Scontro magistrati-politici: anche la politica ha le sue colpe

Che, negli ultimi 30 anni, la magistratura sia esondata, andando molto al di là del ruolo che le assegna la Costituzione, non è una opinione, ma una constatazione che a nessuno storico del futuro parrà controversa. Che la politica voglia mettere fine a questo stato di cose, che mina l’autonomia del potere legislativo e del potere esecutivo, è perfettamente comprensibile, e più che ragionevole.

Quello che, invece, non mi pare adeguatamente compreso, è come si è arrivati a questa situazione, e quale sia il modo di uscirne. A dar retta ai detrattori della magistratura, pare quasi che la propensione di una parte dei Pm e dei giudici a venir meno ai doveri di neutralità e imparzialità, sia stata il frutto di una sorta di deviazione o degenerazione interna.

Ma non è andata così. O meglio: non è andata solo così. Se vogliamo guardare i fatti della nostra storia con un minimo di obiettività, è difficile non vedere che la degenerazione di una parte della magistratura ha anche cruciali cause esterne, anche molto remote nel tempo.

La prima sono le inadempienze della politica e, a dirla tutta, pure quelle della società civile. Quando si rimproverano i magistrati di “fare politica”, si dimentica che l’invadenza e l’arroganza del potere giudiziario sono anche il risultato di nostre mancanze, e di una sorta di delega che noi stessi abbiamo conferito. Se per tanta parte dell’opinione pubblica i magistrati sono diventati delle specie di giustizieri, è anche perché alla magistratura è stata affidata una sorta di funzione di supplenza nei confronti degli altri poteri pubblici. L’incapacità di fare i conti con la mafia, la corruzione, gli appalti truccati, l’evasione fiscale, lo spreco di denaro pubblico, hanno alimentato, in una parte dell’opinione pubblica, la speranza che la magistratura potesse fare quel che la politica non sapeva o non voleva fare.

C’è però anche una seconda causa, che ha reso abnorme il potere dei magistrati, e in particolare quello dei Pubblici ministeri: il modo in cui la politica è solita reagire alle inchieste e agli avvisi di garanzia nei confronti di propri esponenti. Quando un politico viene colpito dal sospetto, si assiste invariabilmente alla medesima commedia. Politici (e spesso giornalisti) della sua parte politica si sperticano in dichiarazioni di garantismo. Ma, dall’altra parte dello steccato che divide destra e sinistra, gli esponenti della parte avversa, dopo la rituale dichiarazione di garantismo, innocenza fino a prova contraria, auspicio che la giustizia faccia “piena luce”, pronunciano la parola chiave, quella che ribalta tutto e vanifica il garantismo: “però…”. E giù sospetti, allusioni, commenti alle notizie di stampa, fino al passaggio cruciale: l’invito a fare “un passo indietro” (anche se innocenti) in nome della “opportunità politica”. In sostanza, la richiesta di dimissioni.

In breve: qualsiasi avviso di garanzia a un esponente politico dà luogo, inesorabilmente, a una campagna di stigmatizzazione (e talora di odio) da parte della parte avversa, con conseguente e automatico coinvolgimento di tutti i maggiori media.

Ebbene, come non rendersi conto che questo è un formidabile assist alla magistratura?

Come non capire che è proprio la reazione pavloviana della politica a conferire ai magistrati un potere spropositato?

Come non vedere che, senza la certezza di quella reazione, nessun magistrato potrebbe perseguire la celebrità a colpi di avvisi di garanzia indirizzati al bersaglio grosso?

Se tutti i politici, come regola generale, si comportassero da veri garantisti chiunque sia sotto inchiesta, i media si darebbero una calmata, e la politica sarebbe al riparo dalle incursioni della magistratura.

Sarebbe un modo, per i politici, di garantirsi un’autoassoluzione permanente e automatica?

No, sarebbe il contrario. Non solo perché comunque le inchieste farebbero il loro corso, ma perché, evitando di gridare ogni volta “al lupo al lupo”, ci si metterebbe in condizione di essere creduti quell’unica o rara volta in cui il lupo c’è davvero. Se la richiesta di dimissioni cessasse di essere un rito consunto che non emoziona nessuno, ma fosse un evento eccezionale, che segnala la gravità di un comportamento, la politica diventerebbe più, e non meno, in grado di autodisciplinarsi. E ne guadagnerebbe non poco in termini di autorevolezza.




Sull’inattualità di don Milani

Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi?

Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio (uno dei più autorevoli studiosi della storia della scuola), che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose. Evitando di ridurre “una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino” al “figurino senza spessore del pedagogismo nostrano”.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.

Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore?

Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola (di qui il favore con cui don Milani vedeva il “pieno tempo”, e persino le “classi differenziali”).

Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.

Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva (al comma 3) sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso.

Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.




Aiuta il progetto ARTICOLO 34 – MERITO E PARI OPPORTUNITA’

L’articolo 34 della Costituzione recita:

La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.

Purtroppo, il sistema di sussidi che enti pubblici e privati erogano agli studenti è ancora ben lungi dal garantire il rispetto dell’articolo 34.

Le borse destinate ai “capaci e meritevoli” ma “privi di mezzi” sono ancora troppo poche (specie nella scuola secondaria superiore), di importo insufficiente, e non sempre in grado di individuare i più capaci e meritevoli.

La Fondazione David Hume sta elaborando un progetto per far sì che, nel giro di alcuni anni, il dettato costituzionale venga pienamente rispettato attraverso un sistema di borse di studio ampio, generoso, e in grado di assicurare anche ai meno abbienti il proseguimento degli studi fino ai gradi più alti.

La promozione del merito, a partire dalla scuola, è uno degli strumenti fondamentali per contrastare le diseguaglianze e favorire le pari opportunità. Ma è anche una via per alzare il livello medio di preparazione degli studenti, con benefici in tutti i campi, dalla cultura alla sanità, dall’economia alla qualità della vita democratica.

Il nostro progetto prevede innanzitutto l’istituzione di un FONDO NAZIONALE DEL MERITO, che permetta ad ogni singola scuola di:

  • Premiare, con un riconoscimento simbolico e una piccola somma in denaro (per esempio 100 euro), le allieve e gli allievi che hanno ottenuto i risultati migliori, indipendentemente dalla condizione economico-sociale della famiglia: le ragazze e i ragazzi che ottengono buoni risultati vanno tutti riconosciuti e valorizzati, perché – con il loro impegno e il loro talento – contribuiscono al benessere e al buon funzionamento dell’intera comunità;
  • Dotare di una significativa borsa di studio (per esempio 12 mila euro l’anno) le premiate e i premiati che provengono da famiglie svantaggiate, e rischiano quindi di interrompere prematuramente gli studi, o intraprendere percorsi inferiori alle loro possibilità, dover lavorare per mantenersi agli studi, con grave perdita per loro stessi e per la collettività.

Il FONDO NAZIONALE DEL MERITO, provvisto di una dotazione iniziale dello Stato centrale, dovrebbe essere aperto ai contributi degli altri enti pubblici e dei privati, in particolare famiglie, imprese, fondazioni bancarie, istituzioni e organizzazioni del terzo settore.

L’ipotesi da cui muoviamo è di iniziare dai ragazzi di 3a media e, ogni anno, estendere il sistema ad una o più leve successive, anche in funzione dell’apporto dei soggetti che vorranno contribuire al “Fondo nazionale del merito”. Più generosi saranno i contributi al Fondo, più rapidamente sarà raggiunto l’obiettivo di assicurare un adeguato sostegno a tutti i “capaci e meritevoli”, come avevano previsto i Padri Costituenti.




Retoriche istituzionali

Ogni anno il 25 aprile, in Italia, diventa l’occasione per dare fiato alle trombe (ovvero ai tromboni) della Repubblica. Riti e atmosfere sono, sostanzialmente, quelli del vecchio sabato fascista: discorsi esaltanti conditi di speranze tradite ma non tramontate, appelli alle nuove generazioni perché «portino avanti» i valori di quanti contribuirono alla cacciata dello straniero e alla caduta della dittatura fascista, moniti agli amici dei tiranni, ‘mal seme d’Adamo’ che in settant’anni non s’è ancora trovato il modo di debellare. Alla rievocazione delle «giornate del nostro riscatto» seguono sempre regolarmente, passata la festa patriottica e resistenziale, le note dolenti su quanti non sembrano essere stati commossi dalla fusione comunitaria ma soprattutto sui giovani che non sanno nulla di fascismo e di antifascismo, di repubblichini e di partigiani e, quel che è peggio, sembrano ignorare la genesi e la natura della Costituzione italiana.

Alla culture of complaint non poteva non dare il suo contributo il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese, che, da qualche tempo, non c’è giorno che non ci propini distillati di saggezza in articoli e in interviste. Liberissimo di farlo e certo nessuno può dolersi se esercita un diritto sacrosanto—e riconosciuto a tutti i cittadini—di consiglio e di predica. È un diritto, però, che hanno anche i lettori, talora francamente perplessi dinanzi ad affermazioni poco meditate—per non dire brutalmente, infarcite di equivoci e luoghi comuni. Ne è un esempio la breve intervista, È fondamentale Sbagliato non avere insegnanti ad hoc, rilasciata al ‘Corriere della Sera’ il 28 aprile u.s. «L’insegnante di educazione civica—esordisce il professore giurista—oggi potrebbe essere la chiave per aiutare i ragazzi a combattere la diffusione dell’ignoranza e l’orgoglio dell’ignoranza». Un tale insegnante dovrebbe spiegare agli allievi che cosa è stato il fascismo, come esso abbia soppresso le libertà politiche, che cosa abbia rappresentato la Resistenza, perché bisogna fare del 25 aprile il nostro 14 luglio, perché la nostra è la Costituzione più bella del mondo. «Tranne gli istituti tecnici», lamenta Cassese, «l’educazione civica nelle scuole non è stata quasi mai insegnata». Se ne deduce che sono i periti chimici e industriali nonché gli aspiranti ai diplomi di infermiere, ottico, odontoiatra etc. ad avere un alto senso delle idealità repubblicane mentre i liceali di una volta, in mancanza di docenti ad hoc, rischiano di non sapere nulla di Mussolini, Togliatti, De Gasperi etc.

I testi di educazione civica non mancano, rileva Cassese, (esemplare quello di Norberto Bobbio e Franco Pierandrei, Introduzione alla Costituzione), mancano le materie, mancano i professori. «Le persone debbono sapere da dove arriviamo, com’è nata e in quale momento la Costituzione, devono conoscere le tappe principali dell’Italia». Si capisce poco, per la verità, perché questo compito non possa venire affidato ai professori di storia (obbligandoli, semmai, nel corso dei loro studi universitari, a sostenere l’esame di ‘Istituzioni di diritto costituzionale’) e tanto meno perché debbano essere i laureati in Giurisprudenza a illustrare «le tappe principali dell’Italia», dal momento che, nel loro piano di studi, non c’è un solo insegnamento di storia moderna e contemporanea. (Come si vede da certe affermazioni di PM e giudici ordinari, in dichiarazioni alla stampa o in frenetiche interviste). «Non basta spiegare le norme, bisogna immergerle nella vita concreta |…| bisogna far capire come funziona un partito, cosa sono i sindacati, le formazioni sociali come le Ong. E lo si deve fare con i dati statistici». Giustissimo ma non sono questi i ‘saperi’ dei sociologi e degli scienziati politici assenti, come si sa, nelle scuole medie superiori tradizionali?

Un insegnante di ‘educazione civica’ che sia insieme giurista, storico, sociologo, politologo, statistico, conoscitore profondo della ‘vita concreta’ poteva solo essere un parto dell’ideologia italiana da sempre nemica dei settori di studio specifici, richiedenti competenze specifiche. Cassese, indica al suo professore il corretto cammino didattico: «Nella prima lezione li porterei ad assistere a una seduta in Parlamento. Poi li porterei dentro la Corte costituzionale». E fin qui niente da dire purché si trovino insegnanti in grado di far capire alle scolaresche, in visita alle istituzioni, gli arcana del linguaggio giuridico della Consulta e le reali poste in gioco nei dibattiti tra i politici di diverso orientamento alla Camera o al Senato. È la terza stazione di pedagogia civica, invece, a destare qualche perplessità. «Quindi inviterei un sindacalista. Affronterei con loro temi cruciali come l’immigrazione, cercando di far capire perché lo straniero che vive legalmente qui ha diritto all’assistenza, ma non può votare». (Ho cercato di spiegare, in realtà, la ratio di questa presunta contraddizione ma non credo di poter convincere chi scambia i suoi valori per principi iscritti, giusnaturalisticamente, nell’ordinamento del cosmo).

Restiamo sempre, come si vede, nel campo dei ‘massimi problemi’ e di una filosofia dell’educazione all’insegna del saper tutto, che affida al docente la missione di risvegliare le menti, in vista della formazione non del ricercatore cauto, circospetto, tormentato dal que sais je? di Montaigne e dal dubbio scettico di Hume ma del cittadino attivo, ‘impegnato nel sociale’, bene intenzionato, dopo aver conosciuto il mondo—grazie semmai a quattro filmati televisivi—, a cambiarlo.

Siamo sempre lì, la demonizzazione della weberiana Wertfreiheit e dell’illusione di una conoscenza neutrale prelude a una scienza posta al servizio dell’etica, giusta uno stile di pensiero che, dal cristianesimo all’illuminismo, dal fascismo al comunismo impronta tutto il canone occidentale. Che la musica sia questa lo prova l’invito rivolto al sindacalista. Perché solo al sindacalista e non anche all’imprenditore? Non sono entrambi ‘parti sociali’ e la Repubblica non è fondata sul ‘lavoro’—sia manuale che intellettuale—e non sui lavoratori come avrebbe voluto (subdolamente) il PCI? Il sindacalista potrà ben esporre i problemi del lavoro che rientrano nella sua sfera di competenza ma l’imprenditore non potrà fare opera analoga, mostrando di che lagrime grondi e di che sangue fondare e dirigere una fabbrica oggi, con gli enormi condizionamenti costituiti dalle pubbliche amministrazioni, dalle banche, dalle politiche fiscali dei governi? Il fatto è che, per Cassese, le parti sociali non stanno sullo stesso piano giacché i sindacati rappresentano l’interesse generale mentre gli industriali perseguono soltanto il loro utile privato. Se è così, niente da eccepire: ognuno la pensi come vuole. Purché non si finga che lo ‘stile di pensiero’ di una parte politica—quella di Cassese, di Gustavo Zagrebelsky, del compianto Stefano Rodotà e degli odierni teorici dei ‘diritti sociali’— sia quello che deve ispirare le scuole di ogni ordine e grado della Repubblica e formare i cittadini del domani.




Il compleanno della Costituzione: le promesse tradite

La Costituzione italiana sta per compiere 70 anni. Li compirà esattamente il 22 dicembre, anniversario del 22 dicembre 1947, quando la Carta fondamentale fu approvata dall’Assemblea Costituente. Settanta anni non sono pochi, nella vita delle persone non meno come in quella delle istituzioni. E un compleanno a cifra tonda è un’ottima occasione per tentare un bilancio.

Una parte del bilancio, quella strutturale, o puramente descrittiva, è presto fatta. La Costituzione in parte è rimasta monca (non si è mai avuto il coraggio di specificare gli articoli 39 e 49, per non limitare lo strapotere di sindacati e partiti); in parte è stata completata da interventi successivi, come quello sulla Corte Costituzionale (1953), quelli su composizione e durata di Camera e Senato (1963), quello sulle Regioni (1970); in parte, infine, è stata manomessa con più o meno successo, come quando il centro-sinistra è intervenuto sul Titolo V introducendo il federalismo (2001), o quando il centro-destra ha tentato invano di cambiare la forma di governo (2006), o ancora quando, sotto la pressione della crisi e delle autorità europee, il Parlamento ha rafforzato l’articolo 81 rendendo più rigide le norme sui conti pubblici (2012).

Più difficile, molto più difficile, è fare un bilancio valutativo. Perché un vero bilancio dovrebbe rispondere ad almeno due domande strettamente intrecciate. La prima: in questi 70 anni la Costituzione è stata tradita? La seconda: la Costituzione, così com’è diventata, è ancora all’altezza dei tempi?

Sulla prima domanda personalmente non ho molti dubbi. Comunque la si pensi sulla bontà della Carta originaria (un punto su cui gli osservatori sono divisi), è difficile occultare che almeno una decina dei 54 articoli iniziali (“Princìpi fondamentali” e “Diritti e doveri dei cittadini”) sono stati largamente ignorati e talvolta sostanzialmente traditi. Fra di essi, i più calpestati sono probabilmente quelli concernenti il lavoro (1, 4, 36) e lo studio (34).

I primi stabiliscono il diritto ad avere un lavoro (1, 4) e una retribuzione adeguata (36), nonché l’impegno della Repubblica a rendere effettivo tale diritto. Basta una breve occhiata alla traiettoria storica dei tassi di occupazione e di disoccupazione per rendersi conto che questo diritto, solennemente enunciato all’articolo 1 (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”), non è mai stato garantito, e negli ultimi due decenni è stato addirittura umiliato: oggi l’Italia non solo non è in un regime di piena occupazione (come la Germania e alcuni paesi del Nord) ma ha il tasso di occupazione giovanile più basso d’Europa.

Le cose vanno ancora peggio per quanto riguarda l’articolo 34, che nel secondo e terzo comma recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.

Anche questo diritto è negato e calpestato, come sa chiunque sia semplicemente “capace e meritevole”, senza essere anche povero. Oggi le pochissime borse di studio sopravvissute sono assegnate esclusivamente a coloro le cui famiglie, almeno sulla carta (attestazione Isee) versano in condizioni di disagio estremo. E uno dei drammi cui assisto all’università è che i pochi studenti davvero “capaci e meritevoli”, sono spesso costretti a lavorare per mantenersi agli studi, perché le loro famiglie sono modeste, ma non abbastanza povere da avere diritto alle limitatissime risorse disponibili. Così la concorrenza con i figli di papà diventa sleale, alla faccia dei principi egualitari e meritocratici proclamati in tanti articolo della Carta fondamentale.

Resterebbe la questione dell’attualità della Costituzione. Su questo, lo confesso, le mie sensazioni sono contrastanti. Da un lato ho molti dubbi sul fatto che il federalismo introdotto nel 2001, ma anche il regionalismo introdotto nel 1970, siano stati un progresso: il loro effetto è stato soprattutto di rendere più facile ad amministratori e politici dilapidare denaro pubblico. E ancora più dubbi ho sulla funzionalità del bicameralismo, che il referendum renziano del 2016 sciaguratamente non intendeva affatto eliminare, ma solo annacquare e imbastardire (con i senatori eletti dai consigli regionali). Dall’altro lato, però, mi assale anche un dubbio di segno opposto, e cioè che la maggior parte delle cose che non vanno, in Italia, non dipendano affatto dalla Costituzione, bensì dalla scarsa qualità degli uomini che dovrebbero rispettarla, attuarla, tradurla in norme e regolamenti: la lentezza del processo legislativo, ad esempio, dipende tantissimo dai regolamenti parlamentari e dalla irresponsabilità dei partiti, più che dal bicameralismo.

Sicché, alla fine, più che chiedermi se la Costituzione sia attuale oppure no, mi viene da farmi un’altra e più radicale domanda: e se il vero problema non fosse la Costituzione, ma fossimo noi stessi, cittadini italiani, con le nostre cattive abitudini, la nostra indifferenza, e in definitiva la nostra incapacità di sceglierci una classe politica decente?

Pubblicato su Panorama il 14 dicembre 2017