Premessite, la nuova malattia del politicamente corretto

Quando, un anno fa, Paola Mastrocola ed io pubblicammo (sul primo numero de La Ragione) il nostro “Manifesto della libera parola”, non pensavamo che le cose potessero cambiare granché, almeno nel breve periodo. Dopotutto, la cultura (e pure il suo doppio e rovescio: l’anticultura) si modificano lentamente, come la lingua, i costumi, le abitudini.

Ci sbagliavamo. Questi 12 mesi non sono stati tranquilli. Qualche mese dopo l’uscita del nostro manifesto, è esploso uno dei casi più gravi di repressione della libertà di parola: la prof.ssa Kathleen Stock, dell’Università del Sussex, è stata costretta alle dimissioni per le sue posizioni gender-criticalriguardo alla pretesa di scegliere arbitrariamente il genere.

Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, l’università di Milano-Bicocca – non paga della figuraccia rimediata qualche mese prima dalla Statale, che aveva sospeso dall’insegnamento il prof. Bassani, reo di aver condiviso su internet una vignetta sarcastica su Kamala Harris – si è prodotta in una nuova performance, cancellando un corso dello scrittore Paolo Nori su Dostoevskij, colpevole di essere russo.

Sorte analoga è toccata al maestro Valery Gergiev, che avrebbe dovuto dirigere un concerto alla Scala di Milano, ma è stato rimosso per non aver preso le distanze da Putin e dall’invasione dell’Ucraina.

Quanto al prof. Orsini, esperto di geopolitica ma critico con la Nato, si è visto coancellare il contratto che lo legava alla Rai e alla trasmissione Carta Bianca, condotta da Bianca Berlinguer. A sua volta finita nei guari per il troppo spazio dato ai critici della linea ufficiale del governo.

Ma questi episodi sono solo la punta dell’iceberg. Nei primi mesi di guerra, sui grandi quotidiani come nei principali programmi televisivi, è calato un clima di censura e autocensura forse ancora più plumbeo di quello avvertito nei mesi cruciali della campagna vaccinale.

Così come, allora, ci si sentiva obbligati, prima di parlare, a premettere che si era vaccinati, si era già fatta la seconda o la terza dose, si aveva il green pass, si era favorevoli alla campagna vaccinale, così oggi – quando si parla in tv – ci si sente obbligati a premettere che Putin è l’aggressore, che l’Ucraina è l’aggredito, che non esistono giustificazioni per quel che ha fatto Putin. Se non lo si fa, o si dice qualcosa che potrebbe essere usato per attenuare le responsabilità di Putin, scatta immediatamente la reazione del conduttore, o dell’ospite più solerte, che interrompe, precisa, puntualizza, invita a chiarire.

La “premessite” è un brutto segno per la salute della libertà di espressione, perché rivela che non siamo veramente liberi di dire quello che pensiamo. Ci vantiamo di vivere in una democrazia, ci compiaciamo della nostra libertà, ma siamo ossessionati dalle conseguenze delle nostre parole. Come se l’importante non fosse se quel che diciamo è vero oppure no, ma solo come potrebbe essere interpretato, usato, strumentalizzato.

Forse il segno più chiaro della nostra illibertà è il destino dei maestri, ossia delle persone che più stimiamo e ammiriamo per il loro sapere. In una situazione normale, se un maestro dice qualcosa che non condividiamo, ci interroghiamo su noi stessi. In una situazione patologica, se un maestro dice qualcosa che infrange l’ortodossia, squalifichiamo il maestro. E’ capitato a Sergio Romano, a Barbara Spinelli, a Lucio Caracciolo di essere accusati di putinismo, solo per aver tentato di spiegare quel che è successo.

E’ il segno che la situazione non è normale, e la nostra libertà è compromessa.

(articolo pubblicato su La Ragione il 2 giugno 2022)




Perché anche l’arte e lo sport ci dividono

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, la reazione del mondo occidentale non si è limitata a colpire oligarchi e interessi economici russi ma ha coinvolto anche ambiti che siamo abituati a pensare come spazi di libertà e di cooperazione. L’arte e la cultura, ad esempio, con la cancellazione più o meno totale dei russi dalle fiere del libro, dai festival del cinema, dai teatri. Lo sport, con l’esclusione dei russi da calcio, basket, ciclismo, sci, tiro a volo, automobilismo, fino alla (per me) incredibile esclusione degli atleti russi e bielorussi dalle paralimpiadi. Solo un ambito, quello della cooperazione spaziale, si è finora salvato dalla furia anti-russa: chi le ha viste, non può non essersi commosso di fronte alle immagini del cosmonauta russo Denis Matveev che abbraccia l’americana Kayla Barrow sulla Stazione Spaziale Internazionale, o alle immagini dei tre cosmonauti, due russi e uno americano, che scendono insieme dalla navicella Soyuz atterrata in Kazakistan.

Lì per lì la mia anima liberale ha provato un senso di angoscia, e di incredulità, di fronte alla prontezza e compattezza della reazione punitiva scatenata dai governi e dalle istituzioni internazionali contro tutto ciò che è russo. Sono abituato a pensare che le colpe degli avi non possono ricadere sui discendenti, e che le colpe dei governi non possono ricadere sui singoli cittadini. La responsabilità è individuale, e discriminare qualcuno solo perché appartiene a una certa etnia o confessione religiosa ai miei occhi sa di razzismo.

Poi però ho cominciato ad ascoltare l’altra campana, quella dei falchi che vorrebbero cancellare atleti, artisti, scrittori, musicisti russi da ogni consesso civile. Non posso dire che mi abbiano convinto, ma devo ammettere che il loro ragionamento ha una sua logica: se abbiamo deciso di sanzionare le imprese e le banche russe, non si vede perché non si debbano sanzionare anche le organizzazioni economico-politiche, spesso enormi apparati burocratici, che gestiscono lo sport e la cultura della Russia, come peraltro di ogni altro stato. Un ragionamento rafforzato dal fatto che arte, cultura e sport sono da sempre armi di propaganda politica, e di conseguenza esclusioni e boicottaggi – specie nello sport – sono entrati a far parte della fisiologia del sistema, almeno dalla prima guerra mondiale in poi.

Detto ancora più crudamente: non è in quanto singoli artisti, scrittori o atleti che si viene esclusi, discriminati o sanzionati, ma in quanto ingranaggi delle rispettive industrie.

Potrei obiettare che questo modo di vedere le cose omette di spiegarci perché, avendo deciso di sanzionare la Russia, preferiamo colpire i suoi innocenti atleti paraolimpici (misura a impatto zero) piuttosto che rinunciare al petrolio e al gas con cui la Russia stessa sostiene i costi dell’aggressione all’Ucraina (misura a impatto massimo).

Invece preferisco prendere sul serio la tesi secondo cui scienza, arte, cultura e sport non sono innocenti, in quanto governati dall’economia e dalla politica. Perché è vero, ma è solo una faccia del problema. L’altra faccia è il modo in cui lo sono. Un conto è il fatto che, per funzionare, questi ambiti abbiano bisogno di enormi risorse finanziarie e organizzative, dunque dell’economia e della politica. Un altro è che la politica entri pesantemente nella logica con cui si svolge la competizione nei vari ambiti, distorcendo e inquinando i giochi.

Penso, ad esempio, ai criteri politici che, con tutta evidenza, spesso influenzano l’assegnazione dei premi più prestigiosi. O all’invasione del politicamente corretto nella vita delle università (specie americane), con conseguenze non solo sul reclutamento, ma anche sulla pianificazione dei corsi e la valutazione dei risultati della ricerca. O ai palchi dei festival e dei premi usati per lanciare appelli e scomuniche. Per non parlare dell’abitudine, invalsa fra le celebrities, di assegnare a sé stesse un indebito vantaggio intestandosi buone cause.

In breve: si ripete che la politica dovrebbe star fuori dallo sport, dalla scienza, dalla cultura, ma la realtà è che la politica inquina tutto, dall’alto ma anche dal basso.

Perché è un male?

Una risposta possibile è che, se non fossero così politicizzati, questi ambiti potrebbero aiutarci oggi a stabilire dei ponti, anziché costringerci ad alzare nuovi muri. Abbiamo tollerato per decenni la politicizzazione di spazi “sacri”, non possiamo ora stupirci se non siamo più in grado di farli funzionare come canali di fraternità e di conciliazione.

Ma la risposta più profonda, forse, ci viene dalla sociologia, e vale anche al di là della guerra. La grande lezione di Niklas Luhmann, uno dei maggiori sociologi del Novecento, è che una condizione fondamentale di funzionamento dei sistemi sociali è che le varie sfere siano reciprocamente autonome, e non interferiscano fra loro. Per Luhmann, le  sfere fondamentali sono denaro, potere, amore, verità. Non si può acquistare l’amore di una donna con il potere, così come non si può acquistare il potere con il denaro, né si può usare il potere per alterare una verità scientifica, o giudicare un’opera d’arte.

Ecco, credo che questo sia il male: né la cultura, né lo sport, né l’arte sono stati capaci di lasciare la politica fuori dai loro mondi, tradendo così i propri stessi statuti e principi. Solo la scienza, tutto sommato, finora ci è riuscita. E forse anche per questo abbiamo potuto vedere cosmonauti russi e americani abbracciarsi, ma non vedremo atleti, artisti, scrittori fare lo stesso.




Covid, la lezione di Shanghai

Presi tra la guerra in Ucraina e i timori per una nuova recessione, poca attenzione è stata data fin qui a quel che, da 3 settimane, sta succedendo in Cina. Alla fine del mese scorso la città di Shanghai, la più grande metropoli del paese (26 milioni di abitanti), è entrata in un durissimo lockdown, deciso dalla autorità per fermare l’esplosione dei contagi. Le due fasi previste, con blocco quasi totale delle attività prima nella parte orientale, poi in quella occidentale della città, non hanno funzionato. Inutile dare i dati dei contagiati e dei morti ufficiali (ieri sono stati annunciati i primi 3 decessi), perché fin dall’inizio della pandemia la Cina ha sempre comunicato dati lacunosi ed enormemente sottostimati. Quel che è certo, invece, è che la popolazione non ha gradito, e da un paio di settimane le proteste si moltiplicano: mancano il cibo e le medicine, i trasporti sono fermi, le attività economiche operano a bassissimo regime, le famiglie vengono separate appena si accerta un caso, i test sono obbligatori e chi li rifiuta viene sanzionato duramente. Per mantenere l’ordine pubblico è stato mobilitato l’esercito.

A tre settimane dall’inizio della crisi, una cosa sembra certa: la strategia cinese “Zero Covid”, basata su durissime misure di confinamento non appena si presenta un caso, non funziona più. Né a Shanghai, né nelle altre città in lockdown (circa 45, per quasi 400 milioni di abitanti, secondo la banca Nomura).

Perché quel che sembrava aver funzionato abbastanza bene, ora non funziona più?

Le spiegazioni possibili sono parecchie: la numerosità della popolazione, la scarsa qualità del vaccino cinese, la pressoché totale assenza di immunità naturale (effetto perverso di due anni di successi nel contenimento del contagio).

Ma la spiegazione principale, a mio parere, è un’altra. La ragione per cui la Cina è nei guai è che la strategia Zero Covid, che mira alla soppressione del virus attraverso un mix di misure (lockdown, tracciamento elettronico, test di massa), può funzionare solo finché la velocità di trasmissione del virus, misurata dal parametro R0, si mantiene al di sotto di una data soglia. Finché ciò accade, si può sperare di individuare tempestivamente i focolai, isolare i casi positivi, bloccare la diffusione del virus nel territorio. E infatti, fino alla fine dell’anno scorso, non mancavano le esperienze di successo, prime fra tutte quella della Nuova Zelanda (guidata dalla premier Jacinda Ardern), ma anche quelle degli altri paesi dell’estremo oriente e dell’emisfero meridionale: Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Australia, più il quasi-stato Hong Kong.

Il problema è che, da qualche mese, ad essere in difficoltà non è solo la Cina ma lo sono anche i paesi che, puntando sullo sradicamento del virus, erano andati piuttosto vicini all’obiettivo. Il fatto che, dalla fine del 2021, anche questi paesi siano alle prese con ondate di contagi e di morti senza precedenti, il fatto che anche la “prima della classe” Jacinda Ardern sia stata costretta a reintrodurre restrizioni nei viaggi da e per l’Australia, suggerisce che la vera spiegazione di quel che accade a Shanghai e in Cina è semplicemente che, con l’arrivo della variante omicron, la velocità di trasmissione del virus è salita al punto da rendere inefficace ogni strategia Zero Covid.

Basta un’occhiata ai diagrammi di evoluzione della pandemia nei 7 paesi leader nella strategia Zero Covid per rendersene conto: l’impennata dei contagi si sviluppa nei primi mesi del 2022, quando la variante omicron, che ha un R0 prossimo a 10,  soppianta la variante delta, il cui R0 era “appena” 5.

Tutto questo significa che, fino alla variante delta, pur più trasmissibile di alfa, a sua volta più trasmissibile della variante di Wuhan, la strategia Zero Covid era un’opzione sul tavolo. Pochi paesi, fra cui la Cina e i “magnifici 7” guidati dalla Nuova Zelanda, l’avevano adottata, ma quelli che l’avevano fatto avevano raccolto i frutti dei loro sacrifici.

Oggi non più. Oggi i paesi che avevano puntato a sradicare il virus stanno interrogandosi su come gestire una pandemia che non si può stroncare nemmeno con il più duro dei lockdown. Pochi giorni fa la premier neozelandese Jacinda Ardern ha annunziato la riapertura dei collegamenti con l’Australia, interrotti l’estate scorsa per contrastare l’arrivo della variante delta. Solo la Cina, con il presidente Xi Jinping, ribadisce l’obiettivo Zero Covid, a dispetto del disastro di Shanghai.

Per imparare la lezione, a quanto pare, gli occorrerà ancora un po’ di tempo.




Covid, la grande inversione

La preoccupazione per la guerra ha polverizzato le preoccupazioni per il Covid, in una inedita versione del principio “male scaccia male”. Non è irragionevole, perché al momento il rischio di una terza guerra mondiale appare più grave di quello di una nuova accelerazione della pandemia. Ed è perfettamente logico, perché le immagini del dramma ucraino ci investono a flusso continuo, mentre su quelle di chi muore di Covid – in Ucraina come in Italia – è calato sostanzialmente il sipario.

Eppure la partita del Covid è tutt’altro che chiusa. Non solo perché, oggi in Italia, il numero di morti per abitante quotidiano (150) è ancora elevatissimo: maggiore di quello dei morti civili durante la seconda guerra mondiale (meno di 100 al giorno), analogo a quello dei morti civili in Ucraina dal primo giorno di guerra (almeno 38 al giorno secondo l’Onu, circa 165 al giorno secondo le autorità ucraine).

Ma anche perché nulla fa presagire che stiamo per uscire dalla pandemia. Le nuove varianti omicron2 e Xe sono le più trasmissibili di sempre; nulla per ora indica che il loro impatto sulla salute sia minore di quello della variante omicron1 (la più “leggera” fin qui sperimentata); la copertura vaccinale effettiva della popolazione sta crollando (perché la maggior parte di noi ha fatto la terza dose parecchi mesi fa); la popolazione, sistematicamente rassicurata da messaggi di ripartenza, riapertura, fine dello stato di emergenza, non gravità della malattia, è sempre meno attenta ad evitare il contagio.

In queste condizioni viene da chiedersi quale sia la strategia delle autorità politiche e sanitarie. A giudicare dai comportamenti effettivi, si direbbe che tra dicembre e febbraio sia maturata una svolta fondamentale, che capovolge l’approccio tenuto precedentemente: anziché inseguire il virus, aumentando le restrizioni man mano che esso avanza, si è deciso di rispondere alla sua avanzata prima spingendo sulle vaccinazioni (terza dose), poi lasciando deliberatamente correre il virus, nella speranza di farne un alleato. L’idea pare essere che, più persone si infettano, più aumenta la platea di coloro che in qualche modo (vaccino o malattia) sono protette rispetto a future infezioni. Un approccio quantomeno spiazzante, per una popolazione alla quale, per mesi e mesi, quando l’obiettivo era convincerci a vaccinarci tutti, erano stati prospettati i gravi danni del Covid e del long-Covid, non solo su fragili e anziani, ma su tutti, bambini compresi. E alla quale oggi, più o meno apertamente, si è costretti a dire che reinfettarsi è facile, e le reinfezioni sono (probabilmente) la matrice della variante Xe.

Ma dove ci porta questa grande inversione delle politiche sanitarie?

Temo che la risposta possa essere: a cavarcela questa estate, grazie all’aiuto del caldo e della vita all’aperto, ma a una grave emergenza questo autunno, quando riapriranno le scuole e si tornerà a vivere buona parte della giornata al chiuso.

Spero naturalmente di sbagliarmi, ma a rendermi pessimista sono almeno due circostanze. La prima è l’assordante silenzio del governo, delle autorità sanitarie, e in parte anche dell’Oms, sulla messa in sicurezza degli ambienti chiusi, a partire dalle scuole. Il guaio è che, anche partissimo ora, siamo già in ritardo. L’esperienza suggerisce che occorrono almeno 6-7 mesi per percorrere interamente l’iter che dai bandi regionali, passando attraverso comuni e province, arriva all’installazione effettiva degli impianti di Vmc (Ventilazione Meccanica Controllata) nelle classi dei singoli plessi scolastici. E finora il governo non ha né stanziato risorse adeguate, né emesso le linee guida promesse per il 20 marzo.

La seconda circostanza che mi preoccupa siamo noi: la fiducia nell’utilità dei vaccini è stata fortemente scossa dai fatti, e pure da alcune dichiarazioni ufficiali. Nel corso di questo sventurato 2021 la gente ha dovuto apprendere a poco a poco, amaro boccone dopo amaro boccone, che la copertura vaccinale dura poco, che anche i vaccinati possono contagiare, che la protezione rispetto all’infezione è modesta, che anche la seconda e la terza dose durano poco, che l’immunità di gregge è una chimera, che non è affatto vero che i vaccini a mRna sono facilmente e rapidamente riprogrammabili “come il vaccino dell’influenza”, che sollecitare troppe volte il sistema immunitario può essere controproducente.

In queste condizioni non sarei stupito che l’adesione alla quarta dose per anziani e fragili non fosse massiccia, e soprattutto non sarei stupito che quest’autunno – se e quando arrivasse il promesso vaccino polivalente contro più di una variante – molti cittadini non fossero psicologicamente pronti. L’idea di rivaccinarsi più volte l’anno, contro una malattia che tanti presunti esperti continuano a descrivere come “poco più di un raffreddore”, potrebbe incontrare una resistenza notevole.

Forse è bene che cominciamo a porci il problema.




Ucraina, libere idee in libero dibattito

Su quale sia, di fronte all’invasione dell’Ucraina, la linea di condotta più adeguata, non ho convinzioni forti. E questo non solo perché sono del tutto incompetente in materia di geopolitica, ma perché constato che fra i competenti le opinioni divergono radicalmente. E le divergenze non riguardano solo la scelta dei mezzi, ma anche quella dei fini: fermare Putin o punire Putin? trovare un compromesso o umiliare l’avversario? minimizzare il numero di morti di oggi o quello di domani?

C’è chi ritiene che limitarsi agli aiuti umanitari sia la condotta più saggia, anche questo dovesse comportare la resa dell’Ucraina. C’è chi ritiene che solo continuando ad armare la resistenza ucraina sarà possibile fermare Putin. C’è chi ritiene che istituire una no fly zone sull’Ucraina ci porterebbe dritti alla terza guerra mondiale (se non all’apocalisse nucleare), e c’è chi ritiene – tutto al contrario – che ancora più imprudente sarebbe non istituirla: la rinuncia Nato alla no fly zone sarebbe un segnale di debolezza, che potrebbe convincere Putin che noi occidentali non oseremo mai entrare in guerra con lui, anche dovesse invadere un altro paese europeo.

Quello su cui ho invece un’opinione è il destino delle nostre menti in tempo di guerra. Quel che mi colpisce, come studioso di scienze sociali, è il clima di illibertà che governa i nostri scambi di idee. Un clima in cui nessuno si sente completamente libero di dire come vede le cose, perché sa che, qualsiasi cosa dica, sarà aggredito da chi vede le cose in modo opposto, o anche semplicemente diverso.

L’indizio più rivelatore di questo clima è la “premessite”: prima di dire qualcosa di sostanziale, si passa un tempo notevole a fare premesse autodifensive per tutelarsi dal rischio di essere crocefissi per quel che si sta per dire. Mi impressiona molto ascoltare in tv autorevoli giornalisti e studiosi avvilupparsi in lunghissime serie di auto-certificazioni di anti-putinismo per sentirsi in diritto di dire quel che pensano, ad esempio che li ha colpiti l’ammissione di Biden di aver passato l’ultimo anno a rifornire l’Ucraina di armamenti.

E’ un meccanismo che avevamo già sperimentato nella pandemia, quando – se si aveva da dire qualcosa di non perfettamente ortodosso sui vaccini – si esordiva dicendosi plurivaccinati, sottoposti alla terza dose, equipaggiati con green pass, eccetera.

Si potrebbe pensare che è normale che tutto ciò accada quando è in gioco una questione importante, e inoltre sussiste un’ortodossia, ossia un pensiero prevalente e ritenuto più giusto.

In realtà non è così. O meglio non è solo così. Il meccanismo che non ci lascia discutere liberamente, senza accusarci reciprocamente di stare dalla parte sbagliata, è più universale e profondo. Fu scoperto e studiato nei primi anni ’50 dallo psicologo sociale americano Leon Festinger, viene chiamato “riduzione della dissonanza cognitiva”, e costituisce probabilmente la più importante scoperta delle scienze sociali del Novecento. Quel che Festinger scoperse è che non solo la mente umana non sopporta i conflitti interni, ma il suo bisogno di coerenza interna è così forte da generare meccanismi di correzione radicali, come l’autoinganno, l’adozione di credenze irrazionali, l’incapacità di prendere atto dei dati di realtà, anche di fronte a clamorose smentite delle proprie convinzioni.

La mente umana, si potrebbe dire riprendendo una lucida considerazione di Walter Siti, funziona in modo opposto a come funziona la grande letteratura. La nostra mente ha bisogno di coerenza, la grande letteratura si nutre delle contraddizioni, dei drammi e delle ambiguità della vita reale. Soprattutto, la nostra mente è incapace di passare da un piano all’altro del discorso senza esigere che fra i vari piani vi sia coerenza. Se l’empatia ti porta da una parte, non ce la fai ad accettare che qualche notizia, o ragionamento, o fatto storico ti possa portare dall’altra. E se il ragionamento ti porta dalla parte opposta, la tua empatia ne risente, o gli altri ti percepiscono come privo di empatia.

Vale oggi per la guerra in Ucraina, ma valeva anche ieri per le “guerre umanitarie”, o per quelle contro il terrorismo. Noi, per come funziona la nostra mente, non siamo capaci di sopportare quel che invece nutre la grande letteratura, ossia l’imperfezione del bene e la complessità del male. Abbiamo bisogno di pensare che il mondo delle vittime sia senza ombre, e quello dei carnefici sia del tutto privo di umanità. Ogni spiegazione del male ci appare un’offesa al bene, e il bisogno di sentirci dalla parte del bene ci impedisce di vedere i nostri limiti.

E’ un vero peccato, anche se – dopo Festinger – sappiamo che è connaturato al modo di funzionare del nostro cervello.  E’ un peccato perché, se può essere vero, come scrisse Primo Levi, che “comprendere è quasi giustificare”, è altrettanto vero che spiegare il male (che è cosa ben diversa dal comprenderlo) è essenziale per evitare il suo ripetersi, ed è ancora più essenziale adesso, quando una maggiore lucidità potrebbe guidarci a prendere le decisioni giuste.

La pietà e la solidarietà per le vittime non dovrebbero mai essere scalfite dalla ricostruzione dei torti e delle ragioni delle parti in gioco, che – nella storia – sono sempre entità collettive, ovvero partiti, nazioni, imperi, potenze che agiscono sopra le teste della gente comune.