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Un caso inequivocabile di antifascistite acuta

14 Gennaio 2019 - di Dino Cofrancesco

Società

 Alberico Giostra non è uno dei tanti che scrivono su Facebook o su riviste on line lette da pochi intimi—parenti e amici. Ha lavorato al Tg La7 e scritto su ‘Liberazione’, ‘Il Manifesto’, ‘Il Riformista’, l’’Espresso’ e ‘Diario’. Nel 2007 ha pubblicato un’inchiesta su Clemente Mastella nel volume collettaneo, I nostri ponti hanno un anima, nel 2009, Il Tribuno. Storia politica di Antonio Di Pietro, nel 2013 l’e-book, Di Pietro ultimo atto. La caduta del Tribuno e nel 2018 Il partito del F.Q. Chi trova un nemico trova un tesoro, un feroce attacco al ‘Fatto Quotidiano’. Da tempo lavora alla RAI ovvero nell’ente pubblico che svolge un ruolo decisivo nell’informazione e, volente o nolente, nella formazione culturale degli italiani—qualche anno fa si sarebbe detto nella nazionalizzazione delle masse—e che, pertanto, dovrebbe fare una politica delle assunzioni particolarmente prudente e severa. L’8 gennaio Giostra ha postato su Facebook queste sue riflessioni: «Il pugile professionista che a Parigi si scaglia con violenza contro il poliziotto a terra, l’aggressione dei neofascisti di Forza Nuova contro il giornalista dell’Espresso, Federico Marconi, al Verano, dimostrano non solo che il fascismo non è un’ideologia ma un reato, ma che il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione. Si diventa fascisti perché si ha voglia di menare le mani, non per difendersi da qualche minaccia. Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno. Si diventa antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia. Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia. Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità».

 Vale la pena occuparsi di queste farneticazioni? L’obiezione che mi è stata fatta da un amico giornalista al quale avevo manifestato il mio stupore dinanzi a tante banalità ideologiche, è tutt’altro che infondata. Sennonché è difficile trattenere lo sconcerto se si pensa che, piaccia o no, la mens di Giostra è la stessa di tanta, tantissima, parte della nostra political culture: i suoi giudizi   sono moneta corrente nelle nostre facoltà umanistiche, nei mass-media, nelle pagine culturali dei grandi quotidiani nazionali, nei tribunali dell’ANPI, quelli che hanno dato notizia della morte di Giorgio Albertazzi col comunicato Un bastardo ci lascia e hanno contribuito a stendere un velo di silenzio sul 1918—l’inutile strage voluta da una minoranza cieca e violenta. Pubblicisti come Giostra, in realtà, non sono da sottovalutare: rappresentano, infatti, un case study esemplare che consente di mettere a fuoco la degenerazione dell’antifascismo in antifascistite acuta e le ragioni del discredito odierno che tale repellente metamorfosi getta sulla più nobile delle cause politiche, quella della lotta per la libertà dei popoli e in difesa della dignità umana.

A chi da una vita si occupa di fascismo, sulla scia di grandi storici e filosofi del XX secolo—da Renzo de Felice ad Augusto Del Noce, da Ernst Nolte a Domenico Settembrini—il post di Giostra fa un effetto terribile e sconvolgente. Dà il senso dell’assoluta inutilità di una ricerca storica che, sulle due rive dell’Atlantico, ha segnato momenti fondamentali per l’evoluzione stessa della democrazia liberale: non è casuale che il revisionismo storiografico—che ha avuto in De Felice il suo simbolo per antonomasia—abbia ridato nuovo vigore intellettuale al liberalismo contemporaneo, ispirando, ad es., opere come Il passato di un’illusione del grande storico François Furet, prematuramente scomparso, e abbia ridestato l’attenzione  sulla produzione saggistica di Raymond Aron, il principe del liberalismo novecentesco, quasi un revisionista ante litteram per i suoi studi sulle destre—conservatrice e radicale. Leggere che « il fascismo non è un’ideologia ma un reato» e che « il fascismo è ed è sempre stato nient’altro che un orpello retorico per attribuire una miserabile logica politica ai più beceri istinti di violenza e sopraffazione» significa trasmettere alle giovani generazioni, avide frequentatrici di facebook, un’immagine della dittatura italiana che avrebbe fatto trasalire persino il Palmiro Togliatti delle Lezioni sul fascismo (il celebre ciclo di conferenze tenuto dal Migliore a Mosca tra il gennaio e l’aprile 1935) per non parlare del Gramsci dei Quaderni.

 Con Giostra siamo ancora nella fase preanale della riflessione sui movimenti totalitari di destra, segnata dall’autocompiacimento per le proprie secrezioni etico-emotive e dall’estraneità assoluta all’etica weberiana della ricerca, che distingue analisi e valutazioni, scienza e coscienza. Sennonché l’auogratificazione di chi si sente immune dai «più beceri istinti di violenza e di sopraffazione» ha un costo elevato: la cancellazione della realtà, l’incapacità di riconoscere che, per tanti anni, una parte rilevante della società italiana ha plaudito al duce e che tanti illustri intellettuali—da Giovanni Gentile a Luigi Pirandello, da Gioacchino Volpe a Guglielmo Marconi —hanno visto in lui il pater patriae, il salvatore di una  ‘comunità nazionale’ dilacerata non tanto dai problemi enormi della ricostruzione postbellica quanto dall’irresponsabilità politica dei principali partiti e sindacati  privi del senso delle istituzioni e restìi  a mettere da parte i loro contrasti per salvare natura e funzioni dello Stato di diritto.

 Se si definisce fascista   chi ha voglia di ‘menar le mani ’non ha più senso alcuno lo sforzo di comprensione dei nostri avversari: alla violenza si reagisce con la violenza senza perder tempo in inutili chiacchiere. Come nel vecchio western ,vince chi spara per primo e Giostra si candida a pistolero (per ora solo verbale) al servizio della Dodge City antifascista. Sennonché, nel suo concetto allargato di fascismo, tutto diventa species  del genus.« Si diventa razzisti e omofobi perché si odiano i diversi da noi, non perché neri e omosessuali minaccino qualcosa o qualcuno»: in altre parole, se si è contrari alle nozze gay e, soprattutto, all’adozione gay (ma non al riconoscimento giuridico delle coppie di fatto) in nome di una visione tradizionale della famiglia non si è portatori di valori diversi da quelli di Giostra e del ‘Manifesto’—valori ereditati appunto dalla Tradizione  contrapposti ai valori  nati dal Progresso–:si diventa la mela marcia fascista che una società civile è tenuta ad espellere dal suo paniere. Del pari, se si è «antiabortisti perché si odia la libertà delle donne non per salvare la famiglia» ,le riserve manifestate da Norberto Bobbio nei confronti dell’interruzione della gravidanza vanno lette come senescenza senile, oscuramento dell’intelligenza morale.

 La sindrome totalitaria può definirsi come la malattia dello spirito che tende a fare un solo fascio di quanti non la pensano come noi e a squalificare a priori le distinzioni nel campo di Agramante che fanno perdere solo tempo. Tra il seguace del ‘Movimento per la vita’—che legittimamente, peraltro, si batte contro l’aborto—e il liberale laico che assimila l’aborto a un omicidio ma ritiene che lo sconvolgimento di vita della madre sia da tenere in maggiore considerazione della pur dolorosa soppressione di una esistenza non ancora sbocciata, non c’è nessuna differenza. Tra chi si lamenta di un’immigrazione che degrada e rende insicuri i quartieri   delle metropoli (e non sono certo quelli ricchi) e l’incappucciato del Ku Klux Klan c’è solo un diverso grado di temperatura razzista.

«Si diventa giustizialisti perché si è mossi dal sadico piacere di vedere ridotto alla gogna o condannato qualcuno, non per riaffermare una qualche presunta giustizia». Per chi sa come va il mondo—anche se non ha fatto il militare a Cuneo—l’universo morale è sempre in bianco e nero: nessun sospetto, pertanto, che nella pur detestabile categoria dei giustizialisti ci siano persone che non godono affatto (o godano poco) nel vedere qualcuno alla gogna ma che pensano a torto (dal mio punto di vista liberale) che una giustizia rapida e implacabile debba difendere la società dei corrotti e dai violenti, senza andar troppo per il sottile. Tutti fascisti, insomma, tutti parte della massa damnationis che Giostra vuole sprofondare nelle fogne! Siamo passati dalla scala f  ||f sta per fascismo|| della personalità autoritaria—la ricerca collettiva del 1950 guidata, negli Stati Uniti, dall’esule T. W. Adorno– il discusso fondatore della Scuola di Francoforte ma pur sempre erede della grande tradizione filosofica tedesca—al Fascistometro (ed. Einaudi) proposto dalla dilettante allo sbaraglio Michela Murgia, una sarda alla quale i media hanno dedicato un’attenzione a dir poco eccessiva (ed avvilente per i seri cultori delle humanities)

 Forse per aver il senso della complessità della vita e della tremenda difficoltà cui va incontro la smania dell’etichettatura ideologica bisognerebbe aver letto Montaigne e Hume—a mio avviso, da considerare padri nobili del liberalismo a maggior titolo degli stessi Locke e Montesquieu–: potrebbero essere un antidoto contro la tentazione—così forte in quanti ,da noi, si occupano di politica, a destra e sinistra—del fondamentalismo etico-politico per il quale finché c’è guerra (civile) c’è speranza. Sennonché in Italia i due classici dello scetticismo moderno—Montaigne e Hume, appunto—sono autori più ammirati che letti e, quand’anche venissero letti, servirebbero solo come armi contro la Tradizione e non certo come lame a doppio taglio in grado di scalfire le certezze del progressismo illuministico e del suo supposto punto di approdo: il comunismo sovietico.(i pochi filosofi humeani che ho conosciuto, ai tempi dell’Università, votavano tutti per il PCI, come i cd ‘filosofi analitici’ che della ‘grande divisione’ tra giudizi di fatto e giudizi di valore si riempivano la bocca, forse senza aver letto una sola pagina di Vilfredo Pareto, uno dei più grandi  sociologi del suo tempo che su quella divisione scrisse pagine definitive).

 L’obiettivo incitamento all’’odio per il diverso’ (la destra, il fascismo, il tradizionalismo etc. etc.) che si registra nel post di Giostra non poteva non concludersi con un monito esemplare: « Si diventa fascisti perché si ama la menzogna, perché la prima violenza il fascismo e i suoi fiancheggiatori la commettono contro la verità». A questo punto forse è inutile (e persino patetico) ricordare che, per l’homo europaeus, la politica e l’etica sono senza verità giacché la verità appartiene al dominio della scienza mentre la politica e l’etica sono fatti di coscienza e non devono stabilire che cosa è vero ma che cosa è giusto e per chi…E ancor più superfluo è rilevare ciò che per gli studiosi seri sarebbe la scoperta dell’acqua calda e cioè che la violenza politica contrassegna tutte le ideologie e i regimi totalitari e che riguardare il diverso alla stregua di un criminale ricorda personaggi come Lenin, Mao, Pol Pot—che i ‘libertari’ del ‘Manifesto’ contrapponevano al burocratismo del sedicente compagno Stalin, fascista il va sans dire.

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Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco
Arce (FR), 15 novembre 1942 Laurea in Filosofia Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università degli Studi di Genova.
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Un caso inequivocabile di antifascistite acuta