Il PD dall’etica al moralismo

Le cose cambiano in fretta, in politica, soprattutto negli ultimi tempi.

A partire dagli anni della “rimozione forzata” del Cavaliere dalle nostre istituzioni, il vuoto politico è stato colmato da un’improvvisa accelerazione degli eventi, in quello che sembrerebbe l’inizio fragoroso di un’era post-Berlusconi per la politica italiana – nonostante la mole del personaggio e la sua tenacia nel presenziare la scena.

Abbiamo così assistito in pochi anni all’esplosione e poi all’implosione dei 5 Stelle, alla parabola di Renzi, alla morte di Forza Italia per come la conoscevamo, all’ascesa e al congelamento di Salvini, all’emersione del fenomeno Meloni… il tutto nel contesto più ampio di una scena internazionale in continuo stravolgimento, che riusciamo a influenzare sempre meno perché incapaci di produrre interlocutori seri.

Ma un punto fermo, una solida certezza in questo contesto “fluido” è la capacità del Partito Democratico di essere sempre dalla parte giusta, nella “squadra dei buoni” e del “bene comune”.

Una scelta strategica

Osservatori più degni del sottoscritto hanno definito il PD (da sinistra) come una forza “camaleontica” e “cangiante”, perché capace di fare propria qualsiasi posizione secondo la convenienza politica. E questo è senz’altro il miglior modo per descrivere la fenomenologia del Partito Democratico e soprattutto il suo allontanamento ormai siderale da qualsiasi valore di sinistra.

Ma forse sarebbe un errore confondere questo mimetismo con un’assenza di coerenza. I risultati politici parlano chiaro, in termini di gestione del potere – guardiamo alle ultime elezioni del Presidente della Repubblica – e quindi appare evidente che c’è un pensiero preciso dietro a questa impostazione; resta soltanto da capire quale esso sia.

Il punto, secondo chi scrive, è che quella che per anni abbiamo chiamato la “pretesa superiorità morale della sinistra” ha finito per rivelarsi non solo un atteggiamento di sufficienza verso l’avversario, ma una posizione strategica. Nel concreto, questa posizione si può riassumere come segue: stare dalla parte dei “buoni”, ad ogni costo; sposare e fare propria ogni narrazione mainstream, indipendentemente dal suo contenuto e unicamente in quanto mainstream.

La convenienza dell’operazione è ovvia; il costo è la rinuncia a ragionare per valori e scegliere di seguire dei trend.

 

La “guerra giusta”… e la guerra santa

Non stupisca, allora, la completa assenza di un dibattito nel PD quando – a torto o a ragione – si esprime tout-court a favore della fornitura di armi all’Ucraina. Ciò è perfettamente coerente con la scelta, a monte, di rinunciare a discutere di valori, per dedicarsi invece ad inseguire mode.

Così, la guerra in sé e la sua stessa natura violenta, le implicazioni patriottiche di questo conflitto e perfino i battaglioni neonazisti ucraini passano in secondo piano di fronte all’abbagliante luce di ciò che il mondo (e quindi il PD) hanno deciso essere il “bene” e i “buoni”. Anche il talentuoso Zelensky, che fino a pochi mesi fa non era che un populista (in quanto nato al di fuori di una tradizione politica) o un sovranista (perché europeo dell’est e quindi razzista e omofobo) è diventato improvvisamente un eroe.

A prescindere dall’eroismo di Zelensky e dalla necessità di avere o no una parte in questa guerra, si vuole solo evidenziare che il posizionamento del PD su questi temi non discende da valori “di sinistra” (o da un qualsiasi valore), ma dall’adozione in toto di una moda.

E se la guerra, oggi, ci offre questo esempio lampante di una scelta coerente ma che appare incoerente – perché tradisce le nostre aspettative rispetto a quello che il PD dovrebbe fare in quanto partito “di sinistra” –  basti guardare all’ultimo biennio di pandemia per rendersi conto che si tratta di un pattern consolidato. La modalità con la quale il PD ha gestito politicamente il tema Covid è stata sempre la stessa: l’assunzione di una posizione prona e totalmente appiattita su comunicazioni istituzionali (del Governo, dell’Unione Europea, del Presidente Biden, dell’OMS etc…), in quella che sembra davvero una smania di conformismo e conservatorismo acritico, nella totale noncuranza delle contraddizioni evidenti in queste stesse posizioni. E questo è avvenuto anche rispetto a temi estremamente delicati (ed estremamente “di sinistra”) quali la libertà di movimento, o quella di sottoporsi o meno a trattamenti sanitari.

Guardando agli ultimi dieci anni vediamo questa “inafferrabilità” del PD in mille occasioni: lo abbiamo visto diventare il partito delle ZTL, mentre parla di periferie; quello dei dipendenti pubblici, che però parla di precari; l’amico dei grandi gruppi, ma anche dell’ambiente; il garante ufficiale dei diritti delle persone non binarie o fluide, ma anche delle famiglie… perfino l’espressione “ingerenza della Chiesa”, in questa apparente schizofrenia, è sparita dal vocabolario del Pd, perché l’attuale Papa è “uno dei buoni”.

Certamente la pandemia è stata una pietra miliare in questo percorso evolutivo: si pensi alle posizioni del PD rispetto alle manifestazioni, represse nella violenza, dei portuali triestini. Il PD, diventato grazie al Covid anche il partito della scienza, della salute pubblica, della responsabilità, del vaccino obbligatorio, ora è all’occorrenza anche il partito dell’ordine, della sicurezza… e dei manganelli.

E proprio qui sta il secondo grande vantaggio di questo posizionamento strategico: essere sempre dalla parte del “bene” significa che chi non si conforma o ancora peggio si oppone intellettualmente è il “male”; anche se si tratta di un legittimo – perché ampiamente votato – concorrente politico, come la Lega, il M5S o Fratelli d’Italia. Così un partito politico come il PD ha aggiunto al suo ruolo di “ministro del bene” quello di censore.

Di conseguenza, oggi assumere pubblicamente posizioni non maggioritarie comporta avere la certezza di trovare il PD nella trincea opposta; e avere posizioni diverse da quelle del PD, su un qualsiasi tema, significa rischiare di essere tacciati di rappresentare il “male” (il tradizionalismo, il fascismo, il capitalismo, o la semplice ignoranza a seconda dei casi), in un falso sillogismo insidioso per la democrazia.

L’esercizio del dubbio diventa così un’attività pericolosa; ad esempio, manifestare pubblicamente perplessità sul concetto di gender, o sull’origine tutta umana del riscaldamento globale, o – ancora peggio – sull’opportunità di obbligare milioni di persone ad assumere un farmaco contro la propria volontà, comporta l’isolamento, la censura e l’esposizione a un coro di voci indignate tra le quali spicca, non richiesta, quella del nostro PD.

Le conseguenze? Certamente la libertà di espressione sta scemando nel nostro Paese, e il generale indottrinamento proposto dalle nostre scuole e dai nostri giornali, presto o tardi, finirà per derubricare definitivamente il tema dall’agenda politica. Inoltre, la qualità del dibattito politico è inevitabilmente sotto lo zero: perché il dibattito non è contemplato.

A livello politico, piaccia o no, il principale garante di questa pericolosa evoluzione è proprio il Partito Democratico.

 

La nuova chiesa universale

L’ultimo elemento di questo quadro è forse il più importante. Assodato che il PD non si muove a partire da valori, ma seguendo mode e trend internazionali, occorre capire se esista una fonte identificabile di queste mode. Ed è piuttosto evidente che una fonte – se non unica, almeno principale – esiste eccome.

Si potrebbe essere tentati di rintracciarla nella “pancia” e negli umori della gente, come avviene per Salvini o avvenne per i primi 5 Stelle. Se non fosse che non c’è niente di meno vicino all’istintività dell’italiano medio del pacchetto di valori ora in voga: rispetto per l’ambiente, liquidità sessuale, solidarietà sanitaria… non è il genere di discorsi che si sentono al bar, per lo meno.

No, la fonte della nuova “buona novella” di cui il Pd si è fatto promotore è una fonte “top-down”, istituzionale, e si chiama Partito Democratico americano, che del resto è il soggetto che da sempre si occupa di scrivere l’agenda progressista internazionale. Non è facile dire se il Pd senta nostalgia dell’Unione Sovietica e abbia riscoperto la propria terza narice, o se sia sotto gli effetti di un reflusso democristiano: fatto sta che esso oggi si muove secondo i dettami di questa particolare “chiesa del politicamente corretto”.

La scelta è legittima, e gli incentivi sono evidenti: grande potenza di fuoco e copertura  mediatica, avversari (forse anche perché più fedeli a un’impostazione identitaria) divisi, litigiosi e spesso volgari…

Inoltre non è da sottovalutare l’effetto franchising: non c’è infatti nessuna necessità di elaborare un programma politico; è già lì, pronto per essere applicato. Il successo è garantito, grazie anche alla licenza di disprezzare e dequalificare a “impresentabile” chiunque dissenta. Il costo del “pacchetto” è solo uno, la fedeltà al programma: bianco o nero, pace o guerra, libertà o ordine, solidarietà o autodeterminazione… vale tutto purché conforme al programma generale.

A questo punto non sarebbe del tutto fuori luogo una lunga e noiosa riflessione, sull’inevitabile fallimento di un progressismo che ha rinunciato a stabilire verso cosa vogliamo progredire; e sul fatto, prevedibile, che qualcun altro ha colto l’occasione per stabilire la rotta al posto nostro. Ma per il momento ci basti prendere atto del fatto che se il Pd ha smesso di essere un partito di sinistra è perché ha rinunciato da tempo a rincorrere la stella di un qualsiasi valore, per rincorrere le stelle e le strisce di un asino americano.

 




Utile una federazione di tutto il centrodestra. Intervista a Luca Ricolfi

Si voterà nel 2023. Il sociologo Luca Ricolfi, studioso di sinistra fuori dal coro del conformismo anti destra, si è fatto un’idea precisa di come sta mutando il quadro politico dopo il Covid e sotto la guida di un governo di unità nazionale che ingloba tutte le forze politiche, tranne Fdi.

Professor Ricolfi, gli ultimi sondaggi indicano che la maggioranza degli italiani torna a fidarsi dei partiti dopo anni di “vaffa” e pulsioni anti casta. È un miracolo di Draghi?
A me sembrano i miracoli di tre anni di governi Cinque Stelle, che alla fine hanno aperto gli occhi un po’ a tutti. Certo, Draghi ha completato l’opera, ma il grosso del lavoro pro-partiti tradizionali l’avevano fatto i disastri dei grillini, dal reddito di cittadinanza allo sprofondamento di Roma sotto il regno di Virginia Raggi.

Le grandi manovre nel centrodestra sulla federazione Lega-Fi preludono a una semplificazione del quadro politico?
Forse sarebbe un bene, ma non mi pare probabile, a meno che la legge elettorale tagli le ali ai partiti sotto il 5%, e renda molto convenienti le aggregazioni. Sul piano tecnico, però, il punto è che una semplificazione è elettoralmente neutrale solo se avviene in entrambi i campi. Se a compattarsi fosse solo il centro-destra, i voti raccolti dal partito unico della destra sarebbero di meno della somma dei consensi ai singoli partiti. E comunque Fratelli d’Italia non ci starebbe: non dobbiamo dimenticare che, come racconta Giorgia Meloni nel suo libro, Fratelli d’Italia è nata precisamente dall’insoddisfazione per l’esperienza del Pdl. Il progetto di una Federazione di tutto il centro-destra è realistico e utile, quello di un partito unico a me pare irrealistico, e un tantino autolesionistico.

Berlusconi sogna un partito unico liberale entro il 2023. Sarebbe positivo il ritorno al grande bipolarismo, attuato in Italia fino alle elezioni del 2008, le ultime che espressero un premier indicato direttamente dagli elettori?
Sì, sarebbe positivo, ma non mi pare che dalla fusione Lega-Forza Italia possa nascere un partito liberale di massa. La Lega di liberale ha ben poco, ed è inevitabile che un eventuale nuovo partito assomigli più alla Lega che a Fi. Semmai quel che la fusione potrebbe portare con sé è una maggiore accettazione della Lega in Europa, a sua volta favorita da un graduale incivilimento del linguaggio (e dei programmi) di Salvini.

Anche il centrosinistra comincia a studiare l’opportunità di aggregazioni, a costo di ripescare il nemico interno Renzi. A quale tipo di contenitore possono arrivare insieme Pd, Italia viva, Leu e le altre formazioni minori?
Posso sbagliarmi, ma la mia impressione è che per il Pd sia molto più facile costruire un fronte anti-destre con la sinistra più massimalista e giustizialista (dai Cinque Stelle a Leu e dintorni) che con i cespugli riformisti, come Italia Viva, Azione, +Europa. Programmaticamente, Calenda mi sembra più vicino a Forza Italia che al Pd. E non sono sicuro che, se fosse costretto a scegliere, preferirebbe andare con un centro-sinistra grillizzato che con un centro-destra federato.

Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia stanno salendo nei consensi di settimana in settimana. Sono i benefici legati al ruolo solitario di opposizione o c’è un elettorato trasversale che si si sta spostando stabilmente all’ala destra?
Una delle poche previsioni elettorali azzeccate che ho fatto in vita mia è che Giorgia Meloni sarebbe arrivata al 20% dei consensi. La feci da Porro, a Quarta Repubblica, circa un anno e mezzo fa, subito prima del Covid. Quella previsione era basata su un’analisi dei programmi e delle proposte di Fdi, che da diversi anni mi appaiono più equilibrate di quelle della Lega (ad esempio in materia di tasse e mercato del lavoro), e più coraggiose di quelle di Fi (ad esempio in materia di immigrazione). Per me, in altre parole, il centro dello schieramento conservatore è Fdi, non certo la Lega. In breve, per venire alla sua domanda, credo che l’essere all’opposizione conti poco, e che a pesare sia il fatto di avere idee chiare (e stabili!) su parecchie cose.

Anche lei avverte la sensazione che l’anomalia dell’Italia tripolare possa scomparire per la continua perdita di consensi del Movimento 5 Stelle?
Sì, anzi direi che l’anomalia è già scomparsa, perché l’eventualità di un governo populista puro non c’è più, da quando Salvini ha smesso di digrignare i denti e il Movimento Cinque Stelle, per non scomparire, si è auto-ridefinito come una costola della sinistra.

C’è ancora spazio per l’ex premier Giuseppe Conte come leader politico dei 5 Stelle o di una formazione nuova?
Temo di sì, per quanto incredibile la circostanza appaia a chiunque conservi un minimo di capacità di giudizio. Conte è un personaggio come Chance, il giardiniere di Presenze (romanzo di Jerzy Kosinski), magistralmente interpretato da Peter Sellers nel film Oltre il giardino. Che sia stato preso sul serio per tre anni, e ancora sia l’interlocutore privilegiato del Pd è una circostanza che mi lascia senza parole.

Professore, si lanci in una previsione: quando si ritornerà a votare per il rinnovo del Parlamento? Nel 2022 dopo le elezioni per il Quirinale o alla scadenza naturale del 2023?
Non ho elementi concreti, ma solo sensazioni. La mia impressione è che il Pd farà di tutto per non anticipare le elezioni, che nel 2022 perderebbe, e per assicurarsi che al Quirinale salga, come di consueto, una personalità vicina alla sinistra (Mattarella-bis subito, poi si vedrà). Dunque: si voterà nel 2023.

Intervista rilasciata a Gabriele Barberis, Il Giornale, il 25 giugno 2021




Eretici e ortodossi

Le dimissioni di Zingaretti, di per sé, non sarebbero una notizia eclatante. Era un po’ di giorni che se ne parlava, e di motivi per dimettersi ve n’erano a sufficienza: sotto la sua guida il Pd aveva perso (ulteriormente) identità, oltreché – negli ultimi tempi – potere e consenso.

Quel che invece nessuno aveva previsto è il modo scelto dal segretario del Pd per scendere dal vascello di cui era il capitano: accusare la ciurma. A mia memoria è la prima volta che un capo di partito, ancora in carica, arriva a dire che si vergogna dei suoi compagni.

«Lo stillicidio non finisce. Mi vergogno che nel Pd da 20 giorni si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti».

Naturalmente, per chi studia i partiti con occhio distaccato, Zingaretti non ha detto nulla che non si sapesse perfettamente. La maggior parte dei partiti sono diventati macchine per permettere ai propri esponenti, di rango più o meno alto, di far carriera alle spalle di elettori e militanti più o meno ingenuamente idealisti. E questo vizio, contrariamente a quanto pensano i qualunquisti, non è né uniformemente distribuito fra i vari partiti, né una sorta di costante storica della forma-partito. Il Pd, per la profondità e capillarità della sua occupazione dei gangli del potere è macchina di autopromozione più di qualsiasi altro partito. E ho abbastanza anni ed esperienza per testimoniare che, a sinistra, non è stato sempre così: nel partito comunista, idealismo e abnegazione avevano un peso oggi inconcepibile.

In questo senso Zingaretti ha compiuto un gesto meritorio, una sorta di atto di verità. Che mette in chiaro una cosa sociologicamente ovvia, ma forse non chiara a tutti: oggi sono ben pochi i membri della casta politica prioritariamente “preoccupati per i problemi del paese”, e i giochi di palazzo, di corrente, di clan e tribù hanno la precedenza su tutto, specie nei partiti che più hanno dimestichezza con il potere nazionale e locale.

C’è però, forse, anche un’altra riflessione che la vicenda del Pd può suggerire. Sono molti ad osservare che questo partito ha completamente perso la bussola, rispetto al tempo in cui venne fondato (nel 2007). All’origine del Pd, luogo di incontro della tradizione comunista e di quella democristiana, c’era una visione del futuro dell’Italia piuttosto chiara e articolata, c’era un progetto di riformismo radicale, con alcuni pilastri come le riforme strutturali, la modernizzazione della Pubblica amministrazione, il cambiamento delle regole del gioco, la vocazione maggioritaria, la lotta alle diseguaglianze, i diritti umani, eccetera. Oggi tutto ciò pare quasi completamente scomparso, coperto e sostituito dal gioco delle correnti.

Possiamo leggere questa evaporazione del DNA riformista del Pd come un caso speciale di quel processo che, alla fine degli anni ’70, fu descritto da Francesco Alberoni in libri famosi come Movimento e istituzione e Innamoramento e amore. Al Pd, si potrebbe argomentare, è successo quel che succede ovunque, nella vita collettiva come in quella privata, quando un’onda di speranze, passioni, utopie allo stato nascente prima sfocia in un movimento, e poi si cristallizza in una realtà istituzionale, più o meno burocratica e compassata. In effetti quello di fondare anche in Italia un “partito democratico” ispirato al modello americano ebbe all’inizio alcune caratteristiche del sogno, poi lentamente evoluto in qualcosa di più prosaico e terrestre.

E si potrebbe proseguire lungo questa linea, osservando che – esattamente nel medesimo periodo (e cioè fra il 2007 e oggi) – una traiettoria analoga è stata seguita dal Movimento Cinque Stelle, passato dal sogno populista e anti-sistema del 2007 all’esperienza di governo dell’ultimo triennio, culminata nella trasformazione del movimento in un puro apparato di potere, completamente dimentico delle ragioni che lo fecero nascere.

C’è però anche un’altra chiave di lettura, che integra lo schema di Alberoni. Quando parliamo di un movimento politico – ma lo stesso sovente accade per i movimenti religiosi – esiste anche un’altra dialettica: la dialettica fra ortodossia ed eresia. Dal ceppo principale, può accadere che si distacchino frange eretiche, che ne contestano il modo di essere o di interpretare la realtà. Il punto interessante, però, è che talora la frangia che si distacca, pur venendo attaccata come eretica, si ponga invece come custode dell’ortodossia, quasi che i veri eretici siano i rappresentanti del ceppo principale, da cui la minoranza dissenziente sente il dovere di separarsi perché – nel passaggio dalla poesia delle origini alla prosa dell’oggi – il messaggio originario è stato appannato, contaminato o stravolto.

Se ci pensate è, per certi versi, quel che è successo quando l’ortodossia cattolica venne sfidata dall’eresia protestante, secondo cui la pratica della vendita delle indulgenze tradiva lo spirito originario del cristianesimo.  Ed è quel che succede nel mondo islamico, dove l’Islam radicale si autopercepisce come l’autentico interprete del Corano, che l’Islam moderato tradirebbe.

Ma è anche quel che sta succedendo con il Pd e il Movimento Cinque Stelle. Nel Pd il sogno riformista originario è quasi completamente dissolto, e sopravvive quasi esclusivamente nei transfughi di Azione (Calenda) e Italia Viva (Renzi). Nei Cinque Stelle il sogno originario è stato prima offuscato da un anno e mezzo di alleanza con il Pd, e poi polverizzato dall’istantanea adesione al governo Draghi, sicché quel messaggio sopravvive esclusivamente nei transfughi, più o meno organizzati: il gruppo L’Alternativa c’è, alla Camera, il gruppo Italia dei Valori al Senato, il partitino Italexit di Paragone, il battitore libero Di Battista fuori del Parlamento.

Ed ecco il paradosso. Almeno a sinistra, i due partiti principali sono entrambi OPM, organismi politicamente modificati, che hanno smarrito il loro DNA originario, mentre tracce di quel medesimo DNA è dato ritrovare solo nelle schegge più o meno impazzite che se ne distaccano proprio per preservarne i valori originari e fondativi. Il che significa: le scissioni odierne altro non sono che melanconici omaggi a ortodossie tradite, che ci ricordano che i veri eretici sono coloro che rimangono nel Pd e nei Cinque Stelle.

Non è la prima volta, nella storia, che qualcuno se ne va per salvare un patrimonio simbolico e ideale. Così fece Enea che, fuggendo da Troia, portò con sé il padre Anchise e i Penati, divinità domestiche sotto la cui protezione sorgerà Roma. Resta il dubbio che i politici transfughi, piccoli eroi moderni in fuga dai due partiti principali, si siano dati un compito forse nobile, ma ormai irrealizzabile.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 marzo 2021




Lettera a Renzi

Caro Renzi,

anche se non ci conosciamo, né ci siamo mai parlati a tu per tu, mi permetto di raccontarle che cosa passa per la testa di un ex-renziano come me.

Non sono mai stato iscritto a un partito, e meno che mai al Pd, di cui non mi sono mai piaciuti l’attaccamento al potere e l’ostinato convincimento di rappresentare “la parte migliore del paese”.

E tuttavia, quando lei di quel partito cercò di rinnovare la sostanza e il linguaggio, ho fatto una cosa per me del tutto innaturale, ma che allora mi sembrò utile: ho fatto la coda alle primarie, per votare lei, che mi pareva l’unico in grado di modernizzare la cultura politica del campo progressista, di cui mi sono sempre sentito parte.

Poi l’ho vista in azione al governo, e l’ho vista far naufragare il suo stesso progetto di riforma istituzionale. Ho cominciato a pensare che mi ero sbagliato, e che le mie speranze erano state mal riposte. Ma il colpo di grazia è arrivato nel 2019, quando lei si fece promotore della più spregiudicata manovra parlamentare della storia repubblicana: la nascita del governo giallo-rosso.

Attenzione, però. La spregiudicatezza di quella manovra, per me, non risiedeva nel fatto che l’unico collante del nuovo governo fosse il terrore del voto (per i Cinque Stelle) e l’amore per il potere (per il Pd). E nemmeno nel fatto che lei promuoveva un’alleanza, quella con il partito di Grillo, che fino ad allora aveva escluso, e che inevitabilmente avrebbe snaturato il suo Pd, spegnendone ogni residua vocazione riformista e modernizzatrice.

No, per me la spregiudicatezza sta nella giustificazione che di quella manovra lei volle dare. Allora lei si oppose strenuamente alle elezioni anticipate soprattutto con un argomento, ovvero il rischio che Salvini potesse assumere “i pieni poteri”. Di fronte a quel rischio si poteva, anzi si doveva, anche digerire il rospo-cinque Stelle.

Ebbene, quella giustificazione non sta in piedi. Quella giustificazione è solo il frutto di una consapevole e non scusabile manipolazione della realtà, o meglio delle parole altrui.

La terribile invocazione dei pieni poteri è la seguente:

“Non sono nato per scaldare le poltrone. Chiedo agli italiani, se ne hanno voglia, di darmi pieni poteri. Siamo in democrazia, chi sceglie Salvini sa cosa sceglie”.

Credo che chiunque non sia accecato dall’odio o dall’ideologia sa riconoscere, in una dichiarazione del genere, quel che è sempre stato il sogno irrealizzato di tuti i grandi partiti, o meglio di tutti i partiti di maggioranza relativa: avere il 51% dei seggi parlamentari, per poter realizzare il programma su cui hanno chiesto il voto ai cittadini.

Era stato il sogno della Dc di De Gasperi (ai tempi della cosiddetta legge truffa: 1953), è stato il sogno di Berlusconi, quando i “cespugli” del centro-destra gli impedivano di attuare la “rivoluzione liberale” promessa. Ma è stato anche il sogno del Pd, quando Veltroni parlava di “vocazione maggioritaria” e sognava una legge elettorale capace di individuare un vincitore. Ed è stato pure il sogno di Renzi, quando guidava un partito del 41%, e diceva che non importava quale legge elettorale si fosse scelta, purché la sera delle elezioni si sapesse chi aveva vinto.

Perché dunque quel che tanti leader avevano chiesto non poteva essere chiesto da Salvini?

Per questa domanda ci sono una serie di risposte ideologiche pronte, precotte e premasticate: perché Salvini ci avrebbe portati fuori dall’euro; perché Salvini avrebbe aumentato l’Iva; perché Salvini avrebbe instaurato una dittatura, o una quasi-dittatura (se no, perché temere i pieni poteri?).

Ma la risposta vera, secondo me, è un’altra, ed è drammatica: la sinistra, il campo progressista, ancora oggi (anno di grazia 2021) non ha raggiunto la maturità democratica. Che consiste nel trattare l’avversario politico come avversario, e non come nemico della democrazia. Nel considerare sé stessi come portatori di un progetto politico, anziché come depositari esclusivi del bene comune. Nella fiducia di poter combattere gli avversari con la forza delle idee, anziché cercando ogni volta di evitare il ricorso alle urne, quasi che noi progressisti, le molte idee di Salvini che non condividiamo, non fossimo in grado di sconfiggerle in campo aperto.

Ci aveva provato un po’ Veltroni, a rispettare l’avversario, ma non ce l’ha fatta nemmeno lui a cambiare il Dna del Pd. Anche per responsabilità della cosiddetta società civile che – attraverso  appelli, girotondi e sardine varie – ha ritenuto di dover gridare al pericolo per la democrazia ogni qualvolta all’orizzonte si è profilato il rischio che a vincere non fossimo noi, i “sinceri democratici”, unici interpreti degli interessi generali del paese, unico presidio contro le tentazioni autoritarie della destra.

Ora lei, caro Renzi, da qualche mese viene piagnucolando che quota 100 è una follia, il reddito di cittadinanza un obbrobrio, l’azione del governo inesistente, i progetti di utilizzo dei fondi europei imbarazzanti, l’economia allo sbando, la gestione dell’epidemia catastrofica, lo stile di governo improntato a vanità e spregio delle istituzioni. E mille altre cose ripete, per lo più sacrosante, e per cui si è deciso ad aprire una crisi di governo.

Ma io le faccio un’unica domanda: non lo sapeva, quando ha bussato alla porta di Zingaretti per proporre il patto incestuoso con i Cinque Stelle, che così avrebbe dissolto in un colpo solo il progetto da cui il Partito democratico era nato, e di cui lei era diventato l’interprete più brillante e coraggioso?

Non so perché, un anno e mezzo fa, lei si decise a ingoiare il rospo, e a ingoiarlo ancora vivo e vegeto. Capisco che le sia rimasto sullo stomaco, e non l’abbia digerito ancora oggi. Ma quando lei denuncia i limiti dell’azione di governo sta solo constatando una verità ovvia, che pare stupire solo lei: i Cinque Stelle sono i Cinque Stelle, e quindi fanno i Cinque Stelle. Come direbbe Gertrude Stein: una rosa è una rosa è una rosa è una rosa.

Che cosa si aspettava? Che il Pd rieducasse i cinque Stelle? Che nell’alleanza fra un partito non ancora pienamente riformista come il Pd e un partito populista e giustizialista come il partito di Grillo sarebbe stato il mite Zingaretti a prevalere? O che bastasse Italia viva a rieducare entrambi?

La realtà, temo, è che in Italia il sogno di una sinistra riformista – egualitaria e modernizzatrice – è tramontato definitivamente. Lei, è il momento di prenderne atto, a questo tramonto ha dato un contributo significativo. Ed è tristemente emblematico che i giorni di questa crisi, che hanno visto il trionfo del trasformismo e l’umiliazione di quel che resta del riformismo progressista, siano gli stessi in cui Emanuele Macaluso, il più coerente e sincero dei riformisti, ci ha lasciato per sempre. Quasi a segnare, con questa coincidenza di tempi, il passaggio di testimone fra due mondi e due epoche.

Peccato. Perché quel sogno aveva un senso, e alcuni di noi ci avevano creduto e lavorato. Ora tutto è più difficile, e addolora il fatto che a seppellire quel sogno sia stato proprio chi, di quel sogno, era stato l’ultimo e più incisivo interprete.

Pubblicato su Il Messaggero del 22 gennaio 2021




La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale