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La “sindrome garibaldina”, quel nostro male oscuro a cui ha contribuito anche Garibaldi

29 Maggio 2019 - di Dino Cofrancesco

Politica

Ho una passione per Giuseppe Garibaldi non inferiore – si licet magnis componere parva – a quella nutrita da Giovanni Spadolini e da Bettino Craxi, grandi collezionisti di libri e di cimeli di camicie rosse. Il nizzardo era uomo di gran cuore e tutt’altro che un incolto. La sua formazione intellettuale fu quella di un irregolare – come ce ne furono tanti nella storia, e non solo italiana – ma non estraneo ai grandi problemi sociali, culturali, politici del suo tempo. Dovette il suo apprendistato ad alcuni esuli sansimoniani che aveva conosciuto a bordo di una nave e furono essi che gli instillarono un socialismo “buonista” ma attento alle grandi trasformazioni indotte dalla scienza e dalla tecnica. Fu un impareggiabile “guerrigliero” ma, altresì, un “vero” generale come dimostrò la grande battaglia del Volturno, che segnò la fine irrimediabile del Regno delle Due Sicilie. Molto più realista del suo primo mentore Giuseppe Mazzini, mise da parte (ma non rinnegò mai) il suo istintivo repubblicanesimo, consapevole che l’Italia avrebbe potuto unificarsi solo se, se ne fosse fatto carico uno Stato moderno, con un esercito regolare, e con un monarca determinato e pronto a rischiare il trono per la buona causa.

 Da qualche tempo l’Eroe dei Due Mondi è diventato il bersaglio preferito di un revisionismo storiografico che con quello vero – mi riferisco a storici della statura intellettuale di Renzo De Felice e di François Furet – ha un rapporto, a essere blandi, solo di omonimia. A “sparare sulla croce rossa”, anzi sul poncho rosso, sono stati anche giornali divenuti poi organici al “luogocomunismo progressista” (espressione di Luca Ricolfi), a cominciare dal Foglio di Giuliano Ferrara. Sono passati i tempi – ricordati da Alessandro Barbero in una bella intervista televisiva di qualche tempo fa – in cui Garibaldi era il santo patrono sia dei fascisti (v. l’esaltazione fattane dalla Repubblica Sociale) sia degli antifascisti (v. le Brigate Garibaldi e il volto dell’eroe sul simbolo del Fronte popolare). Oggi quando non è rimosso dalla memoria collettiva viene ricordato, tutt’al più, come benemerito pacifista, generoso combattente per la libertà di tutti i popoli, e gran tribuno delle plebi italiche che voleva redimere da una condizione secolare di abbrutimento e di miseria materiale e morale. È un santino, lo ribadisco, che venero anch’io ma… E purtroppo c’è un “ma” grande come una montagna, che riguarda anche Garibaldi e la sua eredità spirituale, a riprova che nel “legno storto” siamo stati intagliati tutti anche i più fulgidi esempi di eroismo civile. Al male oscuro, dal quale il paese non riesce a guarire, ha contribuito, ahimè, pure il solitario di Caprera e in maniera decisiva.

Intendo riferirmi all’idea che al di sopra delle leggi e delle istituzioni c’è un paese morale che ha il diritto e persino il dovere di non tenerne conto quando i suoi valori son “calpesti e derisi” dall’applicazione letterale delle norme e al suo corollario, che custodi di questi ultimi siano famiglie o ceti o movimenti carismatici. Una sorta di ritorno (laicissimo beninteso) al Medio Evo e alla sua concezione dei due poteri, quello temporale, detentore della spada, e quello spirituale, erede della croce. Finché il primo – in Italia, lo stato sabaudo – si muove in conformità alle direttive spirituali che gli vengono dal secondo, nulla quaestio ma ogni volta che travalica sia pure appellandosi a leggi formali incompatibili con la sostanza etica della comunità nazionale, è compito dei Custodi dell’Ideale scendere in piazza e ricordare ai governanti i loro obblighi. In questa ottica, i diritti individuali e gli stessi pronunciamenti elettorali del “popolo sovrano” non hanno alcuna rilevanza: fanno parte del “paese legale” contrapposto al “paese morale” (la vecchia espressione “paese reale” è del tutto impropria: cosa c’è, infatti, di più “reale” del voto espresso dalla maggioranza degli elettori?).

Se ci si riflette bene, c’è uno spirito garibaldino, sia in Mussolini che portava a S. M. il Re “l’Italia di Vittorio Veneto”, sia nella pretesa della Cgil e dell’Anpi genovesi, che nei giorni scorsi avevano chiesto alle istituzioni di non autorizzare la manifestazione di Casa Pound – in cui, tra l’altro, era previsto l’intervento di una brava persona, il politico di lungo corso Gianni Plinio, passato dal MSI a Forza Italia. In entrambi i casi, la superiore legittimità di cui si sentivano portatori fascisti e antifascisti rendeva vana, ieri, la considerazione che la marcia su Roma era un autentico colpo di Stato e oggi che impedire la riunione di un partito legalmente riconosciuto e in competizione con gli altri partiti alle elezioni europee avrebbe costituito un vulnus per la democrazia, impensabile senza la più assoluta libertà di parola e di propaganda.

In un paese normale, non c’è nulla di male se si chiede al sindaco, al prefetto, al questore di non autorizzare il raduno di temuti avversari politici: chi lo fa mostra di non conoscere l’abc della democrazia liberale ma non si è obbligati ad avere sempre idee giuste e il controllo delle proprie emozioni. Da noi, però, è questo il punctum dolens, scatta la “sindrome garibaldina”: i Custodi dell’Ideale non si limitano a chiedere e a deprecare ma, se non vengono ascoltati, mettono in atto sanzioni severe, mobilitano i seguaci, provocano tafferugli con le forze dell’ordine, bloccano per ore il centro cittadino. Che ci siano chierici, giornalisti, opinion makers per i quali tutto questo è normale e non dipende affatto da una political culture che dovrebbe spaventarci bensì da una reazione eccessiva ma comprensibile all’Ur-faschismus di umbertechiana memoria, è qualcosa a cui non possono rassegnarsi gli amici, sempre meno numerosi in Occidente, della “società aperta”.

A scanso di equivoci, si può anche ritenere giusto e “costituzionale” lo scioglimento di Casa Pound – sempre ove si dimostri che la sua apologia del fascismo è un reato che prelude a una cospirazione reale progettata da adepti armati reali – ma è assurdo pensare che contro una decisione che il Governo e il Parlamento non hanno ancora preso né intendono prendere, si possa ricorrere all’Inquisizione della Cgil, dell’ANPI e finanche dei Centri sociali (antifascistissimi of course), intesi come supplenti (moralmente) autorizzati delle istituzioni carenti. Nessuno Stato di diritto può riconoscere sopra di se un pouvoir spirituel, una chiesa, che lo tenga sotto tutela.

Articolo pubblicato su Atlantico il 28 maggio 2019
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Dino Cofrancesco
Dino Cofrancesco
Arce (FR), 15 novembre 1942 Laurea in Filosofia Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università degli Studi di Genova.
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