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Test o croce, non è così che si fa la selezione

21 Settembre 2017 - di Luca Ricolfi

Società

Fra proteste di piazza, ricorsi al Tar, scontri con le autorità accademiche, non è stato un settembre facile quello delle università italiane. Un po’ dappertutto è scoppiata la rivolta contro il numero chiuso, o “programmato”. E gli studenti hanno già raggiunto qualche risultato: il Tar del Lazio ha bocciato il numero chiuso alle facoltà umanistiche della Statale di Milano. Alla Sapienza è stato annullato il test di ingresso per le lauree magistrali di Psicologia: il test dovrà essere ripetuto. A Firenze, alcune incongruenze fra bando e contenuto delle domande hanno costretto ad ammettere tutti i 1329 studenti che avevano partecipato ai test per l’accesso alle facoltà di Biotecnologie, Scienze biologiche, Scienze farmaceutiche applicate – controllo qualità, Farmacia, Chimica e tecnologia farmaceutica.

La contestazione dei test poggia su due argomenti distinti. Primo, ogni diplomato dovrebbe essere libero di scegliere gli studi universitari che più lo appassionano, senza limitazioni. Secondo, i test di ingresso non sono un buon metodo per separare i migliori o i più adatti.

Hanno ragione gli studenti?

La mia esperienza di professore universitario mi dice che gli studenti, o meglio i rappresentanti degli studenti negli organi collegiali delle università, hanno quasi sempre torto (o perlomeno a me paiono averlo). Le loro rivendicazioni sono infatti quasi sempre attente agli aspetti organizzativi ed esteriori dello studio (ad esempio il numero di appelli) e mai a quelli culturali e sostanziali (come la qualità dei corsi, o il funzionamento dei laboratori). E tuttavia, in questo caso, penso che abbiano ragioni da vendere sue entrambi i punti.

Essi hanno certamente ragione sul test di ingresso per le matricole (studenti del 1° anno), che è uno strumento di incredibile rozzezza per valutare le attitudini e capacità dei futuri studenti universitari. La principale caratteristica che il test, molto imperfettamente, misura, è la velocità mentale, non certo la profondità o le capacità di organizzazione del pensiero, che in tante discipline sono ben più importanti della velocità.

Ma gli studenti hanno anche ragione sul principio generale per cui l’accesso all’università dovrebbe avvenire in base alle proprie inclinazioni ed aspirazioni, non in base a incerti calcoli sulle proprie probabilità di passare un test. E’ paradossale che ci si lamenti ad ogni piè sospinto del basso numero di laureati dell’Italia, e nello stesso tempo si ostacoli in ogni modo l’accesso all’università.

Tutto chiaro dunque? Si tratta solo di recepire la giusta richiesta degli studenti di una piena liberalizzazione degli accessi?

Assolutamente no. Il vero problema dell’università italiana non è che frotte di bravi studenti ne sono inclusi, il vero problema è che già oggi, nonostante gli ostacoli (spesso assurdi o artificiosi) che limitano il flusso degli ingressi, il numero di studenti che sono effettivamente in grado di effettuare studi di livello universitario è molto inferiore al numero di iscritti. Già così si laurea appena 1 studente su 2, ma credo che se facessimo seriamente il nostro lavoro di docenti, ovvero mantenessimo gli standard che erano propri dell’università di qualche decennio fa, dovremmo laurearne circa 1 su 5. O meglio: dovremmo laurearne leggermente di meno di oggi nelle facoltà scientifiche, il cui livello è rimasto decente, ma dovremmo laurearne quasi nessuno in quelle umanistiche, dove da decenni i professori assistono senza ribellarsi all’abbassamento degli standard.

Che fare, dunque?

Se ci fossero risorse, molte risorse, una soluzione ragionevole sarebbe adottare il cosiddetto “sistema francese”, che è basato su un semplice principio: iscriviti pure all’università, ma se dopo 1-2 anni non sei a posto con gli esami ti fermi lì. Il problema è che il sistema francese non funziona granché nemmeno in Francia, perché non ci sono abbastanza aule, laboratori, professori, tutor, per permettere a un’enorme massa di giovani di “provare” se sono adatti al tipo di studi che hanno scelto.

L’altra soluzione, ancora più utopistica, sarebbe di costringere le scuole – con un sistema di sorveglianza efficace – a non regalare pezzi di carta che valgono poco in generale, e soprattutto hanno valori del tutto diversi nelle varie parti del paese (studi accurati hanno dimostrato che, mediamente, un 7 dato a Napoli equivale a un 5 dato a Milano). Se le scuole non falsificassero sistematicamente i titoli di studio, certificando competenze inesistenti, l’accesso all’università potrebbe essere ragionevolmente regolato dal voto di maturità, o dalle pagelle degli ultimi anni di scuola secondaria superiore.

Ci sono altre soluzioni?

Io non ne vedo. Ma è uno dei tanti pregiudizi dell’umanità pensare che, per un problema, esista sempre una soluzione. I problemi insolubili esistono. E quello sollevato dalle giuste proteste degli studenti in questo inizio di anno accademico ne è un ottimo esempio.

Pubblicato su Panorama il 21 settembre 2017
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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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