questione sociale e meno ossessionato dalla diade immigrati-diritti civili.

Schlein non è iscritta al partito. È credibile che possa prendersi il Pd? Quali prospettive vede per i dem?

Penso che la ragazza sia piuttosto ambiziosa, creda profondamente in sé stessa, e che non avrà alcun problema a prendere la tessera del Pd, ove questa diventasse la condizione per sfidare Bonaccini e gli altri aspiranti leader.

La sinistra si fa sempre folgorare da ‘papi stranieri’  e spesso da idee non sue. È la trasfigurazione delle idee da sinistra a destra di cui parla il suo libro (La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra)?

I “papi stranieri” sono quasi sempre semplicemente dei non-comunisti, chiamati a rassicurare un elettorato che non ha ancora digerito del tutto la cultura comunista. Ciampi, Prodi, Rutelli, Monti, Letta, Draghi, lo stesso Conte, sono i frontman (o le foglie di fico) che hanno permesso all’establishment ex PCI di occupare buona parte del potere e delle istituzioni senza esporsi direttamente.

Quello di cui parlo io nel mio libro è un altro processo storico, iniziato diversi decenni fa.

Quale?

Il processo che ha portato la sinistra a farsi scippare dalla destra due valori fondamentali della sinistra stessa: la difesa dei deboli e la libertà di espressione. Il primo scippo è avvenuto con il rifiuto di prendere sul serio la domanda di protezione che, da almeno 30 anni, sale dai ceti popolari, spaventati dalla globalizzazione e dalla presenza degli immigrati nelle periferie. Il secondo scippo è avvenuto con la adesione acritica al politicamente corretto, che ha trasformato in censori gli antichi difensori della libertà di pensiero. Ma c’è anche un terzo scippo, in atto da pochi mesi: la difesa del merito e della cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione dei ceti popolari. Incredibilmente, nelle ultime settimane, buona parte degli esponenti della sinistra si sono schierati contro il merito, finendo per mettersi sotto i piedi l’articolo 34 della Costituzione: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto a raggiungere i gradi più alti degli studi”.

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