L’esperimento – Accordo con l’Albania

Alle volte gli economisti mi stupiscono per la loro ingenuità. L’ultima volta che mi è successo è stato sabato scorso, leggendo su Repubblica un articolo di Tito Boeri e Roberto Perotti (due fra i miei economisti preferiti) sul progetto Meloni-Rama di delocalizzare in Albania 36 mila richieste di asilo l’anno, costruendo ex novo due appositi centri con una capacità totale di 3000 richiedenti asilo. Il nocciolo del ragionamento dei due illustri economisti è il seguente: il numero effettivo di domande smaltite sarà inferiore a 3000 all’anno perché il tempo medio di processamento delle richieste è 12 mesi, non 4 settimane.

In effetti, è quel che si insegna in vari corsi universitari, innanzitutto quelli di ingegneria gestionale, quando si spiega la formuletta che collega le vendite annuali con lo stock di merci in magazzino e il loro tempo medio di giacenza: se devo vendere 36000 e il mio magazzino tiene 3000 allora devo rinnovare il magazzino 12 volte l’anno. Banale, e leggermente cinico, visto che stiamo parlando di essere umani.

Però la formula è ineccepibile, come tutte le identità contabili. Il punto è un altro: perché mai il tempo di smaltimento delle domande dovrebbe essere 12 mesi, o addirittura superiore?

La risposta di Boeri e Perotti è: perché in Veneto, dove le cose vanno meglio che altrove, gli “operatori del settore” ci hanno detto che ci vogliono almeno 12 mesi. E, se accettiamo questa stima e la infiliamo nella formula di magazzino, salta fuori che non potremo processare più di 3000 domane e anzi, tenuto conto di altri fattori rallentanti, ne finiremo per processare circa 2000, con costi pro capite enormi, visti i costi fissi che i due centri albanesi comporteranno.

Ma la vera domanda è perché mai, in una struttura nuova di zecca, e dedicata solo alla gestione dei migranti, i tempi di smaltimento delle domande dovrebbero essere quelli medi attuali sul territorio della penisola, dove le questure sono sovraccariche (come gli ospedali!), le procedure sono complicate e farraginose (anche per il coinvolgimento di enti del terzo settore), e alle carenze di personale nelle questure e nelle commissioni territoriali non si riesce a porre rimedio?

E se accadesse invece esattamente l’inverso, ossia che proprio in Albania – e solo in Albania – i migranti potessero esercitare il diritto di essere ascoltati in tempi ragionevoli, senza le umiliazioni, le peregrinazioni, le infinite attese cui da sempre sono costretti in Italia?

In breve: la capacità effettiva dei due centri albanesi (36000 domande, o solo 2000?) non è determinabile con una formula contabile, ma è un interessante problema di sociologia dell’organizzazione. Può darsi benissimo che le cose vadano come prevedono Boeri e Perotti, e persino che vadano peggio: se a oltre 20 anni dal varo della legge Bossi-Fini nessun governo è riuscito a oliare gli ingranaggi della burocrazia dell’accoglienza, è possibilissimo che non ci riesca nemmeno questo governo.

Ma perché non dargli una chance? O, perlomeno, augurarsi che in Albania le cose vadano meglio che sul suolo italiano? Perché scommettere sempre e solo sul fallimento dei tentativi italiani di gestire il problema degli sbarchi? Perché le menti più brillanti di questo paese, anche quando sono chiaramente collocate nel campo riformista, si ingegnano soltanto a profetizzare fallimenti, anziché a dare idee su come correggere quel che non va e far riuscire l’esperimento?

Forse, una vera sinistra riformista, liberale, empirista, deve ancora nascere in Italia. Perché, se ci fosse, la sua stella polare sarebbe l’interesse nazionale, non la speranza – neanche poi tanto segreta – che l’esperimento albanese si riveli l’ennesimo flop.




Immigrazione ed elezioni europee – Perché la destra è in pole position

Mancano 9 mesi alle prossime elezioni Europee, e si sente dire che la relativa campagna elettorale è già iniziata. Non mi sembra esatto, almeno in Italia. Quel che si osserva, negli ultimi mesi, è semmai un penoso tentativo dei partiti (specie quelli di governo) di differenziarsi sulla politica interna, mentre quasi nulla sulle grandi tematiche europee – dal patto di stabilità all’immigrazione – né sul problema politico fondamentale: con quale maggioranza la Commissione europea governerà il Vecchio continente?

Eppure questo è il punto cruciale. Accade infatti che, per la prima volta dal 1979 (primo Parlamento Europeo), esiste la concreta possibilità che l’alleanza Popolari-Liberali-Socialisti, che ci ha governati per 45 anni, non abbia più i numeri per governare.  È tutt’altro da escludere, infatti, che i due raggruppamenti di destra (Identità e Democrazia, Conservatori e Riformisti), che attualmente occupano il 18% dei seggi, si rafforzino al punto da rendere numericamente possibile una maggioranza con i Popolari, attualmente al 25%: lo spostamento elettorale necessario per tale ribaltamento è dell’ordine di 7 punti percentuali, che sono tanti ma non tantissimi. Questa eventualità, più che regalarci un governo di destra (impraticabile finché il Partito Popolare manterrà lo sbarramento contro l’estrema destra), si tradurrebbe in una fortissima instabilità, fino alla sostanziale paralisi delle istituzioni europee. Una prospettiva non proprio esaltante.

Ma che cosa rende verosimile l’ipotesi di un successo delle destre in Europa?

Fondamentalmente il combinato disposto di due circostanze: l’aggravamento del problema migratorio, particolarmente acuto in Italia; la rimozione del problema da parte dei maggiori partiti progressisti europei.

Che il problema migratorio sia in cima alle preoccupazioni di alcune opinioni pubbliche europee si indovina dai risultati elettorali e dai sondaggi più recenti, che segnalano il rafforzamento dei partiti ostili all’immigrazione. Oltre al recente successo della coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni, si debbono ricordare: l’avanzata di Alternative für Deutschland in Germania (elezioni politiche e sondaggi), il rafforzamento del Rassemblement National in Francia (elezioni legislative), le recenti clamorose vittorie delle destre in Svezia, Finlandia, Grecia. In apparente controtendenza, i risultati elettorali in Spagna (dove il partito xenofobo Vox ha perso colpi) e in Danimarca (dove la premier socialdemocratica Mette Frederiksen è tornata a guidare il paese).  Dico “apparente” controtendenza perché sia in Spagna sia in Danimarca il consenso elettorale complessivo ai partiti di destra e centro-destra è in realtà aumentato, sia pure di poco.

Il caso danese merita una speciale attenzione. In Danimarca i socialdemocratici, con il 27.5% dei consensi, hanno ottenuto il miglior risultato di sempre, e hanno scelto di formare un governo di grande coalizione (“né rossa né blu”, secondo la premier) con gli altri due maggiori partiti, ossia liberali e i moderati. Il punto interessante, però, è con che tipo di messaggio i socialdemocratici hanno affrontato – e vinto – la prova elettorale. Per mesi, al centro del dibattito politico danese vi è stata la proposta, caldeggiata dai socialdemocratici stessi, di collocare in Rwanda o in qualche territorio straniero una parte dei migranti.

Ed ecco il punto chiave: anche se con ogni probabilità la proposta non sarà attuata, o sarà annacquata in qualcosa d’altro, il fatto è che i socialdemocratici hanno riconquistato la fiducia dell’elettorato mostrando che prendono sul serio il problema dell’immigrazione. Una sorta di variante nordica della “linea Minniti”, che in Italia ebbe breve durata, almeno a sinistra.

Nulla di tutto ciò pare muoversi nelle altre socialdemocrazie europee. Anzi, l’atteggiamento della Commissione è di “comprendere” l’esistenza del problema, ma di essere decisa a non far nulla prima del rinnovo del Parlamento europeo, il prossimo giugno. Ecco perché penso che i partiti di destra, radicale o estrema, abbiamo ottime possibilità di fare un grosso risultato alle prossime elezioni europee. Negare o sottovalutare il problema dei migranti è il più grande regalo che i partiti di sinistra possano fare alle forze politiche di destra.




Migranti, i soliti due errori

A dispetto dei raduni negazionisti, ultimo in ordine di tempo quello avvenuto in Senato pochi giorni fa, sono sempre meno numerose le persone che credono che l’epidemia sia un ricordo del passato, e che la situazione sia “sotto controllo”. E hanno perfettamente ragione. La curva dei contagi ha dato segni di peggioramento già a metà giugno, e settimana dopo settimana continua a darne, come da un po’ di tempo riconoscono le stesse autorità sanitarie, preoccupate che – all’improvviso – la situazione possa sfuggire di mano. Né le cose vanno meglio sul fronte ospedaliero, dove, quatti i quatti, da una settimana gli ingressi di nuovi pazienti sono tornati a superare il numero dei morti e dei dimessi.

La ragione per cui le cose non sono ancora precipitate non è, però, il buon comportamento degli italiani. La ragione vera, a mio parere, è che, in questo momento, mancano i tre propellenti fondamentali della diffusione del virus: la stagione fredda (con il suo corredo di nebbia, umidità e smog), la vita al chiuso, ma soprattutto una base di soggetti contagiosi sufficientemente ampia. Ho provato a fare una stima del numero di soggetti contagiosi nel mese di luglio e a confrontarla con quella di fine febbraio, quando l’epidemia partì senza che nessuno si fosse accorto di quel che stava accadendo. Ebbene, il confronto è impressionante: il numero di persone contagiose era, allora, circa 100 volte quello attuale (se volete gli ordini di grandezza: circa 20 mila persone a luglio, circa 2 milioni di persone a fine febbraio).

In concreto, questo significa che a febbraio, in media, incontravamo una persona contagiosa ogni 30, oggi ne incontriamo una ogni 3000. E’ questo, innanzitutto, che ci protegge, non la nostra autodisciplina.

Ma se questa, a grandi linee, è la situazione, allora il problema è di evitare che si ripeta quel che avvenne allora: e cioè che il virus circoli a lungo sottotraccia, senza che ci accorgiamo che il numero di contagiati sta crescendo vertiginosamente, salvo poi – d’improvviso – ritrovarci con gli ospedali ingorgati e le terapie intensive piene. E’ questo lo scenario verso cui ci stiamo avviando?

Per certi versi no, perché i sistemi di allerta sono oggi molto più funzionanti di 6 mesi fa, e quasi sicuramente – se le cose dovessero volgere al peggio – ce ne accorgeremmo intorno a quota 100 o 200 mila, non intorno a quota 1 o 2 milioni di infetti. Ma il punto è che sarebbe comunque troppo tardi, perché una base di 200 mila persone contagiose, in regime di relativo rilassamento, ci mette pochissimo a propagarsi e moltiplicarsi, rendendo la situazione di nuovo incontrollabile.

La domanda quindi diventa un’altra: stiamo facendo tutto il possibile per evitare che la situazione sfugga di mano?

Qui la risposta è risolutamente no. Non solo non stiamo facendo quel che occorrerebbe per limitare i rischi, ma stiamo ripetendo alcuni degli errori che abbiamo già commesso a febbraio, all’inizio dell’epidemia.

Allora commettemmo due errori fatali, che costarono migliaia di morti in più.

Il primo fu di minimizzare la gravità della situazione, e mettere il freno ai tamponi, per non danneggiare il turismo. Ve lo ricordate Luigi Di Maio che, in piena emergenza sanitaria, dichiara che “l’Italia è un paese sicuro”, e che il problema riguarda solo lo 0.1% dei comuni italiani? E Walter Ricciardi, fresco di nomina a consigliere del ministro della sanità, che critica il Veneto per i troppi tamponi, e pare preoccuparsi solo dell’immagine dell’Italia all’estero?

Il secondo errore fu di non bloccare i voli indiretti dalla Cina, e persino di incoraggiare i contatti con la comunità cinese (scuole e ristoranti), il tutto in ossequio al sacro terrore di apparire razzisti, discriminatori, o politicamente scorretti.

Ebbene oggi stiamo ripetendo, pari pari, quei due medesimi errori. Per salvare la stagione turistica, abbiamo riaperto i voli alla maggior parte dei paesi ricchi, compresi quelli più pericolosi non solo e non tanto per la diffusione del virus ma per la massa di persone intenzionate a trascorrere le vacanze in Italia. Avessimo tenuto conto del potenziale di ingressi di persone contagiose di ogni paese, avremmo dovuto mettere al primo posto della black list gli Stati Uniti, ma anche Regno Unito, Svizzera, Francia, Germania, Russia, Belgio, Israele, solo per citare alcuni dei paesi per noi più pericolosi.

E poi c’è il secondo, clamoroso, errore: gestire un’epidemia, ossia un problema sanitario, facendosi guidare dalle preoccupazioni ideologiche anziché dell’imperativo di tutelare la salute dei cittadini. Lo abbiamo commesso con la Cina a febbraio, lo ripetiamo oggi con i migranti in generale, e con gli sbarchi dall’Africa in particolare.

Non voglio qui ricordare, uno per uno, i focolai che negli ultimi 30 giorni sono scoppiati in varie comunità straniere, né riportare una per una le cifre, impressionati, della percentuale di positivi fra i migranti sbarcati dall’Africa. Mi limito a un’osservazione statistica: abbiamo (giustamente) introdotto l’obbligo di quarantena per gli ingressi dalla Romania, il cui numero di infetti è 15 volte quello dell’Italia, ma sembriamo ignorare che la percentuale media di positivi fra gli sbarcati (nei casi in cui sono stati effettuati e comunicati i risultati dei test), è del 19.1%, tra 50 e 100 volte quella di chi proviene dalla Romania. Per non parlare della politica verso la Tunisia, arditamente inclusa fra i paesi extra-Ue ed extra-Schengen da cui si può arrivare senza troppi vincoli, pur sapendo che è il paese che più di tutti alimenta gli sbarchi irregolari in Italia.

Ora che la frittata è fatta, il ministro dell’Interno Lamorgese dichiara “inaccettabili tutti questi sbarchi”, come se non vedesse il nesso fra la politica di apertura e di accoglienza fin da subito proclamata dal suo governo, e l’aumento degli sbarchi, quasi quadruplicati rispetto ai tempi di Salvini, e ora infinitamente più preoccupanti per i rischi sanitari che comportano.

Ma facciamocene una ragione. La priorità degli attuali governanti non è risolvere il problema dei flussi migratori, ma è marcare la discontinuità con il governo precedente, ripristinando la politica dell’accoglienza, cancellando i decreti sicurezza, mandando a processo chi li aveva concepiti. Che tutto ciò possa avere un prezzo, in termini di salute pubblica, di coesione sociale, se non di democrazia (come temeva Marco Minniti), a loro non sembra importare molto.

Speriamo solo che, a pagare il conto finale, non siano chiamati i cittadini italiani, quando l’epidemia dovesse rialzare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 1 agosto 2020




Il partito che non c’è

Ma chi ha vinto il match fra Renzi e Salvini, andato in onda martedì notte a “Porta a Porta”?

Se badiamo solo all’efficacia comunicativa, credo sia solo una questione di gusto, tanto diverse sono state le due prestazioni. Alla dialettica puntigliosa e sferzante di Renzi, Salvini ha risposto nel solito modo un po’ grezzo, ma tutto sommato efficace, con cui suole cercare (e ottenere) il consenso dei ceti popolari.

Ma se andiamo alla sostanza, alla forza delle argomentazioni dei due contendenti, le cose cambiano notevolmente. Nello scontro fra “i due Mattei” non è andato in scena un match unico, più o meno dominato da uno dei due contendenti, ma sono andati in scena due match distinti, uno sull’immigrazione, l’altro sulla politica economica (e in particolare su “quota cento”).

Il match sull’immigrazione lo ha nettamente vinto Salvini, quello sulla politica economica l’ha vinto nettamente Renzi. Se pareggio c’è stato, non è perché gli argomenti dei due contendenti si sono equivalsi, ma perché ciascuno di essi ha stravinto sul proprio terreno, e perso rovinosamente sul terreno altrui.

Sull’immigrazione, e in particolare sul problema degli sbarchi, Renzi ha tentato invano di far credere che la differenza fra il numero di arrivi quando governava lui (170 mila all’anno) e il numero di arrivi quando al Ministero dell’interno c’era Salvini (meno di 9 mila l’anno) sia attribuibile al cambiamento della situazione in Libia, piuttosto che ai differenti segnali provenienti dai governi italiani in carica. Né gli è riuscito di nascondere che, sotto il nuovo governo giallo-rosso, gli sbarchi sono quasi triplicati, e che nell’ultima tragedia in mare Salvini non c’entra nulla.  Così come non gli è stato possibile negare che, con i “cattivi” al governo, il numero assoluto di morti in mare è diminuito, e tanto meno nascondere che, con i “buoni” al governo, l’accoglienza sia stata un disastro. Insomma, sull’immigrazione Renzi ha mostrato di non avere idee concrete, ma solo posizioni morali e formule retoriche.

Sulla politica economica, tuttavia, le cose si sono capovolte. Specie su “quota 100” (la norma che permette di andare in pensione prima) Renzi è stato molto convincente. Le cifre che ha presentato sul costo di “quota 100” sono leggermente esagerate (20 miliardi in 3 anni), ma la sostanza del suo discorso è perfettamente corretta: quota 100 non è sbagliata in sé, ma costituisce una incredibile dissipazione di risorse pubbliche a favore di una piccola minoranza di anziani, e nemmeno dei più bisognosi. Con una cifra comparabile (9 miliardi l’anno), Renzi era riuscito a dare sollievo ai bilanci di milioni di famiglie. E, di nuovo con una cifra analoga, Renzi era riuscito – grazie alla decontribuzione – a dare un po’ di ossigeno alle imprese, e per questa via imprimere una spinta all’occupazione.

La posizione di Renzi, che considera sprecati 10 o 20 miliardi a favore di poche centinaia di migliaia di anziani, quando con la medesima cifra si potrebbero fare cose ben più utili, è tanto più giustificata se riflettiamo su una circostanza: tutti gli studi sulla diseguaglianza concordano sul fatto che l’unica vera, clamorosa e macroscopica diseguaglianza fatta esplodere dalla crisi è quella fra anziani (in particolare pensionati) e giovani (in particolare minori). I giovani hanno visto drammaticamente ridotti i redditi, le possibilità di occupazione, le prospettive future, minacciate dal declino generale del Paese, ma anche dall’aumento del debito pubblico, che oggi serve (anche) a finanziare “quota 100”, e domani dovrà essere ripagato innanzitutto dai figli e nipoti dei beneficiari degli attuali pensionamenti anticipati. Su questo Salvini non è stato in grado di replicare alcunché di convincente, esattamente come Renzi nulla di convincente era stato in grado di dire sul contenimento degli sbarchi. Dunque: su “quota 100” Renzi batte Salvini 3 a 0.

Se devo riassumere, direi: Salvini non ha in tasca la soluzione miracolosa per il problema dell’immigrazione clandestina ma, agli occhi di buona parte degli italiani (compresi molti ex elettori del Pd), ha il merito di non negare il problema, e di aver tentato una strada per risolverlo; Renzi non ha la soluzione in tasca per il problema della condizione giovanile, ma ha il merito di averne capito la centralità, e soprattutto l’assoluta priorità rispetto alle pur comprensibili aspirazioni degli anziani.

Un partito non negazionista sul problema dell’immigrazione irregolare, e capace di rompere con l’assistenzialismo pro-pensionati, sarebbe assai utile all’Italia. Perché le preoccupazioni popolari per l’insicurezza delle periferie, o per la concorrenza degli immigrati su salari e accesso al welfare, sono semplicemente sacrosante; e, d’altro canto, la sconfitta dell’assistenzialismo è una precondizione cruciale per non rendere irreversibile il declino economico e sociale del nostro paese.

E tuttavia, curiosamente, un tale partito non esiste, né a sinistra né a destra. Renzi e il Pd, dopo la marginalizzazione di Marco Minniti e la demonizzazione di Salvini, hanno dimostrato chiaramente che il problema dell’immigrazione non riescono a vederlo, e tanto meno ad affrontarlo. Lega e Cinque Stelle, d’altro canto, sono stati capaci di governare insieme solo spartendosi i rispettivi assistenzialismi: “quota cento” per soddisfare le voglie politiche di Salvini, reddito di cittadinanza per soddisfare quelle di Di Maio.

E’ come se, nello spazio politico, ci fosse posto per tutte le combinazioni, ma non per l’unica che servirebbe. C’è chi vede il problema dell’immigrazione, ma non riesce a rinunciare all’assistenzialismo (Lega e Cinque Stelle). C’è chi vede il pericolo dell’assistenzialismo, ma è cieco di fronte ai problemi dell’immigrazione (Italia viva e +Europa). E c’è, infine, chi non si nega nulla: il Pd e l’estrema sinistra non vedono né il problema dell’immigrazione, né i pericoli dell’assistenzialismo e della spesa in deficit.

A quanto pare, nonostante ci siano una decina di partiti, partitini e aspiranti-partito a sinistra, e quasi altrettanti a destra, l’unica cosa che il sistema politico italiano non sembra in grado di partorire è una forza politica che sia anti-assistenziale in politica economica, e non cieca sui problemi dell’immigrazione e della sicurezza. Una stranezza, e un vero peccato.

Articolo pubblicato sul Il Messaggero del 17 ottobre 2019



Proteggere lo stile di vita europeo?

Ha suscitato sentimenti diversi, dalla semplice curiosità all’indignazione, il fatto che uno degli otto vicepresidenti della Commissione Europea, il greco Margaritis Schinas, sia stato nominato «Commissario per la Protezione dello stile di vita europeo».

A qualcuno è sembrato curioso che, con tutti i problemi urgenti e concreti che ha l’Europa, occorra addirittura un Commissario per proteggere il nostro stile di vita, quasi fossimo una colonia di castori in estinzione, che rischia di smarrire la capacità di costruire tane, dighe e laghetti artificiali.

Poi però si è capito: il nuovo Commissario dovrà occuparsi soprattutto di immigrazione. Dunque, ragionano alcuni, sono gli immigrati la minaccia da cui dobbiamo essere protetti. Di qui il passaggio all’indignazione è immediato, nel clima di oggi. Su tutte spicca la reazione di Amnesty International che, dopo aver notato che “le persone che hanno migrato hanno contribuito allo stile di vita dell’Europa nel corso della sua storia”, perentoriamente ci ricorda che “lo stile di vita europeo che l’Ue deve proteggere è quello che rispetta la dignità umana e i diritti umani, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza e lo Stato di diritto”.

Anche la presidente Ursula von der Leyen, che quell’incarico ha concepito e assegnato, accusa un certo imbarazzo, e gioca sulla difensiva: “Il nostro stile di vita europeo sostiene i valori e la bellezza della dignità di ogni singolo essere umano”.

Qual è il problema, dunque?

Il problema sta nel programma politico della von der Leyen, e nel non detto della (apparentemente) strana associazione fra migranti e protezione dello stile di vita europeo. A giudicare da quanto scritto e dichiarato fin qui, gli obiettivi finali della nuova politica migratoria europea sono tre: (a) accogliere chi ha diritto allo status di rifugiato; (b) rimpatriare chi non ha diritto ed entra illegalmente in Europa; (c) selezionare i migranti economici in base alle esigenze e alle disponibilità di posti degli stati europei (un modello molto elogiato quando a praticarlo è il Canada, ma guardato con sospetto se a ipotizzarlo è l’Unione Europea).

Alla base di questo “vasto programma”, tuttavia, non c’è solo l’idea (di puro buon senso) che in Europa si debba entrare solo legalmente. A mio parere c’è anche l’idea che, alla lunga, ingressi massicci e incontrollati (come quelli dell’era pre-Minniti) mettano a rischio il nostro modo di vivere, ossia abitudini, costumi, tradizioni, regole di comportamento che la maggior parte dei cittadini europei preferirebbe conservare, e che una parte non trascurabile dei migranti invece non sa o non vuole rispettare. Non penso solo al tasso di criminalità (che fra gli stranieri è oltre il quadruplo che fra i nativi), o alla formazione nelle città di enclaves etniche impenetrabili, ma più in generale alla condizione delle donne (mogli e figlie) in diverse famiglie di religione islamica. Fra i valori che la stragrande maggioranza degli europei preferirebbe vedere tutelati vi sono anche cose come la separazione fra credo religioso e politica, o il rispetto della libertà (e del corpo) della donna, due cose che nei virtuosi elenchi di “veri” valori europei vengono stranamente ignorate.

Ecco perché la levata di scudi contro Ursula von der Leyen lascia perplessi. Si può essere contro i confini, volere l’accoglienza erga omnes, e pensare che i migranti siano sempre una risorsa e un’opportunità per l’Europa. Si può pensare che i contatti e le ibridazioni fra culture siano fondamentalmente un arricchimento per tutti, e che l’Europa possa soddisfare senza limiti la domanda di approdo sulle nostre coste che proviene dall’Africa e dal Medio Oriente. Si può persino pensare che un tasso di criminalità degli stranieri molto più alto di quello dei nativi sia tollerabile, o sia solo l’effetto degli ostacoli che gli Stati europei frappongono all’immigrazione irregolare.

Ma si dovrebbe anche rispettare chi è di diversa opinione, e pensa che un’Europa in cui africani e islamici fossero in maggioranza (un evento che, a politiche invariate, richiede pochi decenni) sarebbe meno vivibile di quella di oggi. O chi pensa che una comunità politica abbia tutto il diritto di decidere chi ammettere a farne parte e chi no. Bollare come razzisti, fascisti, reazionari tutti coloro che non aderiscono all’ideologia dell’accoglienza indiscriminata è profondamente incivile, e in patente contraddizione con i valori europei di tolleranza, apertura e dialogo.

E’ paradossale. Per anni i governanti europei sono stati accusati di ignorare le preoccupazioni e i sentimenti dei comuni cittadini. L’ascesa del populismo è stata (giustamente) ricondotta a questa sordità dell’establishment europeo, incapace di cogliere la domanda di protezione, non solo economica, che veniva dalla gente. Ed ora che quella medesima domanda mostra di ricevere qualche ascolto, al punto da istituire un Commissario che se ne occupi, anziché prenderne atto con soddisfazione, non si trova di meglio che mettere alla sbarra Ursula von der Leyen, ossia il primo governante europeo che mostra di non ignorarla.

Stranezze della politica. O forse sarebbe meglio dire: ambiguità e debolezze degli europeisti doc. Per i quali l’Europa non andava bene prima, perché troppo lontana dalla gente, ma va ancora meno bene adesso, perché ha scelto di ascoltare la gente sbagliata.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 14 settembre 2019