Effetti collaterali della pandemia: Conte su, Lega giù

Certamente gli interessi attuali degli italiani vanno in altre direzioni, verso l’uscita dall’emergenza sanitaria del Coronavirus e la possibile sperata ripresa economica e occupazionale. Resta però indubbio che gli orientamenti di voto dall’inizio del “lockdown” fino ai giorni nostri hanno in parte rivoluzionato la geografia politica nostrana, come testimoniano la quasi totalità dei sondaggi effettuati ultimamente. Avevamo lasciato la Lega di Salvini solidamente solitaria nelle dichiarazioni degli elettori, a inizio marzo, ed ora ce la ritroviamo soltanto di pochi punti percentuali sopra le due forze politiche che sorreggono il governo giallorosso.

La Lega perde qualcosa come sette punti (dal 33% al 26%) nel giro di soltanto due o tre mesi, a testimonianza della ormai cronica alta volatilità delle scelte elettorali e, visto il parallelo declino della popolarità dello stesso leader leghista, di instabili fiducie nei diversi protagonisti politici. Mentre Lega e Salvini retrocedono, il premier Conte sale, evidenziando un dato pre-politico ormai divenuto un elemento politico a tutti gli effetti: ciò che conta è soprattutto la capacità immediata di suscitare emozioni favorevoli nella pancia degli elettori. Non sono più i valori (o le ideologie) a veicolare la propria vicinanza politica, e nemmeno forse gli atteggiamenti o le opinioni, che non possono mutare così repentinamente, in brevi lassi di tempo, nel giro di due-tre mesi. Ciò che cambia sono le emozioni, e le emozioni portano con sé discese ardite e risalite (per dirla con Lucio Battisti) di questo o quell’uomo politico, e dei loro partiti di riferimento, nel caso ne abbiano uno.

Per Salvini, in discesa, e per Meloni, in salita nei consensi, è accaduto proprio questo anche per i loro partiti che, senza una ragione precisa (o con motivazioni poco significative) hanno ridisegnato lo spazio di consenso all’interno del centro-destra, ora divenuto quasi bicefalo, con Forza Italia ormai relegata ai margini. Dal punto di vista territoriale, la Lega perde soprattutto nelle regioni e nelle aree dove la sua crescita durante lo scorso anno rinforzava il tentativo di diventare un partito nazionale, in particolare nel sud e nelle ex-zone rosse, dove ora si incrementano invece i consensi rispettivamente per Fratelli d’Italia e Partito Democratico. È possibile che un centro-destra a due teste riproponga l’idea di una coalizione con il settentrione predominio di Salvini (e di Zaia) ed il meridione predominio di Meloni, dove peraltro resta forte anche il Movimento 5 stelle.

Per Giuseppe Conte, che non ha in realtà alcun partito di riferimento specifico, il livello dei consensi appare elevato in tutte le zone del paese, soprattutto ovviamente dove è meno forte l’elettorato di centro-destra, ma la sua crescita è evidente anche in quelle aree, benchè non raggiunga le quote delle altre aree. Se cioè la fiducia nel presidente del consiglio è più alta, in termini assoluti, nel centro-nord e nel sud (grazie ai giudizi positivi di elettori Pd e M5s), la crescita dei suoi consensi, di quasi 15 punti dal periodo pre-pandemia ad oggi, appare generalizzata in tutte le regioni italiane. Anche in questo caso, molto probabilmente, una parte rilevante è giocata dalle emozioni che Conte è riuscito a suscitare nell’elettorato italiano, senza ulteriori distinzioni partitiche o territoriali.




La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale



Che cosa cambia dopo il voto

Dopo il doppio voto in Emilia Romagna e in Calabria gli interrogativi si affollano. Salvini ha sbagliato, e se sì dove? Sono state le Sardine a fare la differenza? L’esito del voto avrà conseguenze sull’assetto del centro-destra? La vittoria di Bonaccini e la evaporazione dei Cinque Stelle cambieranno il centro-sinistra?

Sugli errori di Salvini c’è un consenso quasi unanime. La sceneggiata del citofono (alla ricerca di spacciatori), l’ossessione per Bibbiano, l’auto-martirizzazione sul proprio rinvio a giudizio, le critiche alla sanità emiliana non gli avrebbero giovato. Probabilmente è vero, ma la controprova non c’è, né ci può essere. La mia sensazione è che il vero errore di Salvini sia stato di non aver capito che, nella situazione data, trasformare il voto in un referendum sul governo nazionale avrebbe significato esporsi al “rischio-matteo”, ossia al rischio che l’elettorato percepisca un referendum su una questione generale come un referendum su un leader particolare. Era già successo a Matteo Renzi, che perse il referendum costituzionale per averci messo la faccia. E’ risuccesso a Salvini, che ha chiamato gli elettori a dare la spallata al governo centrale, senza rendersi conto che così offriva loro l’opportunità di dare una spallata a lui stesso.

Ma perché Salvini ha sottovalutato questo rischio?

A mio parere perché Salvini, a differenza dei suoi alleati Meloni e Berlusconi, non ha ancora compreso che alimentare paure più o meno fondate, da sempre un’arma della destra,  è ormai diventata l’arma principale della sinistra. L’unica differenza è che l’oggetto della paura, nella comunicazione della destra, è il migrante, mentre in quella della sinistra è Salvini stesso, il babau razzista, fascista, disumano, aspirante dittatore e quindi da “cancellare”, secondo la sempre civile prosa di Repubblica. Questo, a mio parere, è stato il vero valore aggiunto delle Sardine: più che dare un’anima alla sinistra, come piace credere ai suoi dirigenti, le Sardine hanno provato a togliere l’anima all’uomo Salvini, ridotto a cosa indegna di esistere e quindi da eliminare.

Da questo punto di vista la vicenda emiliana raddoppia i problemi del centro-destra. Eravamo abituati a pensare che il problema principale fosse la gracilità della gamba liberale del centro-destra, credo si debba prendere atto che non è solo questo: alla destra non manca solo una robusta componente europeista, riformista e garantista, ma anche un leader rassicurante. Può darsi che un tale leader non sia necessario per vincere le elezioni, ma tutto fa pensare che sia indispensabile per governare con un consenso sufficientemente largo. Non dobbiamo mai dimenticare che, in una società largamente cetomedizzata come l’Italia, i ceti popolari, cui principalmente Salvini si rivolge, costituiscono una robusta minoranza, non certo la maggioranza dell’elettorato. E la maggioranza, urbanizzata e relativamente istruita, non apprezza né i toni né i contenuti più estremi della comunicazione leghista.

Se la destra dovrà riflettere, il rischio, per la sinistra, è invece che la vittoria in Emilia Romagna la induca a riflettere meno di quanto le sarebbe necessario. Perché il vero problema della sinistra, a mio modesto avviso, non è la chiusura e l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti (il Pd come “partito delle tessere”), mali cui sarà relativamente facile porre (apparente) rimedio con una spolverata di Sardine, ma è l’assenza di una linea politica chiara sulle cose che contano. Mi trovo, su questo, in totale sintonia con un padre della sinistra storica, Emanuele Macaluso, che qualche giorno fa dalle colonne della Stampa confessava tutto il suo smarrimento, la sua incapacità di capire “che cosa pensa il Pd” sulle questioni cruciali, a partire da quella dell’immigrazione.

Sotto questo profilo, il progetto di un’alleanza organica con quel che resta del Movimento Cinque Stelle, sottolineato con forza da tanti esponenti del Pd, potrebbe – alla lunga – rivelarsi il frutto avvelenato della vittoria in Emilia Romagna. Perché dei tre tratti distintivi della politica grillina – giustizialismo, assistenzialismo, freno agli ingressi illegali – è probabile che il Pd finirà per assorbire i primi due e respingere il terzo. Il che potrebbe voler dire avere, in futuro, una sinistra ancora meno liberal-riformista di quella di oggi in materia di giustizia e mercato del lavoro, e ancor più ostaggio dell’ideologia dell’accoglienza in materia di immigrazione.

Non proprio la strada migliore per modernizzarsi e risintonizzarsi con i sentimenti popolari.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 gennaio 2020



Il dopo-Emilia Romagna

Anche se le Regioni che vanno al voto sono due (Emilia Romagna e Calabria), inutile nasconderselo, è sull’Emilia Romagna che sono puntati i riflettori. Perché, lo si voglia o no, la sfida Bonaccini-Borgonzoni si è trasformata in una specie di giudizio di Dio sul governo nazionale.

Non sarebbe stato così se, una volta caduto il governo giallo-verde, sinistra e Cinque Stelle avessero avuto il coraggio di tornare di fronte all’elettorato, come succede nei paesi normali allorché un’elezione non restituisce un vincitore chiaro. In quel caso i confronti regionali sarebbero rimasti nell’alveo giusto, quello di una competizione locale fra due candidati locali. Poiché, invece, si è scelto di stare al governo a dispetto dei santi, ci si trova a fronteggiare l’insofferenza di quella parte dell’elettorato emiliano-romagnolo che sente l’insediamento del governo giallo-rosso come un vulnus alla democrazia sostanziale.

Dunque, è inevitabile. L’esito delle elezioni in Emilia Romagna non potrà che assumere un significato nazionale. E lo farà chiunque vinca: dopo il voto del 26 gennaio il sistema politico italiano non sarà più quello di prima.

Ma che differenza può fare una vittoria del Pd o una vittoria del centro-destra?

Per certi versi nessuna.

In entrambi i casi diventerà evidente che il nostro sistema politico è tornato bipolare. Il conflitto politico, dopo la breve stagione tripolare 2013-2019, tornerà ad essere strutturato intorno all’opposizione fra destra e sinistra. Certo, i partiti di centro potranno avere uno spazio più o meno grande e risultare più o meno decisivi, ma la scelta elettorale di fondo tornerà ad essere quella classica, fra il blocco di centro-sinistra (più o meno europeista) e il blocco di centro-destra (più o meno sovranista).

C’è un’altra conseguenza che pare difficile evitare, chiunque vinca: l’ulteriore indebolimento del Movimento Cinque Stelle. Questo esito, a mio parere, non ha la sua origine principale negli errori tattici e relazionali di Di Maio, dalle epurazioni alla cacciata di Gianluigi Paragone, ma nella rinuncia a sfruttare l’occasione irripetibile che il governo giallo-rosso aveva offerto ai Cinque stelle: quella di diventare la gamba popolare del centro-sinistra. Se avessero seguito il loro Dna, fondamentalmente assistenziale e anti-migranti, i Cinque Stelle avrebbero potuto, anche grazie alla sponda e alla legittimazione ricevute dalla loro alleanza con il partito dell’establishment (il Pd di Zingaretti), provare a coprire un segmento elettorale che esiste, e tuttavia non ha rappresentanza: quello di quanti chiedono più protezione sia sul versante economico (salario minimo e reddito di cittadinanza) sia su quello sociale (difesa dei confini e controllo del territorio). Con un Pd paladino dell’accoglienza e sempre incerto fra riformismo e assistenzialismo, i Cinque Stelle non avrebbero avuto difficoltà a coltivare e rappresentare questo segmento dell’elettorato.

Ma gli esiti comuni ai due scenari, quello di una vittoria di Bonaccini e quello di una vittoria di Borgonzoni, si fermano qui. Per il resto credo che le cose andrebbero assai diversamente nei due casi.

Dovesse vincere Bonaccini, il Pd si sentirà elettrizzato da un successo di cui ben pochi erano sicuri, Zingaretti si sentirà legittimato a guidare risolutamente il processo di costruzione del “partito nuovo” (qualunque cosa l’aggettivo significhi), le Sardine non esiteranno ad attribuirsi ogni merito per la vittoria, e naturalmente esigeranno di avere un peso elevato nel processo di ricostruzione (e ridenominazione, a quanto pare) del Pd, che nonostante la scissione di Renzi e la concorrenza cinquestelle resta pur sempre il maggior partito della sinistra. Quanto al governo, tutto lascia immaginare che si sentirà legittimato a continuare, magari con un rimpasto che tolga qualche ministero ai Cinque Stelle e li assegni al Pd. In questo scenario il destino dei Cinque Stelle è di diventare una riottosa ruota di scorta del Pd, e probabilmente anche di subire la scissione di quanti (Di Battista?) non vogliono restare alleati per sempre del “partito di Bibbiano”.

Dovesse vincere la Borgonzoni, tutto cambia. E’ anche possibile che il governo nazionale provi a resistere, ma è difficile che riesca nell’intento. In quel caso, infatti, si sommerebbero almeno due spinte del medesimo segno. Da una parte, il “grido di dolore” del popolo leghista e più in generale dell’elettorato di centro-destra, sempre più convinto (erroneamente, Costituzione alla mano) che tornare al voto sia un proprio inalienabile diritto. Dall’altra, il ben più prosaico interesse dei parlamentari a tornare al voto molto rapidamente, prima che il referendum sulla riforma costituzionale cancelli 345 seggi, rendendo drammaticamente più difficile essere rieletti.

E’ vero che, sulla carta, una strada alternativa per conservare il posto ci sarebbe, e sarebbe quella di “resistere, resistere, resistere” fino al 2023. Ma è forse ancor più vero che, nel caso di un trionfo del centro-destra, sui parlamentari di maggioranza si aggirerebbe uno spettro difficile da esorcizzare: quello di un governo che resiste qualche mese, magari un anno, e cade troppo tardi, ossia dopo che il referendum ha drasticamente potato i posti disponibili. Sarebbe il danno e la beffa: non poter arrivare al 2023, in tempo per eleggere il successore di Mattarella, e dover andare al voto giusto subito dopo aver segato il ramo su cui si è seduti.

Pubblicato su Il Messaggero del 24 gennaio 2020



Il neonato in agonia

Di elezioni ne ricordo tante (la prima è quella del 1963: avevo 13 anni), e di governi italiani ne ho visti all’opera tantissimi, più o meno una cinquantina. Però un governo come questo non l’avevo mai visto. Non voglio dire che questo sia il peggior governo che l’Italia abbia mai avuto, questa è una questione di punti di vista (personalmente credo di averne visti di peggiori).

No, quello che voglio dire è che non ricordo sia mai successo, negli ultimi 50 anni, quel che sta accadendo ora, e cioè che un governo appena nato venga già, dopo pochissime settimane, dipinto come agonizzante non già dai suoi avversari (naturalmente inclini a confondere realtà e sogni), ma dai suoi stessi sostenitori, a partire dall’establishment mediatico progressista.

Governo confuso, litigioso, senz’anima sono i giudizi meno malevoli che si leggono in questi giorni. Come è stato possibile? Che cosa ha fatto sì che i salvatori della patria, che ci avevano evitato l’aumento dell’Iva e la calata degli Hyksos leghisti, si trasformassero – agli occhi di tanti commentatori – in un manipolo di inetti politicanti incapaci di fornire una guida e una speranza al Paese?

Una risposta, naturalmente, è che il racconto drammatizzante secondo cui saremmo stati destinati alla catastrofe ove il capo degli Hyksos avesse espugnato la cittadella della democrazia era, per l’appunto, nient’altro che un racconto. E per di più un racconto creduto da pochi. Se fossimo così convinti che il governo giallo-rosso ci ha evitato una catastrofe, e che tale catastrofe sia tuttora possibile, digeriremmo tutto senza andare tanto per il sottile, grati al governo per la sua mera esistenza, che ci protegge dal peggio incombente. E invece no: nessuno digerisce, il governo non piace nemmeno a chi lo ha fortemente voluto.

Ma il fatto che ben pochi abbiano realmente creduto al racconto con cui cercavano di spaventarci non è l’unico motivo per cui il governo riceve oggi solo critiche. A questa ragione di fondo se ne affianca almeno un’altra, che riguarda il tipo di alleanza che i quattro partiti che lo compongono hanno dato vita. Questa alleanza, nata con l’illusione (di alcuni) di segnare una discontinuità e l’ambizione di offrire agli elettori una sintesi che non riproducesse la formula fallimentare del “contratto”, ha invece riproposto precisamente quella logica. Una logica che si è ripresentata nel modo più evidente nella Legge di bilancio perché i contraenti, anziché elaborare una proposta di politica economica unitaria e coerente, hanno preferito “portare a casa” ciascuno il proprio specifico trofeo: intangibilità dell’Iva (Renzi), cuneo fiscale (Zingaretti), abolizione superticket (Speranza), cui vanno aggiunti i numerosi trofei di Di Maio, dal mantenimento di tutto il pregresso (quota 100 e reddito di cittadinanza) fino alla sciagurata soppressione dello scudo fiscale sugli amministratori della ex Ilva di Taranto.

Quella logica, però, non sarebbe stata così dannosa, e autolesionistica, se le quattro sinistre non avessero fatto anche due scelte ulteriori: quella di non mettere solennemente ed esplicitamente davanti agli elettori i termini del contratto (come invece avevano fatto Lega e Cinque Stelle), e quella di rinegoziare continuamente fra loro tali termini, con procedure opache e completamente sottratte a un vero e leale dibattito politico.

Il tutto aggravato da una circostanza ulteriore: l’ossessiva attenzione agli appuntamenti elettorali locali, che ha condotto alle più pirotecniche giravolte, dai migranti tenuti in mare 11 giorni per non disturbare le elezioni in Umbria, alla penosa marcia indietro sulla plastic tax, per non compromettere il risultato elettorale in Emilia Romagna.

Il risultato di tutto ciò è disastroso innanzitutto per la sinistra. Un candidato come il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, che si è meritato sul campo il rispetto dell’elettorato di centro-destra, rischia di perdere le elezioni non per i propri demeriti ma per quelli del governo nazionale. Che danneggia il candidato governatore non solo con la plastic tax e l’orientamento complessivo anti-imprese della manovra, ma con il mero fatto di essersi imposto con una manovra di Palazzo. Non si può escludere, infatti, che l’ostinato rifiuto di andare ad elezioni politiche convinca molti elettori incerti a votare la candidata della Lega solo per punire il governo nazionale, a dispetto di quel che pensano del candidato del Pd.

Se fossi Bonaccini, scongiurerei gli esponenti del governo e dei partiti che lo sostengono di non mettere piede in Emilia Romagna fino alla notte del 26 gennaio, quando sarà stato chiuso l’ultimo seggio.

Pubblicato su Il Messaggero del 9 novembre 2019