Decreto dignità?

Non so se sia vero che nella predisposizione del “decreto dignità” abbia avuto un ruolo significativo la Cgil. Certo l’ipotesi non è inverosimile, vista l’impostazione del decreto nella parte che riguarda il mercato del lavoro. Non entro qui nei dettagli (lo ha già fatto ottimamente ieri (3 luglio ndr) Oscar Giannino su questo giornale), se non per ricordare che il decreto rende la vita più dura alle imprese sia sotto il profilo dei costi sia sotto quello della flessibilità. E infatti il governo è stato sommerso dalle proteste delle associazioni delle imprese, comprese quelle piccole che il partito di Di Maio tanto aveva corteggiato in campagna elettorale.

L’impressione è che il Movimento Cinque Stelle, recuperando alcune idee della sinistra dura e pura, stia cercando di allargare il proprio consenso verso l’elettorato progressista, sottraendo consensi sia a Leu sia al Pd, i cui elettori non sono tutti entusiasti del Jobs Act. Del resto un certo collateralismo fra una parte del mondo sindacale e i Cinque Stelle non è una novità di oggi, sia a livello locale sia a livello nazionale. Quali che siano le intenzioni dei Cinque Stelle, sta di fatto che il Pd è stato preso in contropiede dall’iniziativa di Di Maio, come si vede bene dalle prime dichiarazioni, che oscillano fra la drammatizzazione (il decreto “farà diminuire l’occupazione ovunque”) e la minimizzazione (il decreto “non cambia niente”, perché “l’impianto del Jobs Act non viene neanche scalfito”).

Come spesso accade, credo che la verità stia nel mezzo. Dire, come ha fatto il capo dei Cinque Stelle, che il decreto dignità è “la Waterloo del precariato” è semplicemente ridicolo. Il precariato in Italia è fatto di circa 6 milioni di posti di lavoro, abbastanza equamente suddivisi fra 3 milioni di regolari (quelli contro cui combatte il “decreto dignità”) e altri 3 milioni in nero (quelli di cui nessuno intende occuparsi). E’ ragionevole pensare che il principale effetto del decreto sarà un aumento della quota in nero del lavoro precario, piuttosto che l’inizio di una serie di trasformazioni di posti a tempo determinato in posti stabili. Quanto alla ventilata diminuzione dell’occupazione, anch’essa mi pare un’esagerazione: la crescita dei posti di lavoro rallenterà un po’, ma se si fermerà sarà per altri motivi, non certo a causa del decreto dignità.

Quel che mi colpisce, tuttavia, non è tanto l’apparente ingenuità della promessa di sconfiggere il precariato, quanto la diagnosi che sembra star dietro le prime mosse del governo in materia economica. L’idea che 3 milioni di posti di lavoro a tempo determinato ma regolari, pari al 17% degli occupati dipendenti, siano un dramma, un’anomalia assoluta, o addirittura la priorità fondamentale in campo economico-sociale, è piuttosto bizzarra. Se si dà un’occhiata alla situazione nell’Unione Europea si vede che non è certo il precariato il nostro problema: la nostra posizione in graduatoria è a centro classifica, facciamo peggio di Germania e Regno Unito, ma meglio di Francia e Spagna, giusto per stare ai quattro grandi paesi con cui di solito si fanno le comparazioni. Il nostro vero problema, semmai, è il numero di posti di lavoro, specie nella componente giovanile: fra i paesi Europei solo la Grecia ha un tasso di occupazione totale più basso del nostro.

Ma c’è anche un altro aspetto che lascia perplessi nella filosofia del decreto dignità. Il pugno duro contro i contratti a termine pare ignorare un aspetto cruciale del funzionamento del mercato del lavoro in Italia, ovvero il fatto che la percentuale di posti di lavoro regolari ma a termine (oggi vicina al 17%) si muove in sincronia con il ciclo economico: quando l’economia tira aumenta il peso dei contratti temporanei, quando l’economia va male aumenta il peso dei contratti stabili. Un aumento del tasso di occupazione a termine può non piacerci, ma è anche il segno di un’economia che cresce, mentre un aumento del tasso di occupazione stabile può rallegrarci, ma è anche il segno che il ciclo economico sta perdendo colpi: nella grande recessione del 2008-2009 il tasso di occupazione precaria era in diminuzione, ma non era certo una buona notizia. Da questo punto di vista l’attuale impetuoso aumento del numero di posti di lavoro a termine andrebbe, quantomeno, guardato come una moneta a due facce, negativa sul versante delle tutele, ma positiva su quello dei livelli occupazionali.

Tornando al punto centrale, ovvero gli effetti prevedibili del decreto dignità, credo che essi saranno essenzialmente tre. Il primo, ovvio per chi guarda il mercato del lavoro senza lenti ideologiche, è di rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Il secondo effetto è di convincere le autorità Europee che l’Italia è entrata in un’era di contro-riforme, e quindi non merita ulteriori concessioni sul versante della flessibilità di bilancio (da questo punto di vista enfatizzare l’entità della retromarcia sul Jobs Act è semplicemente autolesionistico).

Il terzo effetto è più sottile, ma non meno importante. Se questo decreto indica la strada che si intende percorrere anche in futuro, dobbiamo aspettarci che il mito del reddito di cittadinanza finisca per rivelarsi una sorta di profezia che si autorealizza. A forza di misure che, in nome dei diritti dei lavoratori, mettono sabbia negli ingranaggi dell’economia, la formazione di posti di lavoro potrebbe prima rallentare e poi diventare negativa, e così convincere gli elettori che l’unica strada sia il reddito di cittadinanza: in un paese in cui il lavoro non c’è, non resta che dare un reddito a tutti, che lavorino o no.

Ecco perché ci andrei piano, con l’espressione “decreto dignità”: in Italia c’è ancora moltissima gente che un reddito preferirebbe guadagnarselo, piuttosto che ricevere un sussidio grazie alla benevolenza del Principe.




I due elettorati del nuovo governo

Dopo il “contratto di governo” tra Movimento 5 stelle e Lega, e l’avvio nel giugno 2018 di quella inedita collaborazione, gli analisti hanno cercato di comprendere se e quanto le due forze politiche protagoniste dell’intesa avessero decisivi elementi in comune, dal punto di vista del programma e delle scelte politiche che intendevano effettuare in questo loro primo cammino comune. Elementi che, se presenti, potessero effettivamente prefigurare la formazione di un’alleanza più stabile, al di là delle esigenze più contingenti di dotare il nostro paese di un esecutivo dotato di una forte maggioranza parlamentare, e potesse dunque durare nel tempo, prendendo la forma di una proposta politica unitaria.

All’indomani della consultazione elettorale del 2018, era stato sottolineato come il bipolarismo M5s-Lega avrebbe potuto divenire una originale frattura politica: da una parte una nuova destra “sociale”, che cerca di porre un freno, almeno contingente, a mutamenti epocali, che non possono peraltro essere fermati con qualche provvedimento estemporaneo; dall’altra un movimento di “cittadini”, che si presenta quasi come una sommatoria di proposte mono-tematiche, aliena nel contempo di un progetto complessivo di società, di nuove regole economiche e di welfare. Sarà questa la contrapposizione futura del nostro paese, si chiedevano in molti? o non assisteremo al contrario a ciò che numerosi commentatori ipotizzano, vale a dire una frattura elettorale tra i cosiddetti “sovranisti” e gli “europeisti”? Una netta contrapposizione cioè tra partiti che credono (ancora) nelle capacità di una Unione Europea di farsi interprete delle politiche economiche e sociali del vecchio continente, da una parte, e partiti o movimenti che tendono a rivalutare l’alveo nazionale, senza farsi troppo condizionare dai dettati della Banca Centrale Europea e della stessa UE, dall’altra.

L’avvio del nuovo governo M5s-Lega, varato pur tra molte difficoltà tre mesi dopo le elezioni, darebbe per il momento ragione alla seconda ipotesi, in attesa di comprendere l’evoluzione del quadro politico e della politica delle alleanze future, o degli intenti comuni, a partire già dal prossimo importante appuntamento elettorale, le europee del 2019.

Al di là del “contratto di governo” stipulato tra i vertici dei partiti, è interessante interrogarsi sul livello di vicinanza o di lontananza tra i loro rispettivi elettorati. Vediamo innanzitutto come viene giudicato l’attuale partner di governo. Occorre sottolineare che i dati si riferiscono a indagini compiute da Ipsos durante gli ultimi tre mesi di campagna elettorale, quando cioè gli accordi tra le due forze di governo attuale erano difficilmente pronosticabili. In generale, valutazioni positive sugli altri partiti vengono espresse solamente dal 5% dei pentastellati (oltre 10 punti in meno della media nazionale, già molto bassa). L’unico che riscuote un buon successo è proprio la Lega, giudicata favorevolmente da oltre un terzo degli elettori 5 stelle. È questa peraltro la più rilevante trasformazione intercorsa tra il 2013 ed il 2018: il differente appeal leghista tra i votanti del M5s, che cinque anni prima giudicavano al contrario il partito – allora di Maroni – in maniera non dissimile da quello di Berlusconi, individuando nelle due principali forze politiche di centro-destra una forte comunità di intenti. È probabile che l’avvento del nuovo segretario leghista Matteo Salvini, con l’abbandono dell’enfasi nordista e le sue parole d’ordine maggiormente pragmatiche e meno “ideologiche”, abbiano prodotto un effetto positivo anche nelle opinioni di una parte molto significativa degli elettori pentastellati. La stessa (limitata) positività si riscontra anche per l’elettorato leghista, tra cui il M5s ottiene valutazioni comunque egregie, considerando che era il principale nemico da battere nelle imminenti elezioni, di poco inferiori al giudizio sull’alleato di Forza Italia.

Esistono poi alcune sotterranee sintonie tra i due elettorati, al di là delle evidenti differenziazioni territoriali e, di conseguenza, dell’enfasi delle proposte politiche che hanno come differenti bacini elettorali di riferimento. Tra queste, sono sicuramente le più indicative il tipo di rapporto con l’Unione Europea e la moneta unica; l’interesse per le fasce relativamente più deboli della popolazione, declinate nelle forme più consone alle aree geografiche di riferimento; l’alterità nei confronti dei presunti “poteri forti” ai quali il popolo, e con loro i loro rappresentanti, dovrebbe apertamente ribellarsi. Accanto a queste, ci sono però importanti tematiche che allontano in maniera significata i rispettivi elettorati, e che sottolineano l’impossibilità di attribuire facili valutazioni di stampo “populista” a coloro che hanno scelto il Movimento 5 stelle.

Sono nello specifico gli atteggiamenti nei confronti dei diritti civili, della pena di morte e, in parte, dell’immigrazione che differenziano l’elettorato pentastellato in particolare da quello della Lega, ma in generale anche dalle opinioni medie della popolazione nel suo complesso, il che getta una luce forse inedita sulla diffusa percezione della natura dei votanti 5 stelle. Se non tutte, sono diverse le “anime” che popolano i 5 stelle ad essere attente alla modernizzazione della società in senso più liberal; occorre sottolineare come sia parzialmente errato guardare a questo nuovo movimento politico come si trattasse di un “blocco” elettorale unico e compatto, e non invece composto da diversi tipi di cittadini, alcuni più progressisti accanto ad altri certamente più conservatori.

I diritti per le coppie di fatto devono essere identiche a quelle sposate per quasi l’85% degli elettori a 5 stelle (10 punti in più della media della popolazione italiana e ben 15 in più rispetto ai leghisti); la pena di morte per i crimini più gravi è accettabile soltanto dal 45% dei pentastellati (5 punti in meno della popolazione e 20 in meno dei leghisti); la loro opinione infine sugli eccessivi livelli di immigrazione non si discosta da quella degli italiani (70%), ma è inferiore di ben 20 punti rispetto all’elettorato che ha votato Lega.

Difficile ipotizzare se nel futuro questo tipo di alleanza possa durare, o si andrà incontro al contrario a decisive contrapposizioni su alcune politiche non del tutto condivise (quanto meno dai rispettivi elettorati) come ad esempio quelle più sopra citate relative ai diritti civili. Quello che è certo è che numerose sono le basi per una possibile convergenza, magari limitata nel tempo, pur accanto a temi che evidenziano alcune differenze di fondo tra i votanti leghisti e pentastellati. Forse, l’elemento maggiormente dirimente è proprio la diffusa volontà di cambiamenti importanti e decisivi nella gestione della cosa pubblica, con una netta cesura con le esperienze dei governi passati e con le tradizionali forze politiche, che accomunava Lega e M5s già al momento del voto.

* Una versione ridotta di questo articolo è uscita il 3 giugno sul sito de “Gli Stati Generali”



L’alibi dei vincoli europei

Finora, in Europa occidentale, si era visto un solo governo populista puro, quello greco rosso-nero guidato da Tsipras, un governo di coalizione fra il principale partito di sinistra (Syriza) e un piccolo partito nazionalista e conservatore (Anel). Ora anche l’Italia ci prova: salvo imprevisti, nei prossimi giorni si insedierà un governo populista giallo-verde che, come primi “assaggi” di sé stesso, ha già dato segnali del proprio convinto anti-europeismo.

In buona sostanza: in Italia facciamo quel che ci pare, e dei vincoli europei su debito e deficit ben poco ci importa. C’è stata l’austerità fino ad oggi, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, è giunto il momento di cambiare rotta. Salvini si è spinto a dire, in polemica con il ministro francese dell’economia che aveva richiamato l’Italia al rispetto degli impegni assunti, che il nuovo governo avrebbe fatto semplicemente il contrario dei governi precedenti.

Sul rapporto con l’Europa la si può pensare in tanti modi, però – comunque la si pensi – forse una domanda dovremmo farcela: il rispetto dei vincoli europei, giusti o sbagliati che siano, è davvero il macigno che impedisce all’Italia di ripartire?

Oggi la polemica anti-europea sta diventando il biglietto da visita del nuovo governo, il cui unico vero colore politico è di non essere di sinistra, però non possiamo dimenticare alcuni fatti storici. Il 17 ottobre 2002, stiamo quindi parlando di sedici anni fa, fu lo stesso Prodi – allora presidente della Commissione europea – a definire “stupido” il patto di stabilità, un parere ribadito nel 2014, poche settimane dopo la nascita del governo Renzi. Quanto a quest’ultimo, ci ricordiamo tutti che i suoi tre anni di governo sono stati spesi a battagliare contro le regole europee, e a deridere i burocrati europei e le loro fissazioni sui decimali (del rapporto deficit-Pil). Né possiamo dimenticare che la critica delle politiche di austerità, e l’invocazione continua di investimenti pubblici anche in deroga ai vincoli di bilancio, è il leitmotiv dell’estrema sinistra in tutta Europa.

Quindi la prima cosa che vorrei dire, a chi è sbigottito di fronte all’assalto dell’ircocervo populista contro le regole europee, che se Salvini e Di Maio si muovono agevolmente sul terreno dell’antieuropeismo è perché quel terreno è stato a lungo dissodato, concimato e innaffiato dalla sinistra stessa. Ciò detto, tuttavia, la domanda resta: sono le regole europee che ci impediscono di uscire dal pantano?

Per certi versi senz’altro. Se sull’immigrazione un paese geograficamente esposto non può fare molto è anche a causa delle regole europee, peraltro liberamente sottoscritte, e qualche volta anche caldeggiate. Se il mercato europeo è troppo regolamentato all’interno, con conseguente lievitazione dei costi per le imprese, e troppo aperto verso l’esterno, senza validi strumenti di difesa nei confronti delle importazioni (e delle merci contraffatte) dalla Cina e dai paesi emergenti, sicuramente una notevole responsabilità ce l’ha l’Europa.

Per altri versi, però, no. L’Europa c’entra poco. Chi racconta che abbiamo avuto 10 anni di austerità, e che è ora di cambiare strada, non sa di che cosa parla. Se avessimo davvero avuto 10 anni di austerità, saremmo riusciti a ridurre non dico l’ammontare del debito, ma almeno il rapporto debito-Pil. Il fatto è che si continua a confondere due cose nettamente distinte: la capacità di un paese di risanare i conti pubblici, con politiche che possono essere di austerità “buona” (meno spesa pubblica) o di austerità “cattiva” (più tasse), e il cambiamento delle condizioni di vita dei suoi cittadini, che quando peggiorano fanno gridare all’austerità, ma che sono tutt’altra cosa.

Il fatto è che, nei sette anni della crisi (da 2007 al 2014), l’Italia è riuscita nella duplice impresa di non risanare i conti pubblici, e al tempo stesso non far recuperare ai cittadini il tenore di vita pre-crisi. Di qui il cortocircuito logico: dato che stiamo peggio, ci raccontiamo che sono stati anni di austerità.

La realtà, purtroppo, è che le regole europee spiegano forse perché i paesi dell’Eurozona crescono un po’ meno degli altri paesi dell’Unione, o perché l’Europa nel suo insieme cresce meno del resto del mondo, o cresce meno degli Stati Uniti, ma non possono spiegare – proprio perché sono regole comuni – come mai certi paesi europei crescono a ritmi accettabili e altri, come l’Italia, la Grecia o la Finlandia, invece ristagnano. Soprattutto non spiegano perché l’Italia, in questi gloriosi anni renziani, sia scivolata all’ultimo posto come tasso di crescita del Pil, e al penultimo come tasso di occupazione.

Perciò, è vero: con altre regole potremmo (forse) crescere un po’ di più, ma non raccontiamoci che il vero ostacolo alla crescita dell’economia italiana è l’Europa. No, sfortunatamente se l’Italia cresce di meno degli altri paesi europei è solo perché ha fatto ben poco di quel che avrebbe dovuto fare per ridare fiato all’economia e risanare il bilancio pubblico, non certo perché la cattiva Europa non le ha permesso di spendere in deficit quanto le sarebbe piaciuto.

E’ questo, purtroppo, l’equivoco su cui il nascente governo giallo-verde sembra intenzionato a puntare molte delle sue carte.

Articolo pubblicato da Panorama il 24 maggio 2018



Il partito pigliatutto è morto, ma i grillini lo sanno?

Può anche darsi che questa sia la volta buona. Buona non già nel senso che entro uno o due giorni avremo un governo Lega-Cinque Stelle (esito sulla cui bontà le opinioni divergono), ma nel senso che non dovremo più assistere all’ennesima richiesta al Presidente della Repubblica di “ancora qualche ora”, “ancora qualche giorno”, “ancora una settimana”. Se le cose andranno come hanno promesso, lunedì Salvini e Di Maio, esauriti i riti delle consultazioni delle rispettive basi, si decideranno a dire al Capo dello Stato se intendono fare un governo insieme o se avevano scherzato.

Non vorrei essere nei panni di Mattarella. Egli si troverà infatti, di fronte a due anomalie. La prima è di dover nominare un presidente del Consiglio che, anziché scegliere i ministri e mettere a punto un programma di governo, si dovrà semplicemente limitare a recepire quello che hanno deciso due capi-partito; con quale autorevolezza un presidente del Consiglio così insignito possa guidare il Paese e difendere gli interessi italiani in Europa è facile immaginare. La seconda anomalia è che nel programma mancano del tutto indicazioni chiare sulle coperture dei molti e assai costosi provvedimenti annunciati, il che rende il programma semplicemente non giudicabile. Nessuno può essere ragionevolmente contrario alla riduzione delle tasse, o a dare un sussidio ai disoccupati, o a godere di più anni di pensione: la domanda, però, è a scapito di chi, visto che le risorse non piovono dal cielo.

C’è poi naturalmente il secondo scenario. Fra oggi e lunedì Salvini potrebbe convincersi che per la Lega è preferibile tornare al voto (i sondaggi danno il centro-destra al 40%, ovvero in grado di governare da solo). Oppure potrebbe succedere che programma, presidente del Consiglio e nomi dei ministri non passino il vaglio del Presidente della Repubblica, e che Mattarella decida di usare i poteri (e la crescente popolarità) di cui dispone per riportare il Paese alle urne.

Comunque vada, però, c’è almeno una cosa di cui, forse, dovremmo cominciare a prendere atto: in questi tre mesi il sistema politico italiano è cambiato profondamente, e per certi aspetti in modo irreversibile. Prima del voto si poteva ancora pensare che, fondamentalmente, il sistema politico fosse diventato tripolare: centro-destra, centro-sinistra, Cinque Stelle. I cinque Stelle erano riusciti, unico caso significativo in Europa, a mantenere una sorta di equidistanza fra destra e sinistra. Una equidistanza, o irriducibilità, che quasi tutti i partiti populisti rivendicano, ma che altrove non impedisce agli elettori di percepirli abbastanza chiaramente su uno dei due versanti politici fondamentali: i francesi pensano che il Front National di Marin Le Pen stia a destra, qualsiasi cosa ne pensi lei; spagnoli e greci pensano che Podemos e Syriza stiano a sinistra, per quanti sforzi leader come Iglesias e Tsipras facciano per sottolineare la loro assoluta novità e distanza dalla sinistra classica. In Italia no, in Italia Grillo è riuscito nel miracolo di costruire una formazione politica in cui potesse specchiarsi e identificarsi chiunque, quale che fosse la propria matrice ideologica o culturale.

Il movimento Cinque Stelle ha funzionato, finora, come il test di Rorschach. Così come, nelle macchie volutamente ambigue del test, ogni paziente può vedere cose diverse, e finisce per proiettare le proprie ansie e i propri sogni, così nel movimento di Grillo ogni elettore ha visto cose diverse, spesso proiettando i propri desideri. E’ così potuto accadere che in esso, oltre a qualunquisti, arrabbiati, idealisti, si siano identificate persone genuinamente di destra o di sinistra, semplicemente deluse (come dar loro torto?) dalla destra e dalla sinistra ufficiali, e speranzose che nel movimento di Grillo le proprie idee potessero, finalmente, trovare l’ascolto che meritavano.

Ora non più: dopo quel che è successo in questi 75 giorni, il Movimento Cinque Stelle non potrà mai più essere visto come prima, ovvero come un oggetto simbolico su cui chiunque può proiettare una buona parte di sé stesso. L’immagine di purezza e di neutralità si è dissolta quando Di Maio ha dichiarato esplicitamente di essere disposto sia a un governo con la Lega, sia a un governo con il Pd: da quel momento l’elettore sa che il voto ai Cinque Stelle potrà essere giocato su due tavoli che, in molti, continuiamo a percepire come alquanto diversi, se non opposti. L’immagine di sinistra si è dissolta quando, fallito l’accordo con il Pd (ed eventualmente con Leu), Di Maio si è rivolto risolutamente a Salvini e alla Lega, gettando nella costernazione quanti, intellettuali e comuni cittadini, avevano creduto (o voluto credere?) che, in fondo, i Cinque stelle altro non fossero che una sinistra più pura, meno compromessa con il potere, meno “serva di Berlusconi”.

Visti da questa angolatura, i 75 giorni che ci separano dal voto non sono passati invano. In essi, infatti, sono naufragate due eventualità che, ancora poche settimane fa, erano perfettamente aperte. La prima è la nascita di una sinistra di tipo nuovo, egemonizzata dai Cinque Stelle, con il Pd in posizione subalterna. La seconda è la sopravvivenza del tripolarismo, grazie alla natura ambivalente del grillismo.

Oggi un’alleanza Cinque Stelle-Pd è resa inconcepibile dal peccato originale dell’alleanza con Salvini, che a sinistra si continua a concepire come il diavolo. Ma altrettanto problematica è la sopravvivenza del tripolarismo: alle prossime elezioni i Cinque Stelle, proprio perché si sono mostrati disponibili ad ogni alleanza pur di conquistare il governo, non potranno più sottrarsi alla domanda: ma se ti do il voto, come lo userai? il mio voto al Movimento è un voto regalato alla destra o alla sinistra?

Certo, per metabolizzare fino in fondo quel che è successo, ci vorrà un po’ di tempo. Ma tutto fa pensare che, in caso di elezioni, nulla potrà essere come prima. Il Movimento Cinque Stelle manterrà una sua forza, specie nel Mezzogiorno, ma non potrà più calamitare come in passato gli elettorati di destra e di sinistra. Chi si sente di destra non potrà fidarsi granché di una forza politica che mette sullo stesso piano la Lega e il Pd. Chi si sente di sinistra non potrà continuare a vedere il movimento Cinque Stelle come una sorta di sinistra più sanguigna e più popolare.

Di qui, a mio parere, una certa asimmetria fra i destini delle due forze più moderate e meno anti-europee, ovvero Forza Italia e Pd. Con una destra solidamente seduta sul 40% dei consensi, ma ben poco propensa a rinnovarsi, la quota di Forza Italia dipenderà essenzialmente da come andrà l’avventura di Salvini, i cui voti potrebbero aumentare in caso di successo, e rifluire parzialmente su Forza Italia in caso di insuccesso. Quanto al Pd, è difficile non pensare che una parte dell’elettorato che ha scommesso “da sinistra” sui Cinque Stelle finisca per ritornare all’ovile, o per rifugiarsi nel non voto. Sempre che, a sinistra, non nasca qualcosa di nuovo e di diverso, che non sia il solito cartello di vecchie glorie.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 19 maggio 2018



L’Italia del dopo voto, intervista a Luca Ricolfi

Doveva nascere la terza repubblica e sembriamo tornati alla prima?

Non direi, nella prima non c’erano tre poli, ma un polo e mezzo (Pentapartito e PCI, con divieto di andare al governo).

Si intravede la possibilità di un governo di transizione con tutti dentro tranne il M5s, che ne pensa?

Che sarebbe un regalo ai Cinque Stelle.

Quali le urgenze da risolvere per questo nuovo esecutivo?

Produttività e occupazione, ovvero tornare a una crescita annua del 2-3%.

Che legge elettorale ci vorrebbe?

Tutto sommato, la meno peggio forse sarebbe una legge a turno unico, in cui la coalizione che prende più voti ottiene almeno il 51% dei seggi. Però qualsiasi legge elettorale, per funzionare bene, dovrebbe abolire il Senato, o quanto meno consentire un riparto dei seggi senatoriali su base nazionale, anziché regionale.

In alte parole: una legge elettorale decente non si può fare se prima non si ritocca la Costituzione. Su questo Renzi ha ragioni da vendere.

Ma quando si vota secondo lei?

Non lo so, ma penso che molto dipenda dal duo Salvini-Di Maio.

Perché l’accordo M5s-centrodestra non ha funzionato?

Perché Di Maio, come buona parte del popolo di sinistra, ritiene che Berlusconi sia radioattivo.

Si è palesato anche un esecutivo M5s-Pd e lei ha detto che si rischiava la secessione?

Non la secessione, che è ovviamente impossibile, ma un ritorno di spinte secessioniste, specie sul piano fiscale. E dato che i ceti produttivi stanno non solo al Nord ma anche nelle cosiddette regioni rosse, dove danno ancora il loro voto al Pd, mi aspetto che la risposta a un governo di “sinistra qualunquista” (quale io considererei un esecutivo Pd-Cinque Stelle) potrebbe vedere in piazza non solo il centro-destra ma anche quella parte del Pd che non vuole veder nascere un governo neo-assistenziale.

Cosa pensa del ritorno di Renzi?

Su Renzi sono ambivalente. Per certi versi continuo a non apprezzare la presunzione, il semplicismo, la mancanza di autocritica, nonché numerose scelte passate, come l’accoglienza indiscriminata, il bonus da 80 euro e le altre mance. Per altri versi, mi pare che, con pochissime eccezioni, il gruppo dirigente del Pd sia di levatura così modesta che persino un leader che, come Renzi, ha evidenti limiti di carattere e di comprensione della realtà, finisce per apparire come un gigante. Al momento, l’unico che mi pare aver qualche chance di risollevare le sorti del partito mi pare Matteo Richetti, su cui però so troppo poco per poter esprimere un’opinione meditata.

Quanto all’eventuale ritorno di Renzi credo sia prematuro. Se tornasse ora, ci sarebbe una mezza rivolta nel partito. Secondo me Renzi può tornare sulla scena solo in due modi: facendo un suo partito, o aspettando che il Pd, divorato dalle lotte intestine, lo richiami come salvatore della patria (un po’ come accadde a Veltroni anni fa, ma il precedente dovrebbe consigliare prudenza).

Il Pd è morto o solo tramortito? Che strada dovrebbe prendere e con chi?

Sicuramente è tramortito, ma molto difficilmente morirà in fretta. Sulla strada da prendere, molto dipende dagli obiettivi. Per conservare il potere, la strada maestra è una alleanza stabile con i Cinque Stelle: potrebbero aspirare al ruolo di “secondo partito della sinistra”.

Per conservare l’identità, invece, dovrebbero rinnovarsi molto, trovando il coraggio di cambiarla questa benedetta identità di sinistra. Per fare questo, però, ci vorrebbe un certo coraggio, perché al giorno d’oggi non è possibile né riproporre i modelli del passato remoto (come fanno i dinosauri di Leu), né i modelli del passato prossimo (la “Terza via” di Tony Blair). Fra il tempo della Terza via e oggi, infatti, ci sono state la Cina, internet, la crisi economica, l’esplosione dei flussi migratori, i progressi dell’automazione. Se non sa fare i conti con queste cose, la sinistra è morta.

E il centrodestra a trazione Salvini come lo vede?

Lo vedo in salute, ma penso che il declino di Forza Italia sia dannoso per il centro-destra. Se Forza Italia si lascia risucchiare dalla Lega, il consenso complessivo al centro-destra incontrerà inevitabilmente un limite connesso al fatto che ci sono ceti e individui che non voterebbero mai Lega, ma sarebbero pronti a sostenere un partito di destra classico, liberale e/o conservatore.

Il problema è che anche Forza Italia è sempre meno adatta a intercettare questo tipo di elettorato. In un certo senso Forza Italia ha il medesimo problema del Pd: se non vuole ridursi all’irrilevanza deve affrontare una lunga stagione di rinnovamento e autocritica.

Le Lega sembra l’unico partito ad affrontare il tema dell’immigrazione, come mai continua questo tabù sia per i problemi di integrazione sia per quelli di criminalità?

Perché tutti i partiti temono di urtare la Chiesa, il Papa, e più in generale il mondo delle persone “di buona volontà”, che sempre insorgono ogniqualvolta dalla rivendicazione dei diritti si passa all’indicazione dei doveri, specie se si osa pretendere che anche gli ultimi, o i presunti ultimi, rispettino le regole.

Analizzando il programma del M5s li trovava statalisti e ora ha detto che Di Maio ha perso voti dando l’impressione di equiparare Lega e Pd e di voler andare al governo a tutti i costi. Non sono loro il futuro della sinistra?

No, i Cinque Stelle sono una formazione qualunquista, che però effettivamente può evolvere in una specie di Podemos o di Syriza, cioè in una sinistra post-moderna, assistenziale e anti-mercato. Vedremo.

Mattarella ha detto che la disoccupazione giovanile è troppo elevata e che al sud la mancanza di lavoro ha proporzioni inaccettabili. Come inquadra questi problemi ed è sanabile la differenza nord-sud?

Non ci voleva Mattarella a dire quel che risulta da tutte le statistiche.  Quanto al divario Nord-Sud, se non l’abbiamo superato in più di 150 anni, una ragione ci sarà pure. E temo che quella ragione faccia parte delle cose che si possono pensare, ma è meglio non dire in pubblico: i cittadini del Sud hanno un’altra cultura, un’altra mentalità, altri valori, e quindi non vogliono vivere come noi del centro-nord. Io li capisco, e un po’ li invidio. Credo che la soluzione, l’unica vera e duratura soluzione, sia concedere piena autonomia al Sud. Nessuna secessione delle regioni del Nord, ma creazione di una grande area con istituzioni proprie, un fisco proprio, una politica economica propria. Culturalmente, ma anche sul piano dell’organizzazione economico-sociale, il centro-Italia è più simile al Nord che al Sud, dunque tanto vale che vi siano due italie libere di governarsi come desiderano, quella del Centro-Nord e quella del Sud, finalmente liberata dal giogo dell’unità nazionale.

Intervista a cura di Francesco Rigatelli pubblicata su Libero il 07 maggio 2018