Il 25 aprile e del perché a scuola in Italia si fanno 3 volte i Sumeri ma mai la Seconda Guerra Mondiale

In questi giorni, mentre leggevo i resoconti della manifestazione del 25 aprile a Milano, ho avuto come una presa di coscienza.

Mi sono infatti sempre chiesto, prima da studente e poi da genitore, per quale motivo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado viene fatta studiare la storia antica – vale per i Sumeri come per l’antico Egitto – sia alle elementari che alle medie che nelle superiori, mentre, più ci si avvicina alla contemporaneità, lo zelo degli insegnanti si affievolisce e gli avvenimenti del ’900 non sono oggetto di uno studio altrettanto serrato e scandito.

In particolare, poi, la Seconda Guerra Mondiale rappresenta una specie di tabù: al massimo si arriva ai cosiddetti suoi prodromi, e difficilmente lo studente medio italiano sa come è andata realmente a finire.

Sarà colpa dei programmi, dipenderà dagli insegnanti, a cui manca il tempo necessario alla fine dell’anno scolastico, pensavo.

Ma poi, leggevo che alle manifestazioni per il 25 aprile in tutta Italia le piazze sono state egemonizzate o comunque pesantemente condizionate da chi chiedeva il cessate il fuoco ovunque, in Ucraina come a Gaza, denigrando gli americani, la NATO, gli ebrei e la brigata ebraica; ed assistevo ai distinguo, ai complicati giochi verbali di chi in questo paese – compreso chi ci governa – non riesce a dirsi antifascista.

Ecco, allora ho, per la prima volta, nitidamente capito che la moratoria sulla Seconda Guerra Mondiale, la circostanza che la guerra di liberazione dal nazifascismo e la resistenza in Italia non venga studiata a scuola, non è affatto casuale: il tacito patto di non affrontare quelle pagine di storia – che dovrebbero costituire invece il fondamento della nostra comunità nazionale – è funzionale affinché ogni parte politica, ogni fazione possa sostenerne la sua versione, in una logica da tifosi, senza il fastidio di dover tenere in conto la realtà.

La verità dei fatti, per chi la vuole intendere, è d’altra parte ormai piuttosto nota.

Il ventennio fascista ha rappresentato un regime orribile, fatto di oppressione, di violenza, in cui è stata conculcata ogni più elementare forma di libertà: ed è bene sapere che oltre alla pizza, al bel canto, alla moda e al made in Italy, nel mondo la stessa parola fascismo ha purtroppo il nostro copyright.

Così com’è ormai storiograficamente accertato che il regime nazifascista è stato sconfitto in Italia dalle forze alleate, dagli angloamericani. Si calcola che siano morti in Italia per liberarci poco meno di 100.000 soldati americani, e complessivamente gli alleati (tra cui americani e britannici, ma anche polacchi, brasiliani, neozelandesi, ecc.) ebbero circa 313.000 “casualties” (tra morti, feriti, dispersi o prigionieri): si tratta di numeri di molto superiori alle forze e alle perdite partigiane, che militarmente ebbero un ruolo residuale.

In altre parole, e per essere chiari: senza i partigiani, gli alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli alleati, la resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.

D’altra parte, come ebbe a dire Churchill: “Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno dopo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure, questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti”. Insomma, è ormai acclarato che la resistenza non fu affatto un movimento di popolo, ma interessò una porzione molto limitata della popolazione al Nord del paese, e fu un fenomeno eterogeneo, in cui spinte ideali si mischiarono a regolamenti di conti, condotta da chi voleva fare la rivoluzione anche in Italia e quanti volevano invece semplicemente tornare a fare una vita normale.

Di certo ci fu anche un senso di riscatto civile e morale: ma l’Italia democratica e la Costituzione più bella del mondo furono anche frutto di contingenze geopolitiche.

Non sarebbe l’ora che queste cose, per come sono effettivamente andate, iniziassimo finalmente a dircele e a farle studiare ai nostri ragazzi? (con buona pace dei Sumeri, di cui sappiamo già tutto)




Il martedì di Capaneo a Dio spiacente e a li nimici sui

Il Presidente della Vulgata

Gettano un’ombra di tristezza nell’animo degli italiani pensosi e alieni da ogni tipo di retorica (ce ne sono e sono la maggioranza) gli interventi di Sergio Mattarella sul 25 aprile e prima ancora sul giorno della memoria. Era doveroso ricordare, nelle scuole e sui media, il giorno in cui fu abbattuto un regime che, portando il paese nel baratro, aveva causato la ‘morte della patria’ ma, ricordando una pagina che Benedetto Croce scrisse nel 1918 (forse il documento spirituale più alto del 900 italiano), quando gli arrivò la notizia della fine della guerra, ci si chiede: far festa perché? Se in un incidente stradale si perde la gamba destra invece di perdere la vita, se fuor di metafora, l’Italia è stata bombardata, dilaniata dalla guerra civile, ferita nei suoi monumenti storici e nei suoi ricordi e, in tal modo, ha potuto evitare il peggio del peggio, ovvero il destino di satellite del Terzo Reich, c’è proprio materia di festeggiamento? E non sarebbe stato meglio, invece delle adunate antifasciste alle quali l’ANPI ha invitato i resistenti palestinesi (dimenticando, lo ricorda Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo’ che «in quegli anni le autorità religiose islamiche simpatizzavano per il nazismo e nessun gruppo ad essi ispirato partecipò alla Resistenza»), non sarebbe stato meglio, dicevo, deporre corone di fiori nei cimiteri di guerra inglesi, americani, polacchi che della Liberazione furono i veri non retorici artefici?

 Mattarella non ha avuto nessun dubbio nel ripercorrere le strade del fascismo, che sulle sue discutibili ricostruzioni della storia d’Italia apponeva il sigillo delle verità ufficiali: allora il dissenso comportava una condanna penale, oggi (per fortuna) comporta solo un’esecrazione morale—quella che manda in visibilio Ugo Magri, il Mario Appelius della ‘Stampa’, che, dinanzi alle esternazioni del Presidente, commenta ammirato: «Un’ammissione così esplicita mai si era udita finora sul Colle».

Colpisce non poco che, tranne qualche eccezione, Mattarella abbia fatto a pezzi il revisionismo storiografico del più grande studioso del fascismo, Renzo De Felice, senza suscitare la benché minima reazione da parte di studiosi e di pubblicisti che pure continuano a richiamarsi alla lezione dello storico reatino. Il fascismo fu una bieca tirannide che tenne per vent’anni gli italiani schiavi di una dittatura implacabile, sanguinaria, spietata con «la complicità di organismi dello Stato, di intellettuali, giuristi, magistrati, cittadini asserviti». E gli ‘anni del consenso’, al quale era dedicato il più importante volume dell’opera monumentale di De Felice che quarant’anni fa scatenò la reazione dei retori dell’antifascismo ma di cui, di lì a poco, si sarebbe riconosciuto da tutti il valore storico (a cominciare dal Giorgio Amendola dell’Intervista sull’antifascismo)? Cancellati dalla retorica quirinalizia! Dire che il fascismo ha lasciato opere pubbliche ed enti assistenziali importanti, ricordare che alle une e agli altri si interessò molto Franklin D. Rooosvelt che incaricò una Commissione di studiare le ricette fasciste per la crisi, significa diventare complici del nazifascismo (v. la pioggia di insulti caduta sul povero Tajani). «La storia non si riscrive!» ha sentenziato Mattarella: il fascismo è stato quello che ci hanno detto l’ANPI e gli storici partigiani, punto e basta! De Felice, scrive Francesco Perfetti, «contesta duramente la qualifica di ‘secondo Risorgimento’ per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli ‘ideali civili’ (sintesi di ‘nazione’, ‘patria’, ‘libertà’) del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto ‘secondo Risorgimento’». A Mattarella non potrebbe interessare meno: parlare di ‘Secondo Risorgimento’ significa infatti—per lui come per l’establishment culturale di sinistra– che la Resistenza non fu una mera ‘restaurazione democratica ’(come la definì—‘riduttivamente’?— Panfilo Gentile), ma una vera e propria rifondazione della comunità politica che non doveva limitarsi a disinfestare la casa occupata dall’invasore nazista  ma costruire un nuovo edificio, ispirato alla ‘democrazia progressiva’—la formula escogitata da Togliatti per far dimenticare lo stalinismo del PCI e mettere in piedi un’alleanza di tutte le forze antifasciste, dai cattolici ai soupirants azionisti.

Ognuno è libero di pensare e di dire quel che crede—anche il Presidente della Repubblica, anche il Presidente del Parlamento europeo— ma ci si chiede sommessamente: l’opinione pubblica—su cui si fonda la democrazia, quel ‘banale conteggio delle teste’—conta qualcosa o no? E se l’opinione pubblica non vede nella dittatura fascista (almeno fino alle leggi razziali, che secondo Mattarella, noto studioso dell’antisemitismo e del razzismo, erano connaturate all’ideologia di Mussolini) l’inferno in terra,  se non vuol saperne di democrazia progressiva, come dimostrò nel 1948 con la sconfitta del Fronte popolare, se sente così poco il 25 aprile—Festa in piazza, ma i partigiani sono pochi, ha scritto Ettore M. Colombo sul QN— da tenersi lontana dalle cerimonie ufficiali, come  reagirà il Colle? Potenziando l’ANPI, moltiplicando le iniziative tipo la storia in piazza, esigendo dai professori di storia contemporanea l’impegno solenne a non riscrivere la storia? La libertà non si baratta con l’ordine ma neppure col ‘politicamente corretto’, Signor Presidente!

Pubblicato il 30 aprile su L’Atlantico



Retoriche istituzionali

Ogni anno il 25 aprile, in Italia, diventa l’occasione per dare fiato alle trombe (ovvero ai tromboni) della Repubblica. Riti e atmosfere sono, sostanzialmente, quelli del vecchio sabato fascista: discorsi esaltanti conditi di speranze tradite ma non tramontate, appelli alle nuove generazioni perché «portino avanti» i valori di quanti contribuirono alla cacciata dello straniero e alla caduta della dittatura fascista, moniti agli amici dei tiranni, ‘mal seme d’Adamo’ che in settant’anni non s’è ancora trovato il modo di debellare. Alla rievocazione delle «giornate del nostro riscatto» seguono sempre regolarmente, passata la festa patriottica e resistenziale, le note dolenti su quanti non sembrano essere stati commossi dalla fusione comunitaria ma soprattutto sui giovani che non sanno nulla di fascismo e di antifascismo, di repubblichini e di partigiani e, quel che è peggio, sembrano ignorare la genesi e la natura della Costituzione italiana.

Alla culture of complaint non poteva non dare il suo contributo il giudice emerito della Consulta Sabino Cassese, che, da qualche tempo, non c’è giorno che non ci propini distillati di saggezza in articoli e in interviste. Liberissimo di farlo e certo nessuno può dolersi se esercita un diritto sacrosanto—e riconosciuto a tutti i cittadini—di consiglio e di predica. È un diritto, però, che hanno anche i lettori, talora francamente perplessi dinanzi ad affermazioni poco meditate—per non dire brutalmente, infarcite di equivoci e luoghi comuni. Ne è un esempio la breve intervista, È fondamentale Sbagliato non avere insegnanti ad hoc, rilasciata al ‘Corriere della Sera’ il 28 aprile u.s. «L’insegnante di educazione civica—esordisce il professore giurista—oggi potrebbe essere la chiave per aiutare i ragazzi a combattere la diffusione dell’ignoranza e l’orgoglio dell’ignoranza». Un tale insegnante dovrebbe spiegare agli allievi che cosa è stato il fascismo, come esso abbia soppresso le libertà politiche, che cosa abbia rappresentato la Resistenza, perché bisogna fare del 25 aprile il nostro 14 luglio, perché la nostra è la Costituzione più bella del mondo. «Tranne gli istituti tecnici», lamenta Cassese, «l’educazione civica nelle scuole non è stata quasi mai insegnata». Se ne deduce che sono i periti chimici e industriali nonché gli aspiranti ai diplomi di infermiere, ottico, odontoiatra etc. ad avere un alto senso delle idealità repubblicane mentre i liceali di una volta, in mancanza di docenti ad hoc, rischiano di non sapere nulla di Mussolini, Togliatti, De Gasperi etc.

I testi di educazione civica non mancano, rileva Cassese, (esemplare quello di Norberto Bobbio e Franco Pierandrei, Introduzione alla Costituzione), mancano le materie, mancano i professori. «Le persone debbono sapere da dove arriviamo, com’è nata e in quale momento la Costituzione, devono conoscere le tappe principali dell’Italia». Si capisce poco, per la verità, perché questo compito non possa venire affidato ai professori di storia (obbligandoli, semmai, nel corso dei loro studi universitari, a sostenere l’esame di ‘Istituzioni di diritto costituzionale’) e tanto meno perché debbano essere i laureati in Giurisprudenza a illustrare «le tappe principali dell’Italia», dal momento che, nel loro piano di studi, non c’è un solo insegnamento di storia moderna e contemporanea. (Come si vede da certe affermazioni di PM e giudici ordinari, in dichiarazioni alla stampa o in frenetiche interviste). «Non basta spiegare le norme, bisogna immergerle nella vita concreta |…| bisogna far capire come funziona un partito, cosa sono i sindacati, le formazioni sociali come le Ong. E lo si deve fare con i dati statistici». Giustissimo ma non sono questi i ‘saperi’ dei sociologi e degli scienziati politici assenti, come si sa, nelle scuole medie superiori tradizionali?

Un insegnante di ‘educazione civica’ che sia insieme giurista, storico, sociologo, politologo, statistico, conoscitore profondo della ‘vita concreta’ poteva solo essere un parto dell’ideologia italiana da sempre nemica dei settori di studio specifici, richiedenti competenze specifiche. Cassese, indica al suo professore il corretto cammino didattico: «Nella prima lezione li porterei ad assistere a una seduta in Parlamento. Poi li porterei dentro la Corte costituzionale». E fin qui niente da dire purché si trovino insegnanti in grado di far capire alle scolaresche, in visita alle istituzioni, gli arcana del linguaggio giuridico della Consulta e le reali poste in gioco nei dibattiti tra i politici di diverso orientamento alla Camera o al Senato. È la terza stazione di pedagogia civica, invece, a destare qualche perplessità. «Quindi inviterei un sindacalista. Affronterei con loro temi cruciali come l’immigrazione, cercando di far capire perché lo straniero che vive legalmente qui ha diritto all’assistenza, ma non può votare». (Ho cercato di spiegare, in realtà, la ratio di questa presunta contraddizione ma non credo di poter convincere chi scambia i suoi valori per principi iscritti, giusnaturalisticamente, nell’ordinamento del cosmo).

Restiamo sempre, come si vede, nel campo dei ‘massimi problemi’ e di una filosofia dell’educazione all’insegna del saper tutto, che affida al docente la missione di risvegliare le menti, in vista della formazione non del ricercatore cauto, circospetto, tormentato dal que sais je? di Montaigne e dal dubbio scettico di Hume ma del cittadino attivo, ‘impegnato nel sociale’, bene intenzionato, dopo aver conosciuto il mondo—grazie semmai a quattro filmati televisivi—, a cambiarlo.

Siamo sempre lì, la demonizzazione della weberiana Wertfreiheit e dell’illusione di una conoscenza neutrale prelude a una scienza posta al servizio dell’etica, giusta uno stile di pensiero che, dal cristianesimo all’illuminismo, dal fascismo al comunismo impronta tutto il canone occidentale. Che la musica sia questa lo prova l’invito rivolto al sindacalista. Perché solo al sindacalista e non anche all’imprenditore? Non sono entrambi ‘parti sociali’ e la Repubblica non è fondata sul ‘lavoro’—sia manuale che intellettuale—e non sui lavoratori come avrebbe voluto (subdolamente) il PCI? Il sindacalista potrà ben esporre i problemi del lavoro che rientrano nella sua sfera di competenza ma l’imprenditore non potrà fare opera analoga, mostrando di che lagrime grondi e di che sangue fondare e dirigere una fabbrica oggi, con gli enormi condizionamenti costituiti dalle pubbliche amministrazioni, dalle banche, dalle politiche fiscali dei governi? Il fatto è che, per Cassese, le parti sociali non stanno sullo stesso piano giacché i sindacati rappresentano l’interesse generale mentre gli industriali perseguono soltanto il loro utile privato. Se è così, niente da eccepire: ognuno la pensi come vuole. Purché non si finga che lo ‘stile di pensiero’ di una parte politica—quella di Cassese, di Gustavo Zagrebelsky, del compianto Stefano Rodotà e degli odierni teorici dei ‘diritti sociali’— sia quello che deve ispirare le scuole di ogni ordine e grado della Repubblica e formare i cittadini del domani.