Follemente corretto (14) – Guai ai normali

C’è stato un tempo in cui la gente non era malata di suscettibilità. In quel tempo le parole non erano radioattive. Dicevi invalido, magari per cedergli il posto sul tram, e nessuno aveva niente da ridire. Dicevi infermo, menomato, storpio, e nessuno pensava che tu volessi offendere. Ora non più. Oggi innumerevoli legislatori del linguaggio, spesso in disaccordo fra loro, ci spiegano quali termini usare per parlare con rispetto di chi ha qualche inconveniente fisico o mentale più o meno grave e più o meno permanente. La lista delle parole proibite si allunga ogni giorno, rendendo via via obsoleti gli eufemismi che in un tempo precedente erano apparsi accettabili. Sotto la tagliola cadono parole come handicappato, portatore di handicap, disabile, affetto da disabilità, diversamente abile. Per alcuni, persino invalido non va bene, e l’unico termine accettabile è “persona con disabilità”.

Fin qui tutto chiaro. Lo sappiamo, o meglio lo sanno quelli che lavorano con le parole, o hanno tempo per queste cose. Meno nota è l’altra faccia della medaglia: anche la parola ‘normale’ è fuori legge. Non puoi dire che una persona è normale, perché – così facendo – sottintendi che esistano delle persone anormali, che potrebbero offendersi. E l’interdetto si estende alle cose: anche “shampoo per capelli normali” sarebbe potenzialmente offensivo (per chi compra uno shampoo speciale), quindi da evitare.

Il discredito per chi è normale, in realtà, viene da lontano. Risale agli anni ’60 e ’70, quando fra i contestatori e fra gli intellettuali più impegnati si diffuse l’idea, alquanto romantica, che la devianza – dai matti agli hippy, dai detenuti ai capelloni – altro non fosse che ribellione alle regole del sistema, ben rappresentato dalle istituzioni totali e dalle persone “normali”, pronte a stigmatizzare come devianza ogni allontanamento dalle regole imposte dalla classe dominante.

Oggi lo stigma funziona a rovescio. A essere stigmatizzato è l’uso della parola normale e dei suoi sinonimi per significare che qualcuno è privo di disabilità.

  • normali non si può usare “perché implica che gli altri sono anormali”
  • normodotati non si può usare “perché implica che gli altri sono ipodotati” (chissà mai perché ipodotati, e non iperdotati)
  • abili non si può usare “perché implica che gli altri sono inabili”.

E allora, che facciamo?

Un consiglio è di scrivere la parola normodotati fra virgolette, o palare di cosiddetti “normodotati”, allo scopo di “evidenziare che la parola è semanticamente scorretta”.

Ma questa soluzione non è completamente soddisfacente. Meglio usare l’espressione temporaneamente “normodotati”, “per ricordare che una disabilità non è mai congenita ma è conseguente a una malformazione, una malattia o un infortunio”.

Abbiamo capito bene?

Se sei normale, nel senso che sei privo di disabilità, devi definirti temporaneamente“normodotato” perché una disgrazia potrebbe capitare anche a te?

Pare di sì. Ma niente paura, se siete superstiziosi potete fare gli scongiuri, se invece siete solo istruiti potete dire “sono normale” in  inglese: I am TAB (Temporarily Able-Bodied), sono temporaneamente equipaggiato con un corpo abile.

Che fa fine e non offende nessuno.

 




Follemente corretto (13) – Parentesi e intimidazioni

La parola ‘donna’ sta diventando incandescente. Se la usi, rischi di bruciarti. Specie se sei una donna. Ne sa qualcosa Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter, che nel 2020 si beccò ogni sorta di improperio (a partire da TERF: Trans Exclusionary Radical Feminist) per aver ironizzato sull’espressione “persone che hanno le mestruazioni”, usata per non pronunciare la parola ‘donna’, che agli occhi degli attivisti trans sarebbe escludente.

Da allora, l’uso della parola donna è diventato sempre più controverso: una parte del mondo femminista lo rivendica, ed esige che la parola sia riservata a chi è biologicamente di sesso femminile (e tale rimane), mentre una parte del mondo LGBT+ lo contesta, e pretende che si usino espressioni – come persona con le mestruazioni – che possono riferirsi anche a transessuali FtM (da femmina a maschio), che non si riconoscono come donne.

Ma non basta. Ultimamente, il termine donna è diventato controverso anche perché una parte del mondo LGBT+ contesta il cosiddetto binarismo, ossia la distinzione stessa fra maschi e femmine. Secondo questo modo di vedere, può risultare impossibile riconoscersi univocamente in uno dei due generi, e comunque gli “stati di genere” possibili, ossia i modi di autopercepirsi, sarebbero infiniti e cangianti nel tempo. Di qui la continua ricerca, nella pubblicità, sui media, nelle grandi corporation, di formulazioni inclusive, capaci di venire incontro alle suscettibilità di chiunque (salvo irritare chi non avesse speciali suscettibilità).

Poca attenzione, finora, è stata rivolta alle conseguenze che questa ossessiva vigilanza sugli usi della parola donna produce sulla qualità della scrittura delle donne stesse. Terrorizzate dalle guardie rosse della lingua corretta, timorose di incorrere in anatemi e scomuniche come quelle che hanno colpito la più celebre Rowling, molte giornaliste, studiose e scrittrici stanno perdendo la capacità di esporre limpidamente il loro pensiero.

Ed ecco che, in un articolo che parla d’altro, ci si sente in dovere di spiegare perché non si usa la schwa, che pure sarebbe una cosa bellissima e giustissima. Oppure ci si scusa di usare la parola donne, e si perde tempo con penose parentesi giustificatorie, piene di banalità.

Esempi?

Se ne potrebbero fare diversi, ma ne basta uno a illustrare il meccanismo.

Ecco tre parentesi, tutte inserite nel medesimo articolo di giornale, firmato da una nota studiosa di filosofia:

Vorrei tanto che le donne della mia generazione (anche se dire “le donne” non mi piace, è un’espressione che non ha senso, non esiste alcuna entità omogenea capace di riassumere le mille sfumature dell’esistenza femminile) bla-bla…

E se le donne (sebbene ritenga opportuno finirla con quest’opposizione binaria fra gli uomini e le donne) bla-bla…

Noi donne (anche se la genericità del temine non mi piace) bla bla…

Che cosa aggiungono le parentesi? La spaventosa banalità secondo cui qualsiasi termine generale – non solo le donne, ma anche gli uomini, i giovani, gli operai – non può che riferirsi a uno spettro di condizioni molto diverse? Qualcuno non lo sapeva già? E poi, perché ripetere tre volte che sì, uso l’espressione ‘le donne’, ma in realtà non la vorrei usare proprio?

La ragione è semplice. Si chiama “mettere le mani avanti”. Proteggersi dal rischio che una esponente del mondo LGBT+, ancora più follemente corretta dell’autrice dell’articolo, possa chiamarla sul banco degli imputati, chiedendole conto dell’uso troppo disinvolto della parola donne. Dietro le inutili parentesi ci sono due cose soltanto: il potere intimidatorio dei guardiani della lingua, la mancanza di libertà di chi scrive.

Ironia della sorte: il titolo dell’articolo è “meglio donne libere che donne di potere”.




Follemente corretto (12) – Scienza e confusamente corretto

Fino a qualche anno fa i molestatori del linguaggio naturale avevano le idee abbastanza chiare: certe parole non si possono usare, sono offensive, vanno sostituite con parole più neutre, meno contundenti. Al posto di cieco, sordo, negro, bidello, donna di servizio, bisogna dire non vedente, non udente, nero, collaboratore scolastico, colf.

Oggi le cose stanno cambiando. Il dubbio comincia a serpeggiare, e i riformatori del linguaggio si dividono in diverse scuole di pensiero. Alcuni mantengono i vecchi consigli, e si limitano a discettare su quale sia l’eufemismo migliore. Handicappato, portatore di handicap, disabile, diversamente abile? Non vedente o ipovedente?

Altri invece rifiutano gli eufemismi, e propongono una sorta di ritorno alle origini: anziché dire non vedente, espressione che sottolinea una mancanza, diciamo cieco, perché essere ciechi è una caratteristica della persona, non una privazione di qualcosa. Anziché dire non udente, torniamo a dire sordo.

Altri, salomonicamente, dicono che non c’è una regola, e che bisogna chiedere ai diretti interessati come preferiscono essere chiamati (come se questo non fosse già uno stigma).

Ma il massimo della confusione si è raggiunto con la parola grasso. Per anni i paladini del linguaggio corretto si sono impegnati nella caccia agli eufemismi, soprattutto per designare le donne grasse. Come parlare di una donna grassa? C’è un modo simpatico, cortese, gentile di dire che una persona è sovrappeso? Cicciottella è offensivo? E formosa, tonda, morbida sono accettabili?

Poi è successo qualcosa. Anziché invitare a non usare la parola grasso (in inglese: fat) si è cominciato a suggerire di usarla, quella benedetta parola, ma a farlo in una accezione puramente descrittiva, come accade quando di una persona diciamo che è alta, bionda o ha lentiggini. Qualcuno ha dottamente parlato di di “risemantizzazione”: dobbiamo correggere la connotazione (negativa) della parola ‘grasso’, e imparare a usarla in modo neutro, come la parola ‘magro’. Un po’ come era successo con la parola ‘cieco’, prima squalificata e poi riabilitata.

Tutto finito, dunque?

Neanche per sogno. Specie in America, si è andati ben oltre. Sono nati (o meglio hanno ricevuto nuovo impulso) movimenti che si battono per l’accettazione della grassezza (fat acceptance movement), o ne esaltano la bellezza (fat is beautyful movement), o la promuovono a caratteristica di cui essere fieri (fat pride movement).

Ma a differenza di quanto accaduto con parole come cieco e sordo, la campagna per la rivalutazione della parola grasso è ricorsa all’aiuto della scienza medica. Secondo alcune ricerche, esistono forti indizi che l’essere  al di sopra del presunto “peso giusto” (calcolato in funzione dell’altezza, secondo il BMI: Body Mass Index) non solo non sia dannoso alla salute, ma possa avere un valore protettivo verso alcune malattie, comprese quelle di natura cardiaca. Insomma: meglio essere grassi che normopeso. Questo risultato, denominato “paradosso dell’obeso”, da alcuni anni sta diventando il cavallo di battaglia dei movimenti per la difesa dei grassi, e – nella misura in cui gli esperti sono divisi sulla sua solidità – sta mettendo in seria difficoltà medici, nutrizionisti, nonché l’enorme business delle cure dimagranti.

Così la lotta per il governo della lingua si arricchisce di un capitolo nuovo: per alcuni si deve sostituire la parola grasso con un eufemismo, per altri dobbiamo imparare a dire grasso con rispetto, per altri la grassezza va lodata e incoraggiata, non solo nelle parole, ma anche nei fatti. Grazie ai dubbi della scienza, il follemente corretto sta trapassando in confusamente corretto.

Come direbbe il Presidente Mao, “grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.




Follemente corretto (11) – Grassofobia

Sono in molti, non solo a destra, a ritenere che il Ddl Zan, naufragato al Senato nel 2021 per le rigidità del Pd di Letta, fosse non solo pericoloso per la libertà di opinione, ma anche mal impostato filosoficamente, logicamente.

Sul piano filosofico, è stato notato che la legge non aggiunge alcun nuovo diritto per le minoranze, e che appare inquietante – oltreché vagamente medioevale – usare la legge penale per reprimere o indirizzare i sentimenti, quali che essi siano. In questo senso si sono pronunciati, ad esempio, due uomini di sinistra come Piero Sansonetti (direttore del “Riformista”) e Tommaso Cerno, quando era ancora parlamentare del Pd.

Sul piano logico e (terminologico), è stato osservato che, se pure si vuole instaurare la pratica aberrante di usare il codice penale contro i sentimenti, può avere senso perseguire un sentimento aggressivo come l’odio, ma non certo la paura. Fobia in greco, e pure in italiano, significa paura, come nella parola agorafobia (paura della piazza, cioè della folla). Perseguire xenofobia, omofobia, transfobia, equivale a sostenere che la gente non ha diritto di manifestare sentimenti di paura verso determinate categorie di persone.

Meno attenzione ha ricevuto un altro limite del Ddl Zan, un limite che potremmo chiamare di natura concettuale. Come noto, l’operazione principale del Ddl Zan è di estendere il raggio di azione della legge Mancino (legge 205, 25 giugno 1993). Con la legge Mancino, le idee e le azioni discriminatorie punite con il carcere erano essenzialmente quelle basate su “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali”. Con la legge Zan si proponeva di allungare l’elenco a cinque nuovi tipi di motivi, e precisamente quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Stranamente, pochi hanno notato che questo allungamento del brodo delle fobie apriva una falla logico-concettuale irreparabile nella lotta all’odio e alle discriminazioni: la lista delle categorie e delle condizioni per le quali si può nutrire ostilità, esercitare discriminazioni, mettere in atto comportamenti bullistici è potenzialmente infinita. Oggi ci preoccupiamo di proteggere gay, trans o disabili, ma basta dare un’occhiata a quel che succede in una scuola per rendersi conto che la lista delle aspiranti vittime o minoranze da proteggere è aperta, e necessariamente destinata ad allungarsi. Vittime di atti più o meno espliciti di bullismo, sopraffazione, stigmatizzazione, emarginazione non sono solo le “minoranze sessuali”, religiose o etniche, ma non di rado possono divenirlo i secchioni, i timidi, i primi della classe, le schiappe, le brutte, i grassi.

Già, i grassi. L’ultima novità è la campagna contro una nuova presunta fobia: quella verso chi è obeso o in sovrappeso. Una campagna che, in tutti gli ambiti – dal mondo delle casalinghe, alle scuole, allo star system – stigmatizza gli atteggiamenti “grassofobici”. Dove per grassofobia si intende non solo il dileggio di chi è grasso, ma anche qualsiasi consiglio amichevole di adozione di uno stile alimentare volto a tenere sotto controllo il peso.

Contro il peccato di grassofobia, vengono brandite un nugolo di parole inglesi, sia positive, come body positivity, o fat acceptance (accettazione del grasso) sia negative, come weight bias e diet culture (la credenza che esista un peso ottimale, e che lo si debba inseguire con la dieta). Il tutto per proclamare il principio, molto controverso scientificamente, secondo cui si può essere in salute a qualsiasi peso (Haes, o health at every size), o meglio a qualsiasi livello del Bmi (body mass index), l’indice che stabilisce il peso ottimale per ogni statura.

A quanto pare, quando il Pd ripresenterà il Ddl Zan, dovrà inserire i grassi insieme ai disabili, ai gay e ai trans. In attesa che la prossima minoranza stigmatizzata denunci una nuova fobia, ed esiga l’allungamento della lista.




L’industria della bontà

Ma che cosa combinano le organizzazioni benefiche, siano esse Ong, cooperative, Onlus varie?

Viene da chiederselo, dopo il doppio scandalo che ha coinvolto, quasi in simultanea, le cooperative della famiglia di Soumahoro e le Ong del Qatargate. Ma la domanda è sbagliata. Le industrie della bontà fanno il loro mestiere, che è quello di riprodurre e possibilmente espandere sé stesse, come fanno tutte le burocrazie. E a questo scopo si dotano di sponsor e testimonial, che svolgono il ruolo che – nelle industrie vere – è svolto dalla pubblicità.

Le domande giuste sono altre, e riguardano noi stessi.

Prima domanda: su che basi, per tanti anni, la sinistra ha dipinto sé stessa come animata dai più alti ideali, e la destra come guidata dalle più basse passioni? Se non vi fosse stato questo racconto, insistito e quasi ossessivo, la caduta di oggi sarebbe meno rovinosa. Perché quel che fa male, al mondo progressista, non sono i fatti in sé – le malversazioni, la corruzione, gli arricchimenti indebiti – ma il contrasto fra le vergini idee e i non sempre casti appetiti. Come del resto succede con la Chiesa, dove i preti pedofili fanno orrore e scandalo proprio perché sono preti, dediti a insegnare a noi peccatori la morale e la virtù.

Ma c’è anche una seconda domanda: perché ci ostiniamo a giudicare le industrie della bontà per le loro intenzioni e non per i loro comportamenti? Perché, per decidere di donare, ci lasciamo guidare dai loro messaggi pubblicitari, commoventi e vagamente ricattatori (se tu non doni, questo bimbo morirà)? Perché non pensiamo mai di analizzarne i bilanci, le fonti di finanziamento, gli stipendi dei dirigenti e consulenti, la quota che va a spese di funzionamento e la quota che va effettivamente in aiuti?

Lo so, perché è noioso. E soprattutto è prosa. A noi piace la poesia. Però la prosa aiuta a capire, e a limitare i danni. Se anziché compiacersi di essere stata messa nel board di una Ong, Emma Bonino si fosse annoiata ad andare alle riunioni e a leggerne i bilanci, forse le cose sarebbero andate in modo meno criminale. Se anziché compiacersi di consegnare un premio alla suocera di Soumahoro, Laura Boldrini avesse preteso un rendiconto dettagliato dagli enti che avevano deciso di proclamarla “imprenditrice straniera dell’anno”, forse qualche dubbio avrebbe trovato la strada per emergere.

E qui veniamo al cuore del problema. La realtà è che anche l’attività di premiare è, fondamentalmente, autopromozione. L’autodifesa di Laura Boldrini, senza volerlo, illustra il punto nel modo più chiaro. Quando Valerio Staffelli le consegna il tapiro d’oro per l’infortunio in cui era cascata, l’ex presidente della Camera risponde: “Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte. La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Con una giuria di questo tipo, chi non si fida?”

Già, chi non si fida?

Tutti ci fidiamo, ma è qui che sta l’errore. Perché l’impulso che spinge un’associazione a istituire un premio è lo stesso che spinge il politico o la politica a consegnarlo: fare pubblicità a sé stessi. E da questo punto di vista, l’autopromozione, i premiati non sono tutti eguali. Ci sono premiati banali, e ci sono premiati sfavillanti. Come ci sono candidati scialbi, e candidati luccicanti. Premiare una commercialista svizzera di Varese non è come premiare una signora africana, profuga del Rwanda e paladina degli immigrati. Candidare un avvocato del Nord non è come candidare un bracciante nero del Sud.

E torniamo sempre lì: la poesia e la prosa, il sogno e la realtà. Noi preferiamo la poesia, la prosa ci annoia profondamente. L’idea che quella della bontà sia anche un’industria non ci piace. La fatica di studiarla, con la pazienza e l’attenzione con cui si studia un “piano industriale”, non abbiamo nessuna intenzione di accollarcela. Preferiamo scegliere in base alla pubblicità. Se siamo individui, dando i nostri soldi a chi è più in grado di scaldare i nostri cuori, se siamo imprese, istituzioni, organizzazioni, sponsorizzando o finanziando le iniziative che più ci danno lustro.

Ma allora non possiamo lamentarci troppo dei Soumahoro e dei parlamentari corrotti di Bruxelles: in un mondo basato sulla pubblicità e sul sentimentalismo, sono normalissimi incidenti di percorso.