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In cerca di consenso

4 Maggio 2017 - di Luca Ricolfi

Politica

Che i ceti popolari non guardino più a sinistra, non solo in Italia ma un po’ in tutti paesi avanzati, è diventato quasi un luogo comune.

A renderci coscienti del distacco fra sinistra e popolo hanno contribuito molto la Brexit e la vittoria di Trump, due circostanze in cui le periferie e le campagne hanno voltato le spalle alla sinistra. Ma non meno chiari sono stati i segnali in casa nostra: Chiara Appendino e Virginia Raggi, probabilmente le due sindache (si può dire così?) più famose d’Italia, hanno sfondato nei quartieri popolari, mentre il Pd ha tenuto nei quartieri alti, e più in generale dove la crisi ha mietuto meno vittime.

Quel che è meno noto è che il distacco fra sinistra e popolo non si è prodotto negli ultimi anni, con l’esplodere della crisi (2007-2008), o con la vittoria di Renzi (2014), ma è iniziato circo mezzo secolo fa. Il primo scricchiolio risale addirittura ai primi anni ’60, quando il Partito socialista va al governo (primo centro-sinistra, 1963), e poco per volta altera la propria base sociale, accentuando vieppiù il suo carattere di partito di ceto medio, fortemente insediato nel Mezzogiorno, con larga base clientelare. Ma la svolta decisiva avviene nel 1973, quando il PCI di Enrico Berlinguer lancia la politica del compromesso storico, che era essenzialmente un’apertura ai ceti medi, allora egemonizzati dalla Dc. Poi quel cammino è proseguito in modo più o meno invisibile, fino all’inizio degli anni ’90, quando chi volesse vedere aveva già tutti gli elementi per accorgersi della mutazione in corso nelle basi sociali dei partiti: prima il fenomeno degli operai con la tessera della Cgil che votano Lega, poi il successo di Berlusconi non solo fra i ceti medi ma anche fra operai, disoccupati, lavoratori precari, artigiani. Infine, con il nuovo millennio e l’irrompere della crisi, quel distacco si è fatto ancora più accentuato, fino all’attuale balbettio della classe dirigente di sinistra, divisa fra chi si ostina e difendere le politiche di questi anni (Renzi) e chi – il colmo per un progressista – non trova di meglio che proporre un ritorno al passato, stante che nel passato le cose andavano meglio.

Ma perché le cose sono andate così? E soprattutto: è il popolo che ha abbandonato la sinistra, o è la sinistra che ha abbandonato il popolo?

La mia opinione, che ho provato anche ad esporre in un libro appena uscito (Sinistra e popolo, Longanesi 2017), è che sia la sinistra ad aver abbandonato il popolo, e non viceversa. Detto altrimenti, sono le scelte politiche della sinistra che le hanno alienato il favore popolare. Certo, sul divorzio fra sinistra e popolo hanno inciso anche fattori strutturali, come la deindustrializzazione e le delocalizzazioni che, facendo scomparire milioni di posti di lavoro, hanno semplicemente fatto mancare il terreno sotto i piedi ai partiti laburisti, socialdemocratici, socialisti. Ma il grosso dei propri guai, la sinistra se li è procurata da sola. In che modo?

Fondamentalmente attraverso il progressivo abbandono dei suoi cavalli di battaglia classici, i pietrosi temi dell’occupazione, dei salari, del contrasto alla povertà, a favore di innumerevoli temi soft, o “sovrastrutturali” come si sarebbe detto un tempo: prima divorzio e aborto, poi diritti dei gay, coppie di fatto, quote rosa, fecondazione assistita, eutanasia, testamento biologico, ambiente, amnistia, indulto, linguaggio sessista, omofobia, linguaggio sessista, e chi più ne ha ne metta. Tutte cose progressiste, ma non prioritarie (e qualche volta percepite come sbagliate) fra i ceti popolari, da molto tempo alle prese con problemi ben più prosaici, o semplicemente materiali: la difesa del posto di lavoro, il reddito, la disoccupazione, il degrado delle periferie e l’insicurezza di fronte alla criminalità.

A questo spostamento complessivo dell’asse delle politiche di sinistra si sono poi aggiunte due scelte di straordinario autolesionismo. La prima è l’adozione acritica del “politicamente corretto”, ovvero di quanto di più lontano si possa immaginare dalla sensibilità e dal linguaggio popolare, da sempre disinibito e incline all’ironia. La seconda è l’adesione senza se e senza ma alla filosofia dell’accoglienza, declinata nel modo che tutti abbiamo avuto sotto gli occhi in questi anni: grandi proclami buonisti, accompagnati dalla sostanziale accettazione del caos nella gestione degli ingressi e della permanenza in Italia (per non parlare del degrado dei campi di accoglienza, e del business dell’industria della bontà).

Ecco perché, quando la crisi economica ha colpito i bilanci familiari, e gli sbarchi sono andati completamente fuori controllo, la sinistra è risultata del tutto spiazzata. Avendo passato almeno due decenni a sostenere le meravigliose opportunità della globalizzazione e delle istituzioni sovranazionali, avendo speso tutte le proprie energie ideologiche per convincere gli italiani che le loro paure verso criminalità e immigrazione erano immotivate, avendo aderito senza il minimo senso critico (e senza un grammi di ironia) al pensiero unico del politicamente corretto, la sinistra non è in grado di articolare una risposta minimamente credibile alla domanda di protezione che sale dal paese.

E tuttavia quella domanda esiste, ed è fortissima fra coloro che stanno più in basso. Inutile stupirsi, allora, del successo delle forze populiste, in Italia non meno che in Europa e in America. Perché la prima differenza fra sinistra e populisti non sta nelle risposte (talora assai simili, e impregnate di assistenzialismo), ma nella capacità di vedere la domanda. E la sinistra, quel tipo di domanda, che chiede protezione contro la crisi economica ma anche contro criminalità e immigrazione, proprio non la vede. E’ la sua storia che glielo impedisce, è la sua storia che l’ha resa cieca.

Pubblicato su Panorama il 4 maggio 2017
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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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