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Immigrazione e decreto dignità, intervista a Luca Ricolfi

20 Luglio 2018 - di Luca Ricolfi

Politica

Domanda. Il governo giallo-verde ha mosso i primi passi. Tra proclami fatti e provvedimenti adottati, si connota come governo di destra o di sinistra?

Risposta. Entrambe le cose, con una specificazione però: della destra e della sinistra prende le componenti più populiste e anti-moderne. A Salvini il respingimento degli immigrati pare interessare più della flat tax, a Di Maio l’irrigidimento del mercato del lavoro pare interessare di più che la riforma dei centri per l’impiego. Non a caso il Decreto Dignità piace a LeU, e viene criticato solo perché non è ancora abbastanza di sinistra: ma è la sinistra nostalgica, che crede che rimettendo l’articolo 18 il mondo si raddrizzi.

D. Lei sostiene che alle origini dell’accresciuto senso di insicurezza degli italiani non c’è solo la campagna della Lega contro lo straniero. Può spiegarsi meglio?

R. Prima di accusare il popolo di non conoscere “le vere cifre” dell’immigrazione in Italia invito a riflettere sulle cifre degli sbarchi.

D. Quali sono?

R. Sotto i governi di centro-sinistra gli sbarchi sono circa quintuplicati: fatto 100 il flusso prima delle cosiddette primavere arabe (periodo 1997-2010), nel periodo 2011-2016 il flusso era salito a 450 circa. Poi è arrivato Marco Minniti, ministro dell’interno con Gentiloni, che i flussi li ha più che dimezzati, portandoli a 214. Ma si trattava pur sempre di un livello più che doppio rispetto a quello storico, che già suscitava inquietudini nei cittadini italiani.

D. E il governo Conte?

R. L’attuale governo a giugno ha ulteriormente dimezzati gli sbarchi, portandoli a quota 100, esattamente il livello anteriore al 2011. E nei primi 17 giorni di luglio il flusso è sceso più o meno a livello 75, ossia più in basso del livello storico.

D. Lei sta dicendo che il senso di paura non è più motivato?

R. All’origine delle paure ci sono elementi oggettivi: l’aumento degli sbarchi, l’impossibilità di rimpatriare chi non ha diritto, la conseguente crescita di un esercito di immigrati irregolari, di cui solo una parte si sposta in altri paesi europei. C’è poi da considerare un altro fattore: la domanda di sicurezza, che non è alimentata solo dagli imprenditori della paura, ma – molto banalmente – dalla pubblicità, sia quella commerciale, sia quella “progresso”.

D. In che modo la comunicazione incide sulle paure?

R. Da almeno vent’anni siamo ossessionati dai pericoli che correremmo negli ambiti più diversi, da quando ci laviamo i denti a quando saliamo su un’automobile. Le parole «sicuro», «sicurezza», «protezione», «rischio», «pericolo» e i loro sinonimi spadroneggiano sugli schermi dei nostri televisori, e non solo negli intervalli pubblicitari.

D. Insomma, la sicurezza è un must, al di là della Lega e di Salvini…

R. Quello che voglio dire è che nessuno si stupisce che la gente pretenda più sicurezza sul lavoro o in strada, ma molti si stupiscono che voglia più sicurezza in materia di immigrazione. Eppure la logica è la stessa: gli standard di sicurezza dei cittadini occidentali si sono enormemente alzati negli ultimi decenni, ma lo hanno fatto un po’ in tutti gli ambiti, al punto che l’ultima generazione – cresciuta a pane, internet e genitori iperprotettivi – è considerata patologicamente insicura da molti psicologi. Sul punto consiglierei di leggere Iperconnessi di Jean Twenge, edito da Einaudi.

D. E qual è la differenza allora?

R. La differenza è questa: se la domanda di protezione riguarda criminalità e immigrazione si accusano gli «imprenditori della paura», ma se la domanda di protezione riguarda le donne (stalking) o gli incidenti in fabbrica, a nessuno viene in mente di accusare la Boldrini o la Camusso di essere «imprenditrici della paura». C’è qualcosa che non va, sul piano logico.

D. Quali sono gli errori compiuti dalla sinistra e dagli ultimi governi su immigrazione e legalità?

R. Aver continuato, con i suoi uomini più lucidi, a proclamare che il tema della sicurezza è anche di sinistra, salvo comportarsi come se fosse solo di destra. Sull’immigrazione e gli sbarchi la sinistra, con pochissime eccezioni, è stata sempre e semplicemente negazionista. Un atteggiamento di una miopia incredibile, che mostra quanto nel mondo progressista l’ideologia prevalga ancora sul senso comune.

D. Intanto la cronaca racconta di una migrante salvata da una Ong dopo che da 48 ore era aggrappata a un barcone alla deriva, un’altra donna e un bambino sono stati ritrovati morti. Ed è polemica contro il Viminale e gli accordi presi con i libici. Il pugno duro di Salvini sugli sbarchi potrebbe diventare un boomerang in termini di consenso per la Lega?

R. Non credo, la gente accetta qualsiasi cosa purché gli sbarchi finiscano. Ma questo dovrebbe preoccuparci, perché fermare gli sbarchi non può essere la soluzione di tutto.

D. Perché non potrebbe essere la soluzione?

R. Per almeno tre motivi. Il primo è che non possiamo chiudere gli occhi sulle condizioni di detenzione e di rimpatrio di chi prova a lasciare le coste della Libia. E questo non tanto perché i governi libici sono corrotti e si macchiano di crimini orrendi, decine di altri governi fanno la stessa cosa, ma perché finché noi supportiamo i libici con soldi, mezzi e contratti (L’Eni è in Libia), non possiamo chiamarci fuori. Trovo stupefacente che nessun governo italiano, di qualsiasi colore esso fosse, abbia mai condizionato gli aiuti alla Libia a rigorose condizioni sul rispetto dei diritti umani nei campi profughi, nonché a controlli severi sull’uso degli aiuti stessi.

D. Il secondo motivo?

R. Il problema più grande non sono i flussi annui di 10, 100 o 200 mila sbarchi, ma i 500, 600 o 700 mila immigrati irregolari che circolano in Italia, e che nessuno sa come gestire. Infine, il terzo motivo per cui azzerare gli sbarchi non è la soluzione è che noi comunque di un flusso di migranti, regolare e regolato, abbiamo comunque bisogno. E non bastano certo i complicati meccanismi dei decreti flussi ad assicurarlo.

D. In questi giorni si è consumato uno scontro assai accesso tra il ministro del lavoro, Luigi Di Maio, e il presidente Inps Tito Boeri circa gli effetti del Decreto Dignità: 8 mila posti in meno l’anno, stima l’Inps. Per Di Maio, Boeri così fa politica e dovrebbe dimettersi. Che ne pensa?

R. Indubbiamente Boeri fa politica, le sue posizioni su vitalizi, pensioni e ruolo economico dei migranti non sono asettiche. In certe circostanze, anzi, Boeri ha fatto sponda con Di Maio o viceversa. Ma sul punto degli effetti del decreto dignità Boeri ha pienamente ragione, e Di Maio ha torto marcio.

D. Perché?

R. Lo spiego subito, i numeri dell’Inps, sottoscritti dalla Ragioneria dello Stato, non hanno nulla di politico, sono un mero esercizio contabile, peraltro obbligatorio quando si vara un decreto che ha effetti sul gettito e sulla spesa. Non li si può contestare dicendo che non c’è base scientifica, ma solo proponendo altri numeri, argomentati in modo più convincente. Io li ho esaminati.

D. E che cosa emerge dalla sua analisi?

R. Mi sono formato l’opinione che sì, i numeri di Boeri, ovviamente, non sono indiscutibili, ma non perché i posti di lavoro perduti potrebbero essere meno di 8 mila, ma perché, molto più verosimilmente, potrebbero essere di più. Anche parecchi di più. Insomma, secondo me Boeri è stato fin troppo cauto o, se vogliamo a tutti i costi buttarla in politica, è stato fin troppo filo-governativo.

D. Sul decreto si stanno registrando anche le prime crepe tra Lega e M5s, tra le ragioni delle imprese e quelle del lavoro…la contrapposizione è destinata a sanarsi oppure ad esplodere a breve?

R. È probabile che l’alleanza si romperà, ma non per i contrasti interni. Se ambedue i partner avessero voglia di governare per 5 anni, un compromesso lo troverebbero senza difficoltà. Il problema è che uno dei due, Salvini presumibilmente, a un certo punto si convincerà che gli conviene tornare al voto, e che quello è il momento buono. A quel punto non ci sarà accordo, contratto o compromesso che possa evitare la crisi.

Intervista a cura di Alessandra Ricciardi pubblicata su Italia Oggi il 19 luglio 2018
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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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