Il semaforo della crisi

E così, dopo 15 mesi di governo giallo-verde, ne avremo non si sa quanti di governo giallo-rosso: il semaforo della crisi tiene fermo il giallo, e prova a sostituire il verde-Lega con il rosso-Pd.

Il ragionamento del neo-segretario Zingaretti, illustrato ieri nella Direzione del partito, si snoda intorno a due passaggi fondamentali.

Il primo è un comprensibile, quanto poco convincente, sforzo di allontanare ogni sospetto di opportunismo. Una excusatio non petita che si nutre di affermazioni come: “un Governo non può nascere sulla paura che qualcun altro vinca la elezioni” (ah no? la paura che Salvini stravinca le elezioni non vi tange?), dobbiamo “evitare ogni accusa di trasformismo e opportunismo” (e come farete, visto che fino a ieri escludevate solennemente qualsiasi accordo con i grillini?); “non siamo quelli pronti a manovre di Palazzo” (e cos’altro sta accadendo in queste ore, nel Palazzo della politica?).

C’è poi il secondo snodo, che in sostanza è una richiesta martellante e ripetuta di “forte discontinuità” rispetto “all’esperienza del governo uscente”. La richiesta, ovviamente, è rivolta ai superstiti del governo uscente, che non hanno alcuna intenzione di uscire come ha fatto Salvini, e contano precisamente sul Pd per rientrare. Messa così, parrebbe un aut-aut ai Cinque Stelle: o voi fate autocritica, e promettete di non fare più i populisti, oppure noi, che il voto lo temiamo meno di voi, vi abbandoneremo al vostro destino.

Arrivati a questo punto il paziente lettore della relazione di Zingaretti si aspetterebbe, come minimo, un’indicazione su quali dovrebbero essere, secondo il Pd, i capisaldi dell’azione del nuovo governo, a partire dalla “mostruosa manovra di bilancio che occorre fare”. Stabilito che, per non far scattare l’aumento dell’Iva, si tratta di reperire almeno 23 miliardi, più altri 7 di spese varie e indifferibili, ed escluso che lo si possa fare in deficit (altrimenti addio discontinuità), saremmo tutti curiosi di sapere dove il Pd pensa di poter reperire i 30 miliardi che occorrono. Nuove tasse? tagli alla sanità? sforbiciata alle agevolazioni fiscali? soppressione di quota 100? soppressione del reddito di cittadinanza?

Non è dato sapere. Invece di fornirci questa preziosa informazione, la relazione di Zingaretti si avventura in una elencazione di cinque richieste tanto perentorie quanto vaghe: “l’appartenenza leale all’Unione Europea, per un’Europa profondamente rinnovata”; “il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa”; “l’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale”;  “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori”; “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”.

Di questi cinque punti, i primi tre (Europa, democrazia rappresentativa, diversa stagione dello sviluppo) sono puro fumo politichese: detti così, troverebbero d’accordo chiunque. Gli ultimi due sono invece inquietanti.

La richiesta di una svolta nelle politiche migratorie elude il problema principale di questi anni: che è di garantire l’accesso in Europa a chi ne ha diritto, senza mandare segnali che non possono non alimentare il traffico di esseri umani. E’ sconfortante che Salvini abbia sostanzialmente risolto il secondo aspetto del problema (disincentivare il business dei naufragi), facendo finta che il primo (diritti dei profughi) non esista. Ma è ancora più sconfortante che chi vuole una discontinuità, il problema manco lo veda, o peggio abbia in mente di invertire l’equazione migratoria, come se esistesse solo il primo aspetto (profughi) e non il secondo (traffico di esseri umani). Difficile non pensare che quel che si vuole, in realtà, sia un ritorno alla stagione dell’accoglienza caotica degli anni pre-Minniti, tanto più che lo sponsor principale dell’alleanza con i Cinque Stelle è Renzi, che di quella stagione si è sempre dichiarato fiero.

Quanto all’ultimo punto, l’invocazione di “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva e di attenzione al lavoro, all’equità sociale, territoriale, generazionale e di genere”, quel che è inquietante non è tanto la genericità, quanto l’analisi che sembra starle dietro. Un’analisi che si ostina ad attribuire lo stallo del Paese a questa mediocre esperienza di 15 mesi, come se l’Italia non fosse già in stagnazione quando Conte è diventato presidente del Consiglio, e come se negli anni in cui al timone c’era il Pd i nostri conti pubblici fossero in ordine. Ma, soprattutto, un’analisi che ripropone, per l’ennesima volta, la solita diagnosi sui mali del Paese, una diagnosi in cui il problema cruciale – ancora una volta – non è di metterci in condizione di produrre nuova ricchezza, ma è di redistribuire quella che già c’è, finché ce n’è.

Il fatto è che su un punto Zingaretti ha perfettamente ragione: ci vuole una discontinuità radicale rispetto al passato, perché il passato è fatto di demagogia, ricerca ossessiva del consenso, rimozione dei problemi del paese, dilazione delle decisioni difficili. Ma quel passato, bisognerebbe avere l’onestà di riconoscerlo, è il passato comune del nostro ceto politico, non il lascito esclusivo dell’ultima breve stagione di governo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 22 agosto 2019



Contro l’inferno libico

Non ha convinto quasi nessuno, nelle sue prime dichiarazioni, Ursula von der Leyen, candidata tedesca alla presidenza della Commissione Europea. E La ragione è piuttosto semplice: le forze politiche tradizionali, presunte vincitrici delle elezioni europee, sono in grave disaccordo fra loro su molte questioni cruciali, fra le quali quella migratoria.

Se si esaminano attentamente le sue dichiarazioni, si capisce facilmente perché. Come spesso accade ai governanti europei, la loro preoccupazione centrale è l’affermazione di principi astratti che possano raccogliere il più ampio consenso possibile, ma la loro attenzione alla soluzione concreta dei problemi è minima. Di qui la curiosa diffusione in Europa di una retorica, quella del “ma-anchismo” (voglio A, ma anche B), di cui erroneamente avevamo attribuito l’esclusiva a Walter Veltroni, ai tempi in cui stoicamente tentava di dare una guida alla sinistra italiana.

Oggi il ma-anchismo si ripresenta nelle parole della von der Leyen: difendere i confini, “ma anche” rafforzare i salvataggi in mare; non lasciare sola l’Italia “ma anche” non obbligare gli altri paesi europei a prendere chi sbarca in Italia; no agli scafisti “ma anche” no ai porti chiusi.

Che così dicendo la candidata alla Presidenza della Commissione rischi di scontentare tutti è meno grave del fatto che il ma-anchismo non sia una politica. Una vera politica dovrebbe, per cominciare, offrire un’analisi convincente di come le cose effettivamente funzionano, ed accettare il dato di fatto che, per determinati tipi di problemi, non esistono soluzioni in grado di rispettare tutti i nobili principi cui i politici amano richiamarsi. L’importante è che almeno i problemi risolvibili vengano risolti, e su quelli irrisolvibili ci sia un’assunzione di responsabilità, che inevitabilmente significa avere il coraggio di scegliere, quasi mai fra il male e il bene, e quasi sempre fra un male e un male minore.

Fra i problemi risolvibili vi è quello di sostenere davvero, e non solo a parole, l’UNCHR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) nel suo lavoro di trasferimento in Europa delle persone che riesce a liberare dai campi libici e che hanno diritto allo status di rifugiato. E’ oltre un anno che l’UNCHR insiste sul fatto che in Africa (in particolare in Niger e in Libia) ci sono già alcuni centri nei quali l’UNCHR stessa riesce a raccogliere i soggetti più vulnerabili e ad effettuare i colloqui necessari per accertare il diritto alla protezione internazionale, ma tutto si scontra con la lentezza e l’opportunismo dei governi europei, che sulla carta promettono posti (4000) ma poi sono lentissimi nel rendere effettivi i trasferimenti in Europa. Voglio dire che il problema dei corridoi umanitari non è la loro inesistenza, ma il fatto che quei pochi che esistono e potrebbero funzionare ad alto regime (primo fra tutti quello che parte dal Niger) si scontrano con l’inerzia e la lentezza dell’Europa. E’ importante sottolineare che stiamo comunque parlando di numeri piccoli (4000 posti promessi da Unione Europea, Norvegia e Canada), e di un problema risolvibilissimo solo che lo si voglia affrontare. E’ noto che i soggetti che hanno diritto allo status di rifugiato, e di cui specificamente si occupa l’UNCHR, sono una piccola frazione del totale dei soggetti in movimento. Anche in Africa il problema più grosso non sono i richiedenti asilo che ne hanno diritto, ma sono gli sfollati delle zone di guerra (in particolare in Libia), e i migranti economici di cui si occupa soprattutto l’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), con programmi di rientro assistito (ed economicamente incentivato) nei paesi di partenza.

Ci sono poi i problemi irrisolvibili, o meglio risolvibili solo pagando un prezzo che pochi politici sarebbero disposti a pagare. Il principale di tali problemi è quello del traffico di esseri umani in Africa, un traffico che non è fatto solo di scafisti, ma di campi di prigionia legali e illegali, con bande armate che spadroneggiano nel territorio macchiandosi dei peggiori crimini: torture, violenze sessuali, umiliazioni, estorsione di denaro, lavori forzati, vendita come schiavi.

E’ il caso di notare che buona parte del problema sta nel business dei guerriglieri che, nel sud della Libia, intercettano le persone in transito per imbarcarsi in Europa. Un’altra parte del problema è costituita dal fatto che i migranti sfuggiti ai campi di prigionia dei signori della guerra spesso, essendo entrati illegalmente in Libia, vengono rinchiusi (in condizioni disumane) nei campi di prigionia governativi, dove fioriscono due ulteriori business, quello della liberazione a pagamento, e quello del trasbordo (sempre a pagamento) su un’imbarcazione diretta in Europa.

Si può fare qualcosa di risolutivo contro questo inferno in terra?

Se escludiamo (e facciamo bene…) l’ennesimo intervento militare occidentale più o meno mascherato da missione umanitaria, l’unica strada efficace che resta aperta è quella di stroncare il traffico di esseri umani rendendolo non profittevole. Sfortunatamente, l’unico modo per renderlo non profittevole è quello di affermare, e mettere fermamente in pratica, il principio che in Europa si entra solo per via legale. Finché l’Europa consente, e per certi versi incentiva, gli ingressi via mare, il progetto di stroncare il traffico di esseri umani resta del tutto velleitario.

E’ qui che nascono i problemi. Per impedire gli ingressi illegali occorrerebbe allargare i canali di ingresso regolari sia per i richiedenti asilo (corridoi umanitari) sia per i migranti economici (sistema di quote), ma al tempo stesso, una volta assicurata la possibilità di entrare legalmente in Europa, occorrerebbe difendere i confini con risolutezza. Questi due gesti, grazie alla velocità del tam tam nell’era di internet, sarebbero un colpo durissimo per i trafficanti, esattamente come lo sarebbe la droga di Stato per gli spacciatori (a proposito, perché i radicali non fanno il medesimo ragionamento pro-legalità quando si tratta di traffico di persone?).

Quello di cui sarebbe ora di prendere atto è che, per quanto scaldi i cuori e faccia la felicità dei media, ogni sbarco irregolare riuscito, che avvenga in Italia o altrove, che sia gestito da una Ong o da uno scafista, è di fatto un formidabile incentivo al business che si dice di voler stroncare. E’ terribile dirlo, ma l’inferno libico è anche la conseguenza della speranza di riuscire a entrare in qualche modo in Europa che un po’ tutti contribuiamo a tener viva, spesso con le migliori intenzioni.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 13 luglio 2019



Quanti sono i poveri in Italia?

Nei giorni scorsi sono stati resi noti gli ultimi dati sul reddito di cittadinanza: al 31 maggio il numero totale di domande presentate era di 1 milione e 252 mila, di cui 674 mila accolte, 277 mila respinte e il resto (301 mila) sospese o ancora da elaborare. Complessivamente le domande accolte sono circa il 71% di quelle analizzate.
Il ritmo delle domande è in netto calo: sono state 820 mila il primo mese (marzo), poi 243 mila (aprile), infine 188 mila (maggio). Il governo prevede che, alla fine, le domande accolte saranno circa 1 milione, ovvero parecchie meno di quel che si attendeva.
Poiché il numero di famiglie in condizioni di povertà assoluta, secondo l’Istat (indagine 2018), si aggira intorno al milione e 800 mila, parrebbe che i conti non tornino. Le domande già accolte (674 mila) sono poco più di 1/3 del numero di famiglie povere. Aggiungendo quelle già presentate ma non ancora valutate si arriverà intorno a 884 mila domande accolte, meno della metà (48.5%) del dato Istat. Infine, dando per buona la previsione del governo si dovrebbe arrivare a 1 milione entro fine anno, poco più della metà (54.9%) del dato Istat.
Qualcosa sembrerebbe non tornare. Possibile che a tre mesi dal varo della legge, pur includendo nel calcolo le numerose domande già presentate ma non ancora accolte, si sia sotto il 50%? Quali possono essere le ragioni di una discrepanza così macroscopica?
Una prima ragione, abbastanza ovvia, è che la definizione di povertà assoluta dell’Istat non corrisponde alla definizione implicita nella legge sul reddito di cittadinanza. Le differenze fra le due definizioni sono tantissime, ma la più importante è che la definizione Istat lavora sul potere di acquisto del reddito, e quindi tiene conto del livello dei prezzi della zona in cui la famiglia risiede, mentre la legge considera solo il reddito nominale. Questa è la ragione principale per cui, finora, le domande accolte nel Nord sono state molte di meno dei poveri assoluti residenti in tali regioni; e viceversa quelle del Mezzogiorno, che sono state molte di più. Insomma, il reddito di cittadinanza è servito ben poco ai poveri delle regioni del Nord, specie se abitanti in grandi città: chi è povero al Nord risulta tale se si tiene conto del livello dei prezzi (definizione Istat), ma cessa di esserlo se si ignora il costo della vita (definizione del governo).
C’è però anche una seconda ragione della discrepanza, una ragione che troppo spesso si dimentica. Fra i requisiti della legge vi è la residenza stabile in Italia da almeno 10 anni, un requisito che penalizza severamente sia gli stranieri, sia gli italiani senza fissa dimora. Le prime cifre circolate indicano che fra le domande accolte gli stranieri siano circa il 10%, mentre l’Istat ha stimato che le famiglie straniere in condizione di povertà assoluta siano ben il 31.1%, nonostante gli stranieri siano meno del 9% della popolazione. In altre parole: le domande sono molte meno delle attese anche perché la maggior parte degli stranieri poveri non ha fatto domanda, ben sapendo di non avere i requisiti.
Se teniamo conto di questo fattore le cifre si avvicinano. Le famiglie di italiani in condizioni di povertà assoluta sono 1 milione e 255 mila, le domande di famiglie italiane già accolte sono circa 600 mila, ma potrebbero salire a circa 900 mila entro la fine dell’anno. In questo caso lo scarto sarebbe di 3-400 mila famiglie, che risultano povere secondo l’Istat ma non richiedono il reddito di cittadinanza. In breve: fatto 100 il numero di famiglie povere Istat, solo circa 70 fanno domanda.
Che cosa ci dice un dato del genere?
Essenzialmente che non è infondato il sospetto che i poveri effettivi siano sensibilmente di meno di quello che si potrebbe dedurre dai dati Istat. E’ perfettamente possibile che diverse famiglie risultino povere semplicemente perché il lavoro in nero di alcuni membri non viene dichiarato, con conseguente sottostima del reddito familiare complessivo. E’ ragionevole pensare che il timore di sanzioni (e di perdere i redditi in nero) abbia indotto molti a non presentare domanda.
Ma è anche possibile che questo timore svanisca (forse sta già svanendo) man mano che dovesse rafforzarsi la convinzione che i controlli saranno rarissimi, che i centri per l’impiego non funzioneranno, e di conseguenza il rischio di ricevere offerte di lavoro che si preferirebbe non ricevere (ma si è tenuti ad accettare) è bassissimo. E’ possibile, in altre parole, che il trend delle domande si affievolisca ancora un po’ nei prossimi mesi, ma poi riprenda vigore ove il governo non potesse o non volesse far scattare controlli e sanzioni.
Se queste valutazioni hanno un qualche fondamento, allora sembra inevitabile trarne due conclusioni. La prima è che il problema della povertà, in Italia, riguarda soprattutto gli immigrati (sono povere più di 1 famiglia straniera su 4), e il reddito di cittadinanza lo aggrava. La seconda è che il tasso di povertà degli italiani non solo è molto minore di quello degli stranieri, ma è probabilmente sovrastimato. Per l’Istat le famiglie italiane povere sono il 5.3% (circa 1 su 20), ma le domande del reddito di cittadinanza pervenute fin qui suggeriscono che siano dell’ordine del 3.7% (1 su 27).
Sempre troppe, ovviamente, ma comunque un po’ minori delle cifre pre-crisi, e molto minori di quelle degli stranieri: il problema della povertà nel nostro paese, più che un dramma italiano, è un aspetto cruciale del problema migratorio.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 29 giugno 2019



Un crollo dei crimini? E quale è la causa?

Il Governo italiano, nel maggio 2019, ha diffuso dati che mostrano una forte diminuzione dei crimini registrati nel primo trimestre 2019 rispetto a quelli registrati nel trimestre corrispondente dell’anno precedente, ossia prima della entrata in servizio dell’attuale Governo. La notizia ha suscitato vivo interesse. Si tratta certamente di una diminuzione di notevole ampiezza: i reati diminuiscono nel complesso del 15%, e il calo è generalizzato; diminuiscono gli omicidi, già peraltro in calo negli ultimi anni, i furti (15%), le rapine (21%), le lesioni dolose (22%), i reati di droga (10%); ancora più vasto il calo dei reati di violenza sessuale ( 32%), di ricettazione e contrabbando. Solo gli incendi dolosi sembrano contraddire la tendenza alla riduzione.

Si può senza dubbio esprimere un apprezzamento per la proclamata intenzione del Governo di impegnarsi in modo incisivo nell’azione di contrasto nei confronti del crimine e più in generale dell’illegalità. Crimine e illegalità sono contrari agli interessi di tutti i cittadini che rispettano le regole della convivenza civile, e, paradossalmente, anche contrari agli interessi di coloro che commettono crimini, nella misura in cui essi possono essere le vittime del crimine, piuttosto che gli autori: non per nulla, i ladri sono recisamente ostili al furto, quando si scoprono derubati; i violentatori, ostili alla violenza, quando la subiscono. La sicurezza generale è in effetti la ragione per la quale gli individui rinunciano ad una parte delle loro libertà a favore dello Stato e concedono a questo ultimo una posizione di superiorità rispetto a se stessi. E, in definitiva, se lo Stato non assicura la sicurezza, la sua stessa ragione di esistere viene a cadere e, insieme, viene a cadere la ragione di esistere dei politici.

L’interesse mostrato nei confronti dei recenti dati sull’andamento della criminalità è pertanto del tutto giustificato. La pubblicazione dei dati in questione ha comunque suscitato anche accese polemiche: polemiche peraltro tendenzialmente più centrate su posizioni preconcette, a favore o contro il Governo, piuttosto che su analisi più oggettive. È difficile del resto produrre analisi oggettive quando le informazioni fornite dalle istituzioni pubbliche italiane sulla sicurezza e il controllo sociale sono da molti anni caratterizzate da ritardi e lacune, tanto che la distanza rispetto a quanto fatto negli altri Paesi avanzati è divenuta sempre più grande.

Le ragioni di questa situazione sono almeno duplici. Da una parte, esse attengono ad una concezione strutturalmente illiberale dello Stato italiano, che si è interessato alla sicurezza soprattutto nella misura in cui questo aspetto ha riguardato il Palazzo del potere. Da questo, tutta una serie di conseguenze coerenti con quanto precede: dalla noncuranza, da parte dello Stato, per il problema prioritario del controllo del territorio, all’abbandono di vaste regioni periferiche nelle mani della criminalità organizzata, all’uso di auto blu che si muovono sulle strade italiane con modalità confacenti a una forza di occupazione straniera, al disinteresse abitualmente mostrato dallo Stato italiano nei confronti dei comuni cittadini vittime di crimini, e, non ultimo, al fatto che le istituzioni hanno considerato finora come tutt’altro che prioritario informare i cittadini su come i soldi delle tasse sono spesi per assicurare loro il fondamentale requisito della sicurezza. In secondo luogo, le ragioni di questa situazione attengono alla diffusione di una concezione che ha integralmente contestato non solo la natura oggettiva e universale del crimine comune ma anche la validità di qualsivoglia misura della criminalità. Questa concezione, frutto di un radicalismo antiscientifico di matrice neomarxista, sviluppatasi negli anni 1960 e sopravvissuta in Italia malgrado la implosione del modello politico-economico del socialismo reale, ha considerato il crimine come una costruzione sociale del potere capitalistico e, conseguentemente, le stesse misure del crimine come un mero sottoprodotto di tale potere. Tutto ciò con scarsa considerazione per alcuni fatti basilari. In primo luogo, il fatto che, come aveva già intuito Giambattista Vico prima della metà del ’700, vi è una comune natura delle nazioni, originata dal fatto che esse sono tutte accomunate dall’essere società umane: cosicché, esse non solo hanno, tutte, una forma di religione, contraggono matrimoni solenni, e seppelliscono i loro morti – come dice Vico – ma puniscono anche, tutte, gli omicidi e le violenze, i furti e le rapine. In secondo luogo, il fatto che la grandissima parte delle notizie sui crimini commessi deriva dalle denunce da parte dei comuni cittadini, vittime dei criminali, e non dalle cosiddette agenzie del controllo sociale (magistratura e forze dell’ordine), alle quali i fautori della costruzione sociale del crimine attribuiscono una arbitraria selezione, e dei crimini commessi, e dei loro autori.

Tra Scilla e Cariddi, ossia tra la tradizione illiberale dello Stato italiano e il radicalismo antiscientifico, lo spazio per la misura e l’analisi della criminalità – premessa per qualsiasi più efficace politica di contrasto – non poteva che uscirne pregiudicato. Gli esempi di tutto ciò sono numerosi e non difficili da rinvenire.

Per quanto riguarda il Ministero della Giustizia, il suo sito on-line è ricco di informazioni sul Ministro, i Sotto-Segretari e i vari concorsi per il personale del ministero; per avere informazioni sulla giustizia – che, ingenuamente, si presumerebbe essere l’interesse principale del Ministero della Giustizia – si deve faticare di più, e infine si scopre che, al momento in cui scriviamo, maggio 2019, i dati più recenti sulla attività delle procure e dei tribunali risalgono al 2012 e in molti casi ad anni ancora precedenti. Se vogliamo avere informazioni sulla giustizia meno obsolete, dobbiamo rivolgersi al sito dell’Istat, dove comunque i dati sulla giustizia si fermano al 2016, e le informazioni sono comunque lacunose. Mancano del tutto, ad esempio, le informazioni sulle caratteristiche dei soggetti imputati – ossia i soggetti per i quali le procure hanno deciso la continuazione dell’azione penale –, mancano perfino le informazioni su aspetti intorno ai quali vi è oggi un acceso dibattito, anche politico, come la nazionalità straniera di imputati e condannati.

Le informazioni sulla criminalità che discendono dall’attività del Ministero dell’Interno sono anche esse limitate. In effetti, la fonte migliore di informazioni anche per quanto riguarda l’azione di contrasto alla criminalità da parte delle forze di polizia – e quindi anche del Ministero dell’Interno – è l’Istat, nel cui sito troviamo, con maggiore dettaglio, dati sulle denunce penali; ma anche qui ci fermiamo al 2017. Sul sito on-line del Ministero dell’Interno, dopo le usuali, ampie informazioni sulle strutture interne e i personaggi che ne sono alla guida, vi è una promettente sezione intitolata “Territorio”: ma, dove ci aspetteremmo di trovare una descrizione della situazione riguardante l’azione dello Stato per assicurare la legalità sul territorio – e magari qualche considerazione autocritica sugli evidenti insuccessi in varie parti del Paese – troviamo notizie sui movimenti dei prefetti. La sezione “Sicurezza” contiene molti importanti argomenti, da “Lotta alle mafie” a “Vittime del dovere”, ma per ciascuno di essi vi sono solo poche righe e, sostanzialmente, nessun dato. Per avere migliori informazioni si deve andare altrove – sezione “Dati e statistiche” – dove tuttavia possiamo avere solo la Relazione al Parlamento sulle attività delle Forze di Polizia etc. Questa ultima ha carattere sommario e si ferma per giunta al 2017, non permettendo quindi né di confermare né di contestare la bontà delle cifre fornite recentemente dal Ministero dell’Interno, dal momento che queste cifre si basano su una comparazione tra i dati sulla criminalità più recenti e quelli del primo trimestre 2018. Ancora meno aggiornati i dati – in altra sezione – riguardanti delitti e persone denunciate, per i quali ci si ferma al 2016. I dati in questione, così come quelli delle procure e dei tribunali, sono del resto sempre annuali, e non si è provveduto sinora ad organizzare la presentazione di dati trimestrali: questi ultimi sarebbero di grande utilità per il monitoraggio continuo della situazione della sicurezza, e permetterebbero anche, incidentalmente, di meglio valutare quella riduzione dei crimini nel primo trimestre del 2019 su cui oggi si discute. In conclusione, anche per quanto riguarda il Ministero dell’Interno, poche, limitate e non-aggiornate informazioni: e se qualcuno avesse dubbi su quanto potrebbe e dovrebbe essere fatto, consigliamo di visitare il sito dell’Home Office del Regno Unito (che corrisponde al Ministero dell’Interno italiano), dove – mentre scriviamo – è possibile consultare 630 rapporti statistici sulle attività dell’Home Office in materia di sicurezza e criminalità (https://www.gov.uk/government/statistics?departments%5B%5D=home-office&parent=home-office).

Le carenze peggiori sono comunque altre: il distacco più significativo rispetto ad altri Paesi avanzati si riscontra nella mancata raccolta di dati micro (ossia individuali) in materia di criminalità e controllo sociale. L’Italia è l’unico tra i Paesi avanzati – o meglio tra quelli che si ritengono tali – a non avere mai condotto una indagine sistematica sul recidivismo, malgrado la estrema rilevanza del tema e i solleciti fatti in proposito, anche da chi scrive. Cosicché in Italia non è stato mai possibile, né per le istituzioni né per gli esperti della materia, avviare una riflessione oggettivamente fondata sulla efficacia delle pene, sui risultati delle misure alternative alla detenzione, sui percorsi criminali dei delinquenti abituali e di quelli professionali, sulle probabilità di commettere nuovi reati per i pedofili e gli stalkers, gli sfruttatori di prostituzione e gli autori di violenze sessuali, per limitarci a qualche esempio soltanto.

Parallelamente, il Servizio Sociale del Ministero della Giustizia non ha provveduto ad organizzare una raccolta sistematica a livello nazionale delle caratteristiche e dei problemi dei condannati e degli ex-detenuti trattati dagli operatori del Servizio, e dell’esito del trattamento a distanza di tempo. La situazione del settore minorile, a sua volta, è da sempre caratterizzata da grande carenza di informazioni, forse anche per un malinteso senso della privacy. Pertanto non è possibile in Italia indagare aspetti fondamentali per quanto riguarda la devianza minorile, come, per limitarci ad un esempio, il rapporto tra percorso scolastico, abbandono precoce della scuola e devianza, per il semplice fatto che le istituzioni non hanno provveduto ad una raccolta sistematica e continua nel tempo di queste informazioni. Informazioni, cioè, necessarie a qualsivoglia politica di prevenzione della devianza e criminalità minorili. E, sempre in materia di prevenzione, appare stupefacente che le istituzioni non si sono mai preoccupate di organizzare, accanto alle specifiche politiche assistenziali a favore di gruppi marginali, come i nomadi, anche una raccolta sistematica di informazioni sulle loro condizioni sociali e culturali. Cosicché si può tranquillamente continuare a discutere inutilmente sulla loro presunta malintegrazione e propensione alla criminalità, mancando qualsiasi oggettiva informazione sulla realtà dei fatti.

Alla luce di tutto ciò, non deve stupire che la politica del controllo sociale e della sicurezza è stata portata avanti in Italia all’insegna della gestione del quotidiano piuttosto che della programmazione di lungo periodo; le riforme eventualmente adottate non hanno mai potuto poggiare su una sistematica e continua produzione di informazioni quantitative; e non è stato possibile analizzare gli esiti delle riforme per le medesime ragioni, ossia per la mancata predisposizione di dati che potessero essere utili ad una successiva comparazione rispetto ai risultati ottenuti.

Queste premesse dovrebbero dare un’idea di quanto sia difficile una valutazione sul calo nei crimini commessi – o meglio, denunciati – in Italia, che è stato l’oggetto del comunicato stampa del Ministero dell’Interno del 5 maggio 2019. Al tempo stesso, è anche certo che il periodo cui si riferisce la diminuzione dei crimini è contenuto (un trimestre), e pertanto è presto per concludere che si tratta di una svolta nella lotta alla criminalità. Del resto, le istituzioni italiane – come già rilevato – non rendono pubbliche le serie storiche dei dati trimestrali della criminalità: e questo implica l’impossibilità di un’analisi più approfondita.

Al di là di quanto appena detto, i dati pubblicati suscitano interrogativi per quanto riguarda le possibili cause del brusco calo dei crimini. Possiamo utilizzare come punto di partenza per l’individuazione di queste possibili cause lo schema di tipo economico (costi contro benefici del crimine, dal punto di vista di un individuo tentato dall’idea di violare le norme del codice penale), introdotto a suo tempo da Cesare Beccaria. Uno studioso – detto incidentalmente – che il mondo invidia all’Italia e che questa ultima sostanzialmente ignora per quanto riguarda la politica di contrasto alla criminalità, mentre in altri Paesi, e specialmente negli Stati Uniti, la sua eredità intellettuale è alla base di importanti correnti di pensiero nel campo della criminologia, come la economic rational choice theory. Ora, lo schema interpretativo di cui siamo debitori a Beccaria suggerisce che una diminuzione effettiva del numero dei delitti può essere ottenuta tramite un aumento della certezza del diritto (e della pena), o (subordinatamente) un aumento della pena, a parità di certezza del diritto.

Possiamo cominciare prendendo in considerazione l’ipotesi che la diminuzione dei delitti annunciata dal Governo sia avvenuta a causa di un aumento della certezza del diritto e quindi della pena. Questo aumento della certezza potrebbe in linea di principio avere riguardato il lato magistratura, e lo spazio disponibile sembrerebbe essere amplissimo, dal momento che le organizzazioni internazionali che si occupano di valutare la certezza del diritto (World Bank: Governance Indicators 2017; Rule of Law) collocano il sistema della giustizia italiano al 79mo posto tra quelli di tutti i Paesi del mondo, e più precisamente tra la Repubblica della Georgia e il Regno di Tonga. Un risultato, questo, di cui Governo e istituzioni di un Paese che si vanta spesso di essere la patria del diritto, oltre che di Cesare Beccaria, non sembra si siano mai interessati, e che del resto è costantemente ignorato anche dalle principali fonti di informazioni. Tuttavia, non si ha notizia di un aumento della certezza nel sistema della giustizia penale italiana, e le rilevazioni statistiche internazionali non indicano che vi sia in atto un miglioramento del quadro.

L’aumento della certezza potrebbe però essere stato ottenuto dal lato forze dell’ordine, piuttosto che da quello della magistratura. Potremmo infatti immaginare che la diminuzione dei delitti sia avvenuta in conseguenza di un aumento del numero dei delitti denunciati dalle forze dell’ordine rispetto al numero dei delitti commessi, e che questo abbia avuto un effetto deterrente, anche quando la denuncia di un delitto non ha implicato l’identificazione del suo autore. Questo ragionamento urta però contro due generi di considerazioni. La prima – di massima rilevanza e peraltro ignorata dai più – riguarda l’origine delle denunce. Come già accennato, queste ultime discendono in grandissima parte dalla iniziativa delle vittime dei delitti, e il ruolo delle forze dell’ordine si limita a registrare queste denunce. Se, ad esempio, le violenze sessuali non fossero denunciate dalle vittime, il numero dei casi conosciuti sarebbe irrisorio. Pertanto, è difficile immaginare che la riduzione nel numero delle violenze sessuali sia avvenuta per effetto di una maggiore impegno delle forze dell’ordine nel denunciare questi delitti. E quanto detto per le violenze vale per molti altri delitti. Le forze dell’ordine giocano un ruolo più incisivo solo nelle denunce riguardanti alcune fattispecie ben specifiche: i delitti cosiddetti senza vittima, come in particolare i reati di droga; i delitti in cui la prima vittima è lo Stato, come ad esempio i reati di terrorismo; e pochi altri delitti, come la ricettazione, in cui la vittima è piuttosto remota rispetto all’evento delittuoso, e pertanto ignara di esso. Per tutti questi delitti, comunque, sembra evidente che un maggiore impegno delle forze dell’ordine nello scoprire i delitti in questione comporterebbe innanzitutto un aumento delle denunce e di conseguenza un aumento dei delitti registrati, e non già una loro diminuzione, come invece sembrerebbe essere avvenuto. Solo a distanza di tempo ci aspetteremmo una certa diminuzione dei delitti, come conseguenza dell’effetto deterrente del maggiore impegno delle forze dell’ordine.

Si deve comunque notare che la diminuzione dei delitti potrebbe essere stata determinata non tanto da un iniziale aumento delle denunce penali e del parallelo effetto deterrente, bensì da una riduzione del numero dei delitti attribuiti ad ignoti. In altre parole, avremmo una riduzione dei delitti come conseguenza della maggiore deterrenza associata con un maggiore rischio, per l’autore di crimini, di essere identificato. L’effetto deterrente che deriva da una diminuzione della percentuale dei delitti attribuiti ad ignoti dovrebbe essere realisticamente maggiore dell’effetto di un semplice aumento dei crimini emersi rispetto a quelli commessi. Quando pensiamo alla concezione della certezza del diritto come chiave di volta della sicurezza pubblica e del controllo sociale, così come in Beccaria e nei suoi seguaci di tutti i tempi, pensiamo precisamente all’effetto deterrente che una riduzione della percentuale di delitti attribuiti ad ignoti avrebbe sul potenziale infrattore della legge penale.

Tuttavia, l’effetto deterrente derivante da una diminuzione dei delitti attribuiti ad ignoti sarebbe comunque ritardato. Per un periodo di tempo abbastanza lungo, il numero delle denunce e quindi dei delitti registrati dovrebbe, a rigore di logica, rimanere invariato, e non diminuire, come invece sembra essere avvenuto. In ogni caso, se vi è stato un aumento della deterrenza nelle forme appena descritte, questo aumento deve risultare da un cambiamento significativo nel rapporto tra delitti denunciati e delitti attribuiti ad ignoti. Negli ultimi anni, fino al 2017, il clearance rate, ossia la percentuale dei delitti di cui si è identificato l’autore, è rimasto molto basso in Italia. Per il totale reati, il clearance rate ha oscillato tra 18,4 e 19,4%; per gli omicidi volontari, ossia per il delitto utilizzato per le comparazioni internazionali tra i vari Paesi, la percentuale è stata in media del 67,5%; ciò significa che in Italia non si è riusciti a identificare l’autore di circa il 32,5% degli omicidi volontari; per un paragone, si tenga presente che le stime corrispondenti sono di circa il 20% per Svezia e Olanda, del 15% per  Inghilterra e Galles, di 13% per la Svizzera, di circa 9% per la Germania. Negli ultimi anni, vi è stata, nel complesso, una lieve riduzione dei reati attribuiti ad ignoti, ma non tale da fare prevedere, come conseguenza, un significativo decremento dei crimini. Per il periodo più recente – ossia per quello cui si riferiscono le odierne notizie diffuse dal Governo – non risultano informazioni su una diminuzione della percentuale di delitti attribuiti ad ignoti, anche se proprio una diminuzione in questo senso costituirebbe motivo di legittimo vanto per il Governo. Non ci rimane, quindi, che attendere informazioni dal Governo su questo punto fondamentale.

Come abbiamo detto in precedenza, la diminuzione dei delitti potrebbe essere avvenuta a causa di un aumento delle pene, piuttosto che di un aumento della certezza delle stesse pene. Le pene irrogate dalla giustizia italiana non sono certo tali da escludere l’opportunità di un loro aumento. Per quanto riguarda la pena del carcere – l’unica con capacità di deterrenza nei confronti di tutti i potenziali criminali, a prescindere dalle loro condizioni sociali ed economiche – un rapido calcolo sui dati disponibili (2010-2017) ci dice che, in media, un condannato per omicidio volontario rimane in carcere per 9 anni; un condannato per violenza sessuale 24 mesi; uno per rapina, 26 mesi; uno per furto, 4 mesi. Come già notato, non abbiamo dati recenti (2018) sull’operato della magistratura penale: ma negli ultimi anni per i quali disponiamo dati, vi è stato una diminuzione e non un aumento delle pene detentive mediamente subite dai condannati. E non risultano neppure modifiche legislative recenti che abbiano implicato un aumento delle pene applicabili. Il cosiddetto decreto-sicurezza del 4 ottobre 2018 contiene certamente modifiche legislative che, oltre ad andare nel senso di un sostegno alle vittime di particolari crimini (delitti di mafia, estorsione e usura), prevedono maggiore controllo e maggiore repressione di alcuni specifici comportamenti antisociali. Tuttavia, l’introduzione o reintroduzione di alcune fattispecie penali, o l’espansione dei casi di una loro applicazione, come le previsioni in materia di attività di parcheggiatore abusivo, di accattonaggio molesto con o senza uso di bambini, di occupazione arbitraria di immobili e di blocco stradale, avrebbero dovuto, a rigore di logica, produrre un aumento dei delitti e delle contravvenzioni registrati, e non una loro stabilità e ancora meno una loro diminuzione. A condizione, ovviamente, che queste nuove previsioni penali siano state effettivamente applicate in un numero consistente di casi rispetto alle violazioni messe in atto, e non siano quindi rimaste lettera morta, come peraltro si potrebbe sospettare. Crediamo, a questo proposito, che molti Italiani sono curiosi di sapere quanti parcheggiatori abusivi in Italia hanno effettivamente pagato la somma da 771 a 3101 Euro, come previsto dal nuovo decreto, e quanti, tra coloro che hanno effettuato un blocco stradale, sono finiti in carcere. D’altra parte, l’aumento delle sanzioni previste dal c.d. decreto-sicurezza non è tale – né sotto il profilo della gravità e neppure sotto quello della numerosità delle fattispecie penali previste – da immaginare che esso possa avere provocato un significativo aumento della deterrenza e, conseguentemente, una diminuzione dei delitti registrati. Il decreto-sicurezza non contiene nessuna previsione dalla quale fare discendere realisticamente una diminuzione rilevante dei delitti registrati. Ad esempio, il decreto-sicurezza non ha introdotto una qualche previsione come l’obbligo per il magistrato penale di imporre sempre un significativo e predeterminato aumento della sanzione detentiva in caso di recidiva. Una previsione, questa sì, che avrebbe avuto un sicuro impatto sulle cifre complessive della criminalità in Italia, riducendole corrispondentemente, dal momento che questa criminalità è in larga parte costituita da reati come i furti, le ricettazioni, le rapine, le estorsioni, le truffe: tutti reati dove la percentuale di delinquenti abituali e professionali è altissima. Per un’idea di quanto appena detto, si noti che circa due terzi dei condannati per rapina, per truffa, per furto in abitazione e per furto con strappo ha precedenti penali.

Se non vi sono prove evidenti di un aumento della certezza del diritto e se, contemporaneamente, non vi sono stati aumenti nelle pene tali da fare ritenere realistica una diminuzione dei delitti, non ci resta che ipotizzare un ultimo scenario: la diminuzione dei delitti sarebbe allora avvenuta in seguito ad un incremento nella prevenzione della criminalità, ossia in seguito ad un incremento di iniziative e controlli, sul territorio e sugli individui, volte a diminuire la probabilità che i delitti siano commessi (prevenzione ante-delictum) o che individui che già hanno commesso delitti ne commettano altri (prevenzione post-delictum). Si deve tenere presente che, in senso lato, la prevenzione del crimine abbraccia una grande varietà di possibili iniziative, da un welfare a sostegno delle fasce di popolazione più marginali, ad iniziative di rafforzamento della solidarietà sociale, al reinserimento sociale del condannato tramite un suo impegno in attività a favore della comunità locale. Alcune di queste iniziative, pur essendo altamente auspicabili per l’intera società, e potenzialmente di grande impatto sulla criminalità, hanno un carattere generico, e presentano quindi difficoltà per quanto riguarda una valutazione empirica di tale impatto, perché i loro effetti sono prevalentemente indiretti. Altre iniziative di prevenzione sono invece specifiche, e di regola più facilmente misurabili. Alcune iniziative prese dal Governo potrebbero rientrare nel quadro delle attività specifiche di prevenzione. La previsione dell’espulsione in tempi brevi degli immigrati che hanno subito condanne penali e la parallela previsione del rimpatrio degli immigrati in condizione di irregolarità fanno parte di queste iniziative. Poiché individui già autori di reati hanno maggiori probabilità di ricommetterne, la loro espulsione dal Paese ospitante dovrebbe diminuire il numero futuro dei delitti. Qualcosa di simile potrebbe accadere nel caso di immigrati in condizione di irregolarità. Infatti, anche se – come già sottolineato – le istituzioni italiane non hanno mai provveduto a fornire dati certi in materia, è opinione comune tra gli operatori del controllo sociale, in Italia come altrove, che la stessa condizione di irregolarità aumenti la probabilità di commettere crimini. Si deve notare, tuttavia, che i numeri dei rimpatri sono piccoli. Nel 2017, l’Italia ha rimpatriato circa 7400 immigrati. L’attuale Governo aveva espresso l’intenzione di rimpatriarne molti di più, anche tramite uno spostamento di fondi pubblici dall’accoglienza ai rimpatri; ma i rimpatri sono operazione difficile, anche perché necessitano dell’accordo del Paese di origine, che non sempre si rende disponibile; in conclusione, nel 2018 sono stati rimpatriati circa 8000 immigrati. Malgrado qualche incertezza sulle cifre esatte, chiaramente le differenze non sono tali da spiegare il calo rilevante dei delitti nei primi mesi del 2019. La mancanza di un più marcato incremento nei rimpatri nell’anno 2018 è in parte attribuibile anche al contemporaneo, forte calo degli ingressi di immigrati in Italia. Nel 2016, gli ingressi registrati erano stati circa 181 mila; nel 2017, 119 mila; nel 2018, solo 23 mila (Ministero dell’Interno, Cruscotto Statistico 31-12-2018). Questa netta diminuzione degli ingressi nel 2018 potrebbe essersi riflessa sull’andamento della criminalità in Italia. Le condizioni di marginalità sociale e economica di molti dei nuovi immigrati sono tali da fare ritenere che le loro probabilità di commettere crimini siano decisamente più alte. Mancano anche qui dati più precisi, ma vi è una concordanza tra gli esperti su questo punto. È opportuno comunque provare a fare qualche calcolo sul possibile impatto sulla criminalità derivante da questa diminuzione degli ingressi. Nel 2018, vi sono stati circa 96 mila ingressi in meno rispetto al 2017 (119.000 23.000 = 96.000); possiamo ipotizzare che questa popolazione, per le sue specifiche condizioni di marginalità, avrebbe potuto dare alla criminalità in Italia un contributo pari a 10 volte il suo peso sulla popolazione totale residente, compresi in questa ultima anche gli arrivi degli anni precedenti. Ebbene, anche ipotizzando tutto ciò, tale loro contributo sarebbe stato pari all’1,6% del totale crimini in Italia: troppo poco per spiegare il decremento della criminalità all’inizio del 2019, che – secondo le cifre fornite dal Ministero dell’Interno – è circa dieci volte più grande (15% per il totale delitti).

Anche il forte decremento degli ingressi di immigrati nel 2018, pertanto, non sembra potere essere stata la ragione sufficiente del decremento dei delitti registrati. Si deve però considerare che l’aumento della prevenzione potrebbe avere riguardato anche altri aspetti, oltre quelli del rimpatrio degli immigrati e della forte riduzione dei nuovi ingressi. Questi ulteriori aspetti potrebbero avere riguardato il rafforzamento del controllo del territorio in una prospettiva precisamente di prevenzione dei reati. Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti e poi in altri Paesi, sono state sperimentate nuove politiche di prevenzione della criminalità basate precisamente su un maggiore controllo del territorio urbano tramite maggiore presenza fisica delle forze di polizia e azioni di contrasto nei confronti anche di manifestazioni minori di illegalità e antisocialità, dalla ubriachezza molesta ai graffiti, dal non-pagamento del biglietto sui mezzi di trasporto pubblici all’abbandono di rifiuti in strada, ai piccoli atti vandalici (cosiddetta politica di lotta alle broken windows, ossia alle finestre rotte). L’applicazione di queste nuove politiche è stata seguita da una riduzione anche della criminalità maggiore. In Italia, queste politiche sono state sinora ignorate. Una forma di prevenzione non lontana da queste politiche – il cosiddetto poliziotto di quartiere – è stata più volte promessa da varie forze politiche ma mai realizzata. Alcune delle modifiche legislative recenti del decreto-sicurezza – repressione della occupazione arbitraria di immobili, dell’accattonaggio molesto, dei blocchi stradali etc. – sembrerebbero andare nella direzione indicata a suo tempo da questa politica della lotta alle finestre rotte. Come peraltro già accennato, sembra tuttavia poco realistico collegare queste recenti e limitate modifiche con l’annunciato forte calo dei crimini. Comunque, per convincere il pubblico che la riduzione della criminalità è merito di un aumento significativo della prevenzione – e in definitiva delle autorità e delle forze politiche che l’hanno favorito – basterebbero dati affidabili che mostrassero un incremento rilevante e statisticamente significativo nelle attività di prevenzione, sia in quelle genericamente sociali, sia in quelle specifiche, di diretta competenza delle forze dell’ordine e più facilmente misurabili: ad esempio, un incremento nel numero delle persone identificate nel corso di controlli, nel numero dei profili (fingerprinting) genetici rilevati, nel numero degli autoveicoli (autocarri, automobili, motocicli) fermati e controllati, nella percentuale di forze di polizia presenti fisicamente e visibilmente sul territorio, nel numero delle perquisizioni effettuate, delle imprese monitorate, degli impianti di videosorveglianza utilizzati, e così via.

In mancanza di tutto ciò, e augurandoci comunque che i dati sulla criminalità nei primi mesi del 2019 siano confermati nel prossimo futuro, ci limiteremmo a pensare che l’annunciata riduzione della criminalità sia frutto di un miglioramento complessivo della società italiana. Pensiamo però, anche, che si tratta di qualcosa che è più facile desiderare che dimostrare vera.




Salvini, che sbaglio!

Può darsi che le imminenti elezioni europee mi smentiscano, ma ho l’impressione che il voto potrebbe riservare alla Lega un risultato sensibilmente inferiore alle aspettative del suo leader, drogate da mesi e mesi di sondaggi esaltanti. Dicendo questo non sto pensando al cosiddetto “effetto-winner”, per cui il vincitore annunciato di un’elezione riceve nei sondaggi più consensi di quelli che raccoglierà effettivamente alle urne. Né sto pensando all’effetto, potenzialmente disastroso, che potrebbero produrre il caso Siri, la “tangentopoli lombarda”, o lo scandalo che ha travolto uno dei principali alleati di Salvini in Europa, il vice-cancelliere austriaco Heinz Christian Strache, accusato (come Salvini) di trafficare con la Russia in cambio di sostegno finanziario al proprio partito. No, quello cui sto pensando è il lento ma inesorabile appannamento della figura di Salvini di cui è responsabile lui stesso.
In che modo?
Si possono fare innumerevoli esempi, ma il loro denominatore comune è molto semplice: è la rinuncia a rivolgersi a tutti gli italiani, anziché esclusivamente alla platea dei suoi sostenitori più accesi. Questa rinuncia si manifesta in innumerevoli forme e attraverso innumerevoli episodi: l’uso di un linguaggio aggressivo, l’occupazione sistematica delle piazze e della tv, la scarsissima presenza al Viminale, l’uso strumentale dei simboli religiosi (avevate mai visto un ministro dell’Interno agitare un rosario a un comizio?), la mancanza di rispetto per il Presidente del Consiglio, i due pesi e due misure nell’attuazione degli sgomberi, la tendenza a strumentalizzare i temi della fede e della religione, con tanti saluti alla tradizione laica della Lega. Ma non solo: anche la tendenza a liquidare con una battuta, anziché con una spiegazione, molte ragionevoli obiezioni che riceve, da destra prima ancora che da sinistra. Perché ha preferito anteporre quota 100 alla flat tax? perché aumentare ancora il debito pubblico, scaricando sulle generazioni future la fame di consenso elettorale di Lega e Cinque Stelle? come mai i rimpatri sono così pochi? perché non si occupa di firmare nuovi accordi con i paesi africani, come aveva promesso in campagna elettorale?
Così facendo Salvini si sta sempre più riconfigurando come il punto di riferimento di una parte soltanto degli italiani, di cui spesso non fa che esasperare gli animi, e di fatto sta rinunciando a convincere la maggioranza dei cittadini delle sue buone ragioni. E’ un peccato, un vero peccato, perché quelle ragioni, disgiunte dal modo brutale e talora volgare con cui sono affermate, esistono e sono condivise da moltissime persone, indipendentemente dal fatto che elettoralmente scelgano la Lega o un altro partito. Di tali ragioni, probabilmente la più importante è la richiesta di legalità e di ordine. Agli italiani, popolo tradizionalmente propenso a ignorare o aggirare le regole, piace sempre di meno vivere in un paese in cui gruppi sempre più ampi e spregiudicati di persone, italiane e straniere, se ne infischiano della legalità, e spesso di tale atteggiamento si mostrano persino fiere. Migranti che entrano disordinatamente in Italia per lo più senza avere alcun diritto allo status di rifugiato. Gruppi, di italiani e di stranieri, che spadroneggiano nelle periferie delle nostre città. Occupanti di case popolari che si appropriano di alloggi cui altri avrebbero diritto. Forze politiche che teorizzano che chi difende una buona causa ha tutto il diritto, e forse addirittura il dovere, di non rispettare le leggi, come è successo di recente con i sindaci che si rifiutano di applicare il decreto sicurezza, ma anche con il consenso che il “reato a fin di bene” dell’elemosiniere del Papa (ridare la corrente a chi non paga le bollette) ha ricevuto a sinistra.
Ebbene, tutto questo ha stancato una parte considerevole degli italiani. Salvini, ha avuto il merito di intercettare e dare una voce a questo sentimento collettivo, che è di esasperazione ma anche di rivolta morale contro una situazione giudicata ingiusta. Non si capisce perché la maggioranza dei cittadini debba rispettare le leggi, fino al punto di accettare le innumerevoli vessazioni cui vengono sottoposti dalla burocrazia, dal fisco e da una giustizia lenta e farraginosa, e altri cittadini possano invece sottrarsi ad ogni regola, o incassare tutti i benefici della benevolenza pubblica e privata senza sottostare ad alcun dovere. Non si capisce perché in certi territori lo Stato si comporti in modo vessatorio, e in altri non osi neppure mettere piede. Non si capisce perché chi commette ripetutamente reati quasi mai sconti una pena in carcere. Non si capisce perché a decine, forse centinaia di migliaia di stranieri, sia consentito girare senza documenti, o con documenti falsi, mentre da tutti gli altri si esige che abbiano i documenti in regola.
Questi pensieri e questi vissuti, contrariamente a quanto amano pensare le persone più accecate dall’ideologia, non sono appannaggio di una minoranza ultrapoliticizzata, xenofoba e razzista, ma sono condivisi dalla maggior parte degli italiani, e segnatamente dai ceti popolari, che hanno una visione concreta dei problemi. Quante volte abbiamo sentito, in questi mesi, operai ed ex militanti comunisti dichiarare convintamente di votare Salvini, senza per questo cessare di definirsi comunisti, di sinistra, progressisti. E’ questo che, fin dall’inizio, ha sempre fatto la forza della Lega, un partito che già nei primi anni ’90 veniva votato da impiegati e operai “con in tasca la tessera della CGIL”.
Ora tutto questo rischia di appannarsi. Se continuerà sulla strada imboccata negli ultimi mesi, quella di rivolgersi essenzialmente alla parte più radicale ed esasperata del suo elettorato, sollecitandone gli istinti peggiori, Salvini difficilmente potrà mantenere il consenso che ha rapidamente conquistato in un anno di governo. Perché quel consenso non era solo dovuto alla sua capacità di parlare chiaro, e di comprendere lo stato d’animo di tanti italiani, ma anche alla sua volontà di rivolgersi a tutti, non solo ai suoi fan più accesi. Insomma, radicalizzando ed esasperando il suo volto feroce, Salvini rischia non solo di perdere consensi, ma anche di infliggere un duro colpo alle idee generali che hanno guidato la sua azione.
Non sarebbe una buona cosa, perché una parte di quelle idee, prima fra tutte l’esigenza di mettere un freno all’anarchia della società italiana, erano sacrosante, e condivise da un pubblico che va ben al di là del perimetro della Lega.

Articolo pubblicato su Il Messaggero