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Aiutarli a casa loro? – Perché non basta un piano Mattei

25 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Chi sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste?

Nessuno lo sa con ragionevole precisione, perché su tutto si fanno sondaggi “scientifici” tranne che su chi arriva in Italia dal mare. Certo, di norma sappiamo il paese di provenienza, il sesso, l’età (o meglio l’età dichiarata), ma su tutto il resto siamo costretti a barcamenarci con frammenti di informazione, o a lavorare di fantasia.

È così che si è formata, in parte dell’opinione pubblica, nei media, nel mondo della Chiesa, fra gli scrittori, gli studiosi, gli artisti, un’immagine stereotipata dei migranti, dipinti come disperati, poveri, perseguitati, “costretti a lasciare la propria terra a causa di conflitti armati, di attacchi terroristici, di carestie, di regimi oppressivi” (parole di Papa Francesco).

Va subito detto che una parte dei migranti sono proprio così. Ed è per questo che esiste il diritto d’asilo, e una frazione dei migranti, dopo aver fatto domanda, ottiene lo status di rifugiato, o altre forme di protezione (come quella sussidiaria e quella umanitaria). Ma la domanda è: quanti sono i migranti che corrispondono allo stereotipo?

I dati frammentari di cui disponiamo suggeriscono che siano una minoranza. Vediamo perché. Innanzitutto, le domande di asilo accettate: il loro numero varia considerevolmente nel tempo, ma non ha mai raggiunto il 20%, e in molti anni è stato inferiore al 10%. Anche includendo le forme di protezione più deboli, come quella sussidiaria e quella umanitaria, si resta abbondantemente sotto il 50%. Oggi oltre il 60% dei migranti non ha diritto ad alcuna forma di protezione, e cade quindi nello status di irregolare.

Si potrebbe ipotizzare, nondimeno, che a migrare siano soprattutto gli ultimi, sospinti dalla povertà e dalla fame. Ma anche questo è incompatibile con i dati. Che mostrano invece come una frazione considerevole dei migranti sia costituita da persone che, nel loro paese, appartenevano al ceto medio. Per rendersene conto, basta confrontare il livello medio di istruzione degli immigrati approdati in Italia con quello, enormemente più basso, dei loro connazionali nei paesi di provenienza. Oppure riflettere sul costo del viaggio. Spesso ce ne dimentichiamo, ma il “biglietto di viaggio” che i trafficanti di uomini fanno pagare ai migranti (3-4-5 mila euro) è certo alto per i nostri parametri occidentali, ma è mostruosamente esoso per chi vive in paesi il cui Pil procapite è 5, 10, 20 volte più basso del nostro: chiedere 5 mila euro a un cittadino tunisino, è come chiederne 50 mila a un italiano. Inevitabile porsi la domanda: con questi prezzi, come si fa a pensare che a migrare siano soprattutto i più poveri e disperati?

Il fatto che una parte considerevole dei migranti siano migranti economici, che nei loro paesi appartengono al ceto medio e partono perché aspirano a una vita più libera e meno disagiata, è importante per due motivi, entrambi inquietanti. Il primo è che così le migrazioni tendono a depauperare l’Africa delle sue risorse umane migliori, un po’ come succede all’Italia con il flusso di laureati e diplomati verso paesi più ricchi e meritocratici. Il rischio è che iniziative pur lodevoli, come il piano Mattei, stentino a decollare perché i migliori e più intraprendenti sono già andati via, mentre quelli rimasti continuano a sognare il trasferimento in Europa, quali che siano i progressi – inevitabilmente lenti – delle società di origine.

Il secondo motivo di preoccupazione ha a che fare con il sistema di incentivi alla migrazione. Se è vero che il motore principale del flusso di migranti verso l’Europa  non è la spinta della povertà (del paese d’origine) ma l’attrazione per la ricchezza (del paese d’arrivo), allora non possiamo non vedere che la domanda di ingresso in Europa sarà sempre più elevata, molto più elevata, della disponibilità di posti. E che l’apertura di canali regolari, con conseguente crollo del biglietto di ingresso in Europa, non potrà che ampliare a dismisura lo squilibrio fra domanda e offerta.

Di qui una conclusione amara, ma difficile da evitare: il piano Mattei è un’ottima cosa, ma pensare che “aiutarli a casa loro” possa essere la soluzione è una ingenuità che l’Europa non si può permettere. Forse è giunto il momento di prenderne atto: esistono anche problemi che non hanno soluzione. Conciliare il diritto di chiunque di cambiare paese è incompatibile con il diritto dei popoli di scegliere chi accogliere. Per questo, chiunque governi e qualsiasi cosa faccia, sentiremo sempre che qualcosa di importante è andato perduto.

Verso le elezioni europee – Il dilemma migratorio

12 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Di elezioni europee si parla ancora poco, almeno in modo esplicito. Ma sottotraccia è lì che vanno la mente e le mosse dei politici, che già pensano come posizionarsi in vista del voto di giugno 2024. Fra i temi di cui non si parla ancora in modo esplicito, ma che pendono come una spada di Damocle su tutti, c’è sicuramente lo spinosissimo nodo dell’immigrazione illegale in Europa. Un nodo che in Italia si presenta con tre facce: sbarchi a Lampedusa e negli altri porti del Sud, ingressi a Trieste dalla rotta balcanica, respingimenti francesi a Ventimiglia.

È interessante il fatto che, rispetto a questo problema, le forze politiche siano sostanzialmente mute. Non nel senso che non ne parlino, ma nel senso che non parlano delle soluzioni.

Il centro-destra pare ormai rassegnato a considerare ineluttabile il flusso di migranti dalla rotta centrale del mediterraneo, almeno finché l’Europa non batterà un colpo (ma quale colpo? più soldi all’Italia? pattugliamenti di Frontex davanti alle coste della Tunisia e della Libia?). Quanto alla rotta balcanica, alla pressione su Trieste e le altre città del Friuli, se ne parla poco perché qualsiasi soluzione si scontra con l’ostilità dei cittadini, spaventati dall’arrivo di centinaia di stranieri collocati in un limbo incapace di accoglierli e di integrarli.

Quanto al centro-sinistra, l’impegno maggiore non è a prospettare soluzioni che vadano oltre il “più soldi ai sindaci per gestire l’accoglienza”, bensì a denunciare le promesse tradite di Giorgia Meloni, a partire da quella di fermare gli sbarchi con il “blocco navale”.

Insomma, sia la destra sia la sinistra paiono a corto di idee, o meglio di idee nuove, per affrontare il prossimo appuntamento europeo. Con ogni probabilità, il Pd si presenterà con il consueto schema: i migranti non sono il problema, i migranti sono la soluzione (ai bisogni di manodopera delle imprese). E magari aggiungeranno: in passato abbiamo sbagliato, è tempo che il Pd cancelli Marco Minniti e le sue politiche di contenimento dei flussi, come già sta cancellando Renzi e il suo sciagurato Jobs Act.

E il partito di Giorgia Meloni? A giudicare dalla cautela con cui si sta muovendo sul terreno migratorio, si direbbe che l’incapacità di fermare gli sbarchi, combinata con i drammatici problemi delle imprese che non trovano forza lavoro, possa condurre a una riconsiderazione del problema dell’immigrazione. I cui termini essenziali sono abbastanza chiari, se non ci si lascia offuscare dal velo dell’ideologia.

Il dilemma in cui qualsiasi governo è destinato ad incappare discende dal sistema di incentivi che regola i flussi migratori. Se l’immigrazione irregolare in Europa viene ostacolata e criminalizzata, i numeri diventano più gestibili, ma cresce la quota di stranieri che non si possono integrare, e con essa il senso di insicurezza dei nativi (a partire dai ceti popolari). Se viceversa l’immigrazione viene liberalizzata, allargando le maglie anche a chi non ha diritto all’asilo, il flusso è destinato a diventare presto ingestibile, con benefici tangibili per le imprese (più manodopera, salari più bassi), ma costi drammatici per i ceti popolari (dumping salariale, disordine urbano). Detto per inciso, è questo il motivo per cui un comunista come Marco Rizzo, ma anche altri esponenti della sinistra, si oppone all’aumento dei flussi migratori.

Il tutto complicato da una circostanza spesso dimenticata: l’affanno delle imprese non riguarda solo la mancanza di manodopera a bassa qualificazione, ma anche – se non prevalentemente – la mancanza di forza lavoro qualificata: elettricisti, meccanici, fonditori, saldatori, fabbri, tecnici informatici e così via. Pensare che questa lacuna possa essere colmata lasciando via libera agli sbarchi e allentando la sorveglianza ai confini con la Slovenia è perlomeno ingenuo.

Ecco perché, quello dell’immigrazione, è un problema vero, che richiederebbe un approccio analitico, attento ai costi e ai benefici delle varie politiche, senza scorciatoie ideologiche. Non sembra che, con l’approssimarsi dell’appuntamento europeo, tale consapevolezza si stia facendo strada, né a sinistra né a destra.

È un peccato, perché i problemi veri meritano di essere affrontati a viso aperto, non elusi a colpi di slogan e ideologia.

Immigrazione ed elezioni europee – Perché la destra è in pole position

6 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

In primo pianoPolitica

Mancano 9 mesi alle prossime elezioni Europee, e si sente dire che la relativa campagna elettorale è già iniziata. Non mi sembra esatto, almeno in Italia. Quel che si osserva, negli ultimi mesi, è semmai un penoso tentativo dei partiti (specie quelli di governo) di differenziarsi sulla politica interna, mentre quasi nulla sulle grandi tematiche europee – dal patto di stabilità all’immigrazione – né sul problema politico fondamentale: con quale maggioranza la Commissione europea governerà il Vecchio continente?

Eppure questo è il punto cruciale. Accade infatti che, per la prima volta dal 1979 (primo Parlamento Europeo), esiste la concreta possibilità che l’alleanza Popolari-Liberali-Socialisti, che ci ha governati per 45 anni, non abbia più i numeri per governare.  È tutt’altro da escludere, infatti, che i due raggruppamenti di destra (Identità e Democrazia, Conservatori e Riformisti), che attualmente occupano il 18% dei seggi, si rafforzino al punto da rendere numericamente possibile una maggioranza con i Popolari, attualmente al 25%: lo spostamento elettorale necessario per tale ribaltamento è dell’ordine di 7 punti percentuali, che sono tanti ma non tantissimi. Questa eventualità, più che regalarci un governo di destra (impraticabile finché il Partito Popolare manterrà lo sbarramento contro l’estrema destra), si tradurrebbe in una fortissima instabilità, fino alla sostanziale paralisi delle istituzioni europee. Una prospettiva non proprio esaltante.

Ma che cosa rende verosimile l’ipotesi di un successo delle destre in Europa?

Fondamentalmente il combinato disposto di due circostanze: l’aggravamento del problema migratorio, particolarmente acuto in Italia; la rimozione del problema da parte dei maggiori partiti progressisti europei.

Che il problema migratorio sia in cima alle preoccupazioni di alcune opinioni pubbliche europee si indovina dai risultati elettorali e dai sondaggi più recenti, che segnalano il rafforzamento dei partiti ostili all’immigrazione. Oltre al recente successo della coalizione di destra guidata da Giorgia Meloni, si debbono ricordare: l’avanzata di Alternative für Deutschland in Germania (elezioni politiche e sondaggi), il rafforzamento del Rassemblement National in Francia (elezioni legislative), le recenti clamorose vittorie delle destre in Svezia, Finlandia, Grecia. In apparente controtendenza, i risultati elettorali in Spagna (dove il partito xenofobo Vox ha perso colpi) e in Danimarca (dove la premier socialdemocratica Mette Frederiksen è tornata a guidare il paese).  Dico “apparente” controtendenza perché sia in Spagna sia in Danimarca il consenso elettorale complessivo ai partiti di destra e centro-destra è in realtà aumentato, sia pure di poco.

Il caso danese merita una speciale attenzione. In Danimarca i socialdemocratici, con il 27.5% dei consensi, hanno ottenuto il miglior risultato di sempre, e hanno scelto di formare un governo di grande coalizione (“né rossa né blu”, secondo la premier) con gli altri due maggiori partiti, ossia liberali e i moderati. Il punto interessante, però, è con che tipo di messaggio i socialdemocratici hanno affrontato – e vinto – la prova elettorale. Per mesi, al centro del dibattito politico danese vi è stata la proposta, caldeggiata dai socialdemocratici stessi, di collocare in Rwanda o in qualche territorio straniero una parte dei migranti.

Ed ecco il punto chiave: anche se con ogni probabilità la proposta non sarà attuata, o sarà annacquata in qualcosa d’altro, il fatto è che i socialdemocratici hanno riconquistato la fiducia dell’elettorato mostrando che prendono sul serio il problema dell’immigrazione. Una sorta di variante nordica della “linea Minniti”, che in Italia ebbe breve durata, almeno a sinistra.

Nulla di tutto ciò pare muoversi nelle altre socialdemocrazie europee. Anzi, l’atteggiamento della Commissione è di “comprendere” l’esistenza del problema, ma di essere decisa a non far nulla prima del rinnovo del Parlamento europeo, il prossimo giugno. Ecco perché penso che i partiti di destra, radicale o estrema, abbiamo ottime possibilità di fare un grosso risultato alle prossime elezioni europee. Negare o sottovalutare il problema dei migranti è il più grande regalo che i partiti di sinistra possano fare alle forze politiche di destra.

E se smettessimo di fingere? Investire contro il cambiamento climatico: ma è la strada giusta?

3 Giugno 2023 - di Luca Ricolfi

EconomiaIn primo pianoPolitica

Quando si parla di Pnrr, la preoccupazione prevalente è di spenderli bene, spenderli tutti, i quattrini che l’Europa ci impresterà. C’è però anche un secondo problema, di cui si parla di meno, o meglio si parla in modo obliquo: per che cosa spenderli.

La risposta canonica è: portare a termine le sei “missioni” indicate dall’Europa, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, dalle infrastrutture alla ricerca, dall’inclusione alla salute. Ma è una risposta convincente?

Forse non del tutto, per vari ordini di ragioni. Intanto perché forte è il rischio che gli enti locali siano chiamati a spendere pur di spendere, senza una chiara e previa individuazione delle priorità. In secondo luogo, perché non è detto che i costi futuri di mantenimento delle nuove opere (infrastrutture e personale) abbiano le dovute coperture. Ma soprattutto perché le due voci principali, digitalizzazione e transizione ecologica (circa 120 miliardi di euro), non sono esenti da rischi e criticità.

Sulla digitalizzazione, andrebbero prese molto sul serio le preoccupazioni, culturali e pedagogiche, che da qualche tempo sono emerse nel mondo della scuola (vedi ad esempio il manifesto “Insegnare contro vento”, firmato da insegnanti e illustri studiosi). Quanto alla transizione ecologica, credo che dovremmo affrontare di petto il dubbio che, pochi anni fa, sollevò Jonathan Franzen nel suo pamphlet E se smettessimo di fingere?  (Einaudi 2020).

Lo riassumo brutalmente. Il riscaldamento globale, ammesso che sia imputabile prevalentemente alle emissioni di anidride carbonica, avremmo avuto qualche chance di contenerlo se avessimo cominciato ad agire con determinazione 30-40 anni fa. Ora non più. Ora è tardi, ora contenere il surriscaldamento anche solo di qualche decimo di grado ha costi enormi, che la maggior parte dei paesi inquinatori non ha la minima intenzione di sostenere, se non altro perché comporterebbe un drastico ridimensionamento del tenore di vita delle popolazioni “virtuose” (pensiamo, per fare giusto due esempi, alle conseguenze delle direttive europee in  materia di auto green e classi energetiche delle abitazioni).

In breve: perché fingere che sia ancora possibile raggiungere un obiettivo che è chiaramente fuori della nostra portata?

Detto così, sembra un messaggio disfattistico, che spegne la speranza, e tutt’al più disturba gli enormi interessi, economici e politici, dell’establishment climatico e delle lobby green. C’è però un risvolto cruciale del ragionamento di Franzen: lo spaventoso  costo-opportunità della “scelta climatica”, ossia del convogliamento di enormi risorse economiche nel tentativo (disperato?) di mitigare di qualche decimo di grado il surriscaldamento globale.

Che cos’è il costo-opportunità di una scelta? È il valore delle alternative cui si rinuncia per il fatto di aver scelto una determinata alternativa a scapito di altre. Se spendi 100 miliardi per fare A, rinunci a tutte le cose (B, C, D,…) che avresti potuto fare con quei soldi se non li avessi spesi per fare A.

Ed ecco l’idea Franzen: “una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente”.

Le alternative cui rinunciamo, in altre parole, sono le innumerevoli azioni il cui scopo non è fermare l’innalzamento delle temperature, ma fronteggiare le sue drammatiche conseguenze. Azioni che, dirottando la maggior parte delle risorse sul cambiamento climatico, non possono essere messe in atto risolutamente, efficacemente, e nella misura necessaria.

La posizione di Franzen è interessante perché non è affatto anti-ambientalista (lo scrittore americano è da anni fra i più impegnati nella difesa dell’ambiente e nella tutela della biodiversità). Quello che Franzen, con il suo piccolo pamphlet, ha provato a fare, è semplicemente di metterci una pulce nell’orecchio: siete sicuri che abbia senso concentrare la maggior parte delle risorse su un problema quasi sicuramente irrisolvibile, quando ci sono innumerevoli problemi ambientali, dal dissesto idrogeologico alla protezione delle foreste, dalla tutela della biodiversità alla gestione dei rifiuti, che possiamo affrontare con successo spostando i nostri investimenti su quei problemi?

Economia cannibale

1 Giugno 2023 - di Luciana Piddiu

EconomiaIn primo piano

Per migliaia di anni le più antiche comunità umane hanno praticato il cannibalismo, o fatto ricorso a sacrifici umani a scopo rituale. Poi si sono stabiliti dei tabù e queste pratiche sono state messe al bando per sempre. Per questa ragione dobbiamo essere ottimisti sulla possibilità di riuscire a superare, nella faticosa strada del divenire umani, anche quella che Jean Daniel Rainhorn, professore dell’Università di Ginevra, chiama ‘economia cannibale’.

Rientrano in questa categoria le pratiche di economia globalizzata neo-liberale che hanno per oggetto di scambio, singole parti del corpo umano o corpi nella loro interezza. Banche -non a caso si chiamano così- del seme e degli ovociti, uteri in affitto per la maternità surrogata, compravendita di gameti, di organi e di patrimonio genetico, traffico di esseri umani per la loro riduzione in schiavitù e/o prostituzione. È una nuova branca dell’economia che cannibalizza gli esseri viventi. Il corpo degli umani è considerato puro assemblaggio di organi e il vivente diventa una risorsa materiale. A chi può permettersi di acquistarlo è riconosciuto il ‘diritto’ o la facoltà di farlo. Questa economia neo-liberale ha progressivamente ridotto gli esseri umani a ‘risorse biologiche’ introducendo un processo di reificazione e riduzione a merce dei soggetti.

Il processo è cominciato negli anni ’80 del Novecento con la pratica della brevettabilità. Sulla spinta di società di bio-ingegneria coadiuvate da genetisti di fama e da una certa lobby di medici sono stati depositati brevetti su organismi viventi, geneticamente modificati e non, e su intere sequenze genetiche, comprese quelle umane.

La filiera del mercato globale per la produzione di bambini come prodotti di qualità (quelli difettosi sono scartati e le madri surrogate in questo caso non vengono pagate) è -dopo la riduzione in schiavitù -la più grande violenza che si possa immaginare fatta a donne e bambini. Ma l’economia cannibale produce enormi profitti.

Un altro ramo fiorente di questa economia è quello legato ai percorsi di transizione da maschio a femmina e viceversa. Percorsi che richiedono un precoce bombardamento ormonale di bambine e bambine al fine di adeguare attraverso la chimica il senso di sé al corpo considerato ‘sbagliato’.

Alcune di queste pratiche sono intimamente legate al filone di pensiero conosciuto come transumanesimo. Se vogliamo sconfiggerle e metterle al bando per sempre è necessario fare un passo indietro e risalire alle riflessioni di alcune pensatrici che con le loro teorie hanno fortemente contribuito all’affermazione di questa deriva .

Donna Haraway col suo Manifesto cyborg (1985) e Judith Butler col suo Gender trouble (1990) hanno ingaggiato vere e proprie colluttazioni teoriche con la carne umana come ha acutamente osservato M.Terragni in un recente articolo.

Judith Butler ha sempre sostenuto che il sesso è costruito culturalmente proprio come il genere, frutto di un atto linguistico performativo. Anche il corpo è dunque una costruzione e non ha un significato prima di essere ‘marcato’ dal punto di vista del genere. La realtà del corpo ha perso ogni consistenza fino a scomparire. E il primo corpo a dover scomparire è quello della donna. Ma il dato biologico cacciato dalla porta finisce col rientrare dalla finestra quando si teorizza la ‘vulnerabilità’ dei corpi viventi (Bodies that matter). Essa non è una costruzione linguistica ma attiene strettamente alla fragilità e mortalità dell’essere umano.

Donna Haraway invece ha spinto fino in fondo le sue riflessioni sulle implicazioni della tecnologia e della scienza sulla vita degli esseri umani. Il cyborg, organismo cibernetico, ibrido tra macchina ed essere umano permette di comprendere come la pretesa ‘naturalità’ dell’uomo sia in realtà una costruzione culturale. Il corpo diventa territorio sperimentazione e di manipolazione. Il corpo smette dunque di essere inalterato e intoccabile: può essere trasformato e gestito a piacimento. Cade il mito che vede il corpo come sede di una naturalità opposta all’artificiosità e crolla di conseguenza il sistema di pensiero occidentale incentrato sulla contrapposizione degli opposti. Il cyborg non è né macchina né uomo, né maschio né femmina. Cadono tutti i confini e tutti i dualismi. Uomo/donna, naturale/artificiale, corpo/mente, umano /animale ecc. In questo percorso Donna Haraway è cosi approdata a quella che J.F. Braunstein definisce zoofilia cosmica. Nel suo ‘Manifesto delle specie compagne’ e nel successivo ‘Quando le specie si incontrano’ esalta la relazione sessuale molto soddisfacente con la sua cagnetta Cayenne Pepper e i suoi baci profondi e umidi. Siamo quindi arrivati a una sorta di butlerismo reale egemonizzato dal mercato che ha saputo intercettare i desideri e le fantasie circolanti per farne prodotti liberamente acquistabili.

Il lavoro da fare per superare le risposte del mercato neoliberale capitalistico è quello di una battaglia culturale e politica profonda e senza compromessi. ‘Liberi di…liberi da ‘ lo slogan che faceva presagire una mitica età dell’oro in cui tutto sarebbe stato concesso (fors’anche l’immortalità) e non ci sarebbero stati vincoli di sorta al desiderio di onnipotenza, ha mostrato crepe insanabili.

Ci si può liberare dagli stereotipi e dalle costrizioni con un assiduo lavoro di introspezione, ma c’è una cosa da cui in nessun modo ci si può liberare: la condizione umana. Quella che Hannah Arendt ha messo al centro della sua riflessione in Vita Activa. ’La condizione umana designa ciò che segna il nostro essere al mondo, quel che non dipende da noi, che ci è dato senza averlo scelto. Ciò da cui si parte. Essa condiziona qualsiasi posizione noi assumiamo nei suoi confronti, compresa quella della sua negazione. Detto in altri termini la sua caratteristica è l’irriducibilità, rappresenta di fatto il limite primo costitutivo da cui non si può prescindere in quanto oltrepassa il nostro controllo e la nostra presa’( D.Sartori).

Questo non impedisce beninteso la nostra libertà che si sperimenta come realtà concreta nello spazio pubblico, nell’agire politico con gli altri esseri umani dando inizio a qualcosa di inedito e di inatteso. É la natalità che designa questo aspetto della condizione umana in virtù della quale siamo capaci di introdurre qualcosa di nuovo .

Per tornare alla differenza sessuale da cui siamo partiti essa non è riducibile al discorso e al linguaggio ma è un dato reale nell’accezione corrente del termine. Le teorie del gender si sono affermate e imposte sulla scia dei rivolgimenti seguiti all’onda lunga del ’68, al ‘vietato vietare’, ’l’immaginazione al potere’….come un vero e proprio imperialismo culturale. Esse hanno cancellato con un colpo di spugna il senso della differenza sessuale, che non attiene soltanto all’ordine simbolico, ma all’ordine di quei dati di fatto irriducibili che lo stesso ordine simbolico deve assumere muovendosi tra la condizione di necessità e quella di libertà. Il taglio della differenza sessuale operato dal femminismo ha rimesso in gioco la linea di demarcazione tra ciò che è possibile e ciò che non lo è. Non siamo liberi dalla condizione data ma liberi nell’attribuzione di senso di quella condizione. Dobbiamo tenere insieme i due poli, necessità/ libertà, sapendo riconoscere quel che dipende da noi e quel che non dipende da noi.

La teoria gender ha finito per dimenticare il corpo, ma il corpo è il primo confine. E non bisogna dimenticare mai che non c’è simmetria tra i sessi. C’è solo un corpo che ha la capacità di generare, quello delle donne, e non sarà certo il linguaggio che invoca un presunto ‘diritto di procreare’ a cambiare il dato puro e semplice.

Il pensiero queer, che prende le mosse da quello gender, punta all’indifferenza sessuale esaltando l’egualitarismo. In questo modo la differenza sessuale diventa una sorta di variabile corporea buona per tutti gli usi che se ne vogliano fare in continuità col sogno prometeico di liberarsi dal peso del corpo superando quella che Gunther Anders chiamava la vergogna di non essersi fatti da sé.

Il pensiero della differenza ci ha reso libere dalla coercizione di ruoli imposti e accettati come destino naturale dovuto alla nostra differenza ma ci ha ha anche liberato dalla ossessione emancipazionista che ci vuole uguali agli uomini in tutto e per tutto, neutre, rendendo insignificante la nostra differenza. Noi però non abbiamo mai dimenticato che la nostra libertà non è onnipotente, non è incondizionata ma è capace di riconoscere la condizione umana incarnata che può fondare un nuovo umanesimo a radice materna, dove la relazione madre/figli sia nuovamente centrale nel percorso del divenire umani.

Luciana Piddiu
Ferney Voltaire 31 Maggio 2023

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