Follemente corretto (22) – Le fatiche di Erika

Storicamente, una delle prime manifestazioni del follemente corretto fu l’imposizione, nelle università americane, dei cosiddetti trigger warning, espressone difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente significa “avvisi di attivazione”, o “avvertimenti di innesco”. In concreto, nel contesto universitario in cui veniva e viene di solito usata, significa: attento, quel che sto per farti sentire o vedere, potrebbe scatenare in te una reazione di timore, imbarazzo, turbamento, sofferenza, eccetera (e quindi io, professore sensibile e illuminato, ti metto in guardia, così se non te la senti puoi uscire dall’aula).

Ma che cos’era così potenzialmente scatenante da richiedere un avvertimento? Film violenti, con sangue, torture, crudeltà verso bimbi innocenti? Materiale pornografico, con scene sado-maso e umiliazioni delle vittime? Racconti di rara crudezza o oscenità?

No, nulla di tutto questo. Nel mirino dei trigger warning, nell’università e fuori, sono finite opere come la Divina commedia, i miti greci, i dipinti di Gauguin, Via col vento, Dumbo, il film western eccetera. Il tutto perché nei loro contenuti, o nella vita dei loro autori, qualcuno poteva trovare tracce di sessismo (Zeus e le dee), razzismo (Rossella O’Hara nel Sud schiavista), suprematismo bianco (cow boy contro indiani), islamofobia (Maometto nell’Inferno), eccetera.

Di qui la pratica, ampiamente diffusa negli Stati Uniti, di avvertire gli studenti, gli ascoltatori, gli spettatori, dei pericoli che potrebbero correre esponendosi a certe opere, cosa che facciamo anche noi in Europa, ma solo con i bambini (ad esempio mediante l’istituto delle fasce orarie protette in tv).

Si potrebbe supporre che, con queste precauzioni, un professore americano sia al riparo da ogni critica. Invece no. Alla fine del 2022, nell’università Hamline a Saint Paul (Minnesota), la professoressa Erika López Prater, docente (precaria) di storia dell’arte, sapendo che, per una parte del mondo musulmano, esporre l’immagine del profeta è sacrilegio, si cautela avvertendo gli studenti che, fra le immagini che si accinge a mostrare, ve ne sarebbe stata una del profeta. Non solo, arrivata alla diapositiva critica, annuncia che sta per mostrarla, e che chi vuole può uscire. Nessuno obietta, e la lezione ha termine. Fin qui siamo al follemente corretto classico: gli studenti, per quanto maggiorenni, sono trattati come fanciulli ipersensibili e impressionabili.

Ma nei giorni successivi interviene un salto di qualità. Alcuni studenti musulmani si rivolgono all’amministrazione dell’università, accusando la professoressa López Prater di islamofobia. Qualcuno paragona l’esibizione del dipinto a una apologia di Hitler.  Il presidente della università di Hamline si schiera contro la professoressa, affermando che “il rispetto per gli studenti musulmani avrebbe dovuto prevalere sulla libertà accademica”. E non le rinnova il contratto per il semestre successivo.

La storia mostra che il follemente corretto non consce limiti: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, domani chissà. Ma è ancora più interessante per le reazioni che ha suscitato, alcune favorevoli altre contrarie alla professoressa. Fra le reazioni pro-Erika spicca quella di una associazione musulmana, il Muslim Public Affairs Council (MPAC), che rilascia un lungo e intenso comunicato in cui afferma che:

(i)   la questione dei dipinti di Maometto è controversa nel mondo musulmano;

(ii)  il dipinto in questione non è islamofobico;

(iii) la professoressa ha agito con correttezza, e dovrebbe essere ringraziata per il modo empatico e critico in cui ha educato gli studenti.

Le ultime parole del documento sono:

Sulla base dei nostri universali e condivisi valori islamici, noi affermiamo la necessità che nelle istituzioni universitarie vengano promossi spirito di libera indagine, pensiero critico, diversità dei punti di vista.

 Niente da imparare, Occidente?




Follemente corretto (21) – Polizia del pensiero

Per chi segue le vicende del politicamente corretto, gli Stati Uniti sono una insostituibile miniera di follie. Però, di norma, le follie si presentano una alla volta. Non così nella vicenda che il prof. Luigi Andrea Berto – italiano trapiantato in America, docente di storia alla Michigan University – ha voluto raccontare a Natalia Aspesi in una lettera alla rubrica “Questioni (non solo) di cuore”, sul Venerdì di Repubblica. Lui, di follie, ne ha dovute affrontare tre in un colpo solo.

Riassumo dalla sua lettera. Da una decina di anni, il prof. Berto tiene un corso generale sulla “storia del mondo occidentale fino al 1500”. Per far vedere ai propri allievi “come il passato possa essere deformato da idee contemporanee” si serve del celebre film 300 (del 2007), sulla battaglia delle Termopili (480 a.C.), in cui gli eroici trecento Spartani, guidati da Leonida, si immolarono nel tentativo di fermare l’esercito dei persiani, capeggiato da Serse.

Per dieci anni nessuna protesta, solo qualche mugugno da parte di studenti “troppo patriottici e conservatori”. Ultimamente, però, un paio di studentesse lo hanno accusato

presso l’amministrazione dell’università di far vedere cose inappropriate e “molestie sessuali”. E qui incontriamo la prima follia. Anziché offrire un supporto psicologico (e culturale!) alle due studentesse, evidentemente incapaci di prendere le distanze da un film-fumetto, viene portato sul banco degli accusati il docente, che peraltro usa il film per metterne in evidenza la parzialità e le distorsioni, non certo per sottoscriverne acriticamente i contenuti.

Ma non finisce qui. Nel frattempo, racconta il prof. Berto, “nell’ambito dell’operazione diversità e inclusione”, l’amministrazione dell’università inserisce nel nuovo contratto l’obbligo di fare un corso online su quei temi. Qui siamo alla seconda follia: obbligare i docenti a seguire un corso che non è di tipo funzionale (norme antincendio) o di tipo tecnico (uso di nuovi supporti didattici multimediali), o di tipo giuridico (diritti degli studenti e dei docenti), ma è di tipo politico-ideologico. Come testimonia la terza follia, ossia quel che succede alla fine del corso. Racconta il prof. Berto:

“Tra le lezioni del corso ve n’erano di varie sulle molestie sessuali. Alla fine delle lezioni si doveva fare un multiple choice quiz (quiz a crocette). Una domanda chiedeva se le accuse di molestie sessuali sono sempre vere. Se non si rispondeva sì, non si poteva proseguire nel corso e quindi si era licenziati perché non si era rispettato il contratto. Effetti collaterali del MeeToo?”.

Persino Natalia Aspesi, femminista e progressista da sempre, non riesce a nascondere il suo sconcerto: “l’obbligo del sì rivela tutta l’ipocrisia dell’iniziativa, perché si decide che le donne hanno sempre ragione”.

Il vero guaio, però, forse sta altrove. Il guaio è che quello delle molestie e di altri temi più o meno sensibili, è un argomento altamente controverso, come dimostra l’enorme spettro di opinioni e reazioni suscitate dal MeToo, anche all’interno del mondo femminile. E quando un tema è controverso, tutto si può fare tranne che obbligare studenti, professori, utenti, dipendenti pubblici e privati, a sottoporsi alle esternazioni di sedicenti esperti o educatori, e ancor meno obbligare i malcapitati discenti a sottoscrivere le idee e le credenze dei formatori, quasi sempre vestali arciconvinte dell’ortodossia woke.

Quando ciò avviene, non vuol dire che le istituzioni sono finalmente diventate sensibili a un problema, ma che stanno facendo nascere una polizia del pensiero, con le sue guardie rosse e il suo libretto di pensieri giusti. Non di rado, con l’assenso tacito dei meglio intenzionati fra noi.




Follemente corretto (19) – La generazione fiocco di neve

Forse qualcuno ricorderà che l’anno scorso, in vista del Natale, la Commissione Europea aveva preparato una sorta di vademecum, ad uso interno, con un minuzioso elenco di raccomandazioni linguistiche. Fra di esse, insieme a un nugolo di consigli curiosi, spiccava l’invito a non usare espressioni come le “vacanze di Natale”, perché non tutti in Europa sono cristiani. Il documento era così mal concepito che venne ritirato, in attesa di una versione più sensata (di cui per ora non c’è traccia).

A riempire il vuoto di linee guida quest’anno ha provveduto l’università inglese di Brighton che – più o meno con le stesse motivazioni – ha consigliato a studenti, professori e personale di non parlare di Natale ma di “periodo di chiusura invernale”. E in Italia?

Anche in questo campo siamo all’avanguardia, specie nelle scuole. Da noi gli episodi di soppressione del presepe, cancellazione di recite natalizie, alterazione dei testi delle canzoni (Perù al posto di Gesù), si susseguono da anni, anche se – fortunatamente – toccano poche scuole, e sono promossi da pochi insegnanti iper-ideologizzati. Le motivazioni sono sempre le stesse, in Italia come nel resto di Europa: non offendere gli islamici, far sì che tutti “si sentano al sicuro, apprezzati e rispettati”.

Qui non ho la minima intenzione di entrare nella controversia fra difensori delle nostre radici cristiane e laici intransigenti. Ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è una questione di natura fattuale: siamo sicuri che i musulmani si offendano?

A giudicare dalle innumerevoli prese di posizione pro-presepe delle famiglie e delle associazioni di fede musulmana direi proprio di no. E del resto esiste una controprova: nessun europeo sano di mente si indigna, si offende o si turba se – visitando un paese a maggioranza musulmana – incorre in simboli, riti o celebrazioni di quel credo. Semplicemente prende atto che, in quel paese, la maggioranza aderisce a una religione diversa da quella prevalente in Europa. O vogliamo essere così etnocentrici, presuntuosi, e pure un po’ razzisti, da pensare che i non-europei siano incapaci di fare quel che con grande naturalezza facciamo noi, ovvero accettare che ogni popolo ha le sue tradizioni e tutto il diritto di seguirle?

Ed ecco che, allora, dobbiamo cambiare la domanda: perché, nelle nostre raccomandazioni, presumiamo che i musulmani possano offendersi, turbarsi, o non sentirsi al sicuro?

Per capirlo, dobbiamo cambiare completamente ambito, e occuparci di quel che, da una ventina d’anni, sta capitando nella scuola e nella famiglia. Ebbene, secondo un’imponente letteratura sociologica e soprattutto psicologica il fenomeno emergente  del nuovo millennio, in America come in Europa, è l’affacciarsi di una generazione di ragazze e ragazzi profondamente toccati da insicurezza, dipendenza (non solo da internet), narcisismo, fragilità emotiva, suscettibilità, scarsa resilienza, incapacità di sostenere opinioni difformi dalle proprie. Generazione che, a sua volta, è il frutto di una generazione di genitori individualisti, iperprotettivi, iperindulgenti, sostanzialmente incapaci di educare. Il fenomeno è talmente vistoso che ha dato luogo a tutta una terminologia, per lo più negativa, per descrivere genitori e figli: helicopter parenting (genitori-elicottero, iperprotettivi), i-generation (generazione internet), snowflake generation (generazione fiocchi di neve), nation of wimps (nazione di imbranati).

Ed ecco la risposta alla nostra domanda: se i funzionari europei presumono che i musulmani possano risentirsi per un presepe o per un augurio di Natale è solo perché proiettano su di loro le nostre fragilità e turbe ideologiche. Nel medesimo documento che invita a chiamare il Natale “periodo di chiusura invernale”, compaiono raccomandazioni come: non parlare di colonizzazione di Marte (perché evoca il passato coloniale?), non parlare di insediamenti umani su Marte (perché vengono in mente gli insediamenti israeliani in Palestina?), non parlare della coppia Maria e Giovanni (troppo cristiano, meglio Malika e Julio), non dire “il ministro e la moglie” (meglio “la partner”, anche se è sua moglie). Ma, soprattutto, compare questo surreale invito: “evitare un linguaggio che suggerisca che essere più vecchi sia uno stato non desiderabile”.

No, cari eurocrati, credete a me che ho 72 anni: essere più vecchi è peggio che essere più giovani, e fingere che sia desiderabile – questo sì – è poco rispettoso, non tanto di noi ma dell’intelligenza di tutti.




Follemente corretto (20) – La wokeness contro la musica

La politica, l’ideologia e il politicamente corretto inquinano tutto, dalla stampa alla Tv, dalla letteratura alle scienze. Però non tutti gli ambiti sono ugualmente attaccabili. Ci sono ambiti ultra-permeabili, come il giornalismo, la letteratura, le scienze sociali, e ambiti quasi impenetrabili, come la fisica e la matematica.

E la ragione è semplice: tutto dipende dal grado di neutralità intrinseca di ogni ambito culturale. Se scrivi un romanzo, le tue preferenze e i tuoi valori contano molto, quindi può avere senso (almeno per i fanatici) chiedersi quanto un dato testo è politicamente corretto. Ma se dimostri un teorema, o scopri una nuova legge fisica, chiedersi quanto quel teorema o quella legge siano politicamente corretti è semplicemente illogico (anche se qualche fanatico ci prova).

E’ per questo che il politicamente corretto è particolarmente invasivo in ambiti come l’informazione, il cinema, le discipline umanistiche, la letteratura, l’opera, e persino la mitologia e le arti figurative.

Si potrebbe supporre che, oltre alla matematica e alla fisica, lo scudo delle neutralità protegga anche la musica. Dopotutto, una sequenza di note non è più politica di una sequenza di simboli matematici.

E invece no. Negli ultimi anni, anche a seguito dell’esplosione del movimento Black Lives Matter, la scure del politicamente corretto si è abbattuta anche nel mondo della musica. E lo ha fatto non solo là dove al testo musicale si accompagnano delle parole (come nelle canzoni o nell’opera lirica), ma dove la musica è per così dire muta: pura sequenza di note, senza parole né canto. Per il teorico (nero) della musica Philip Ewell la musica classica è razzista e discriminatoria per il fatto stesso di essere basata su un ordine rigoroso e gerarchie armoniche.

Gli attacchi alla musica si possono utilmente ordinare lungo una scala di assurdità. Un testo musicale può cadere sotto gli strali del fanatismo woke per almeno 5 motivi, via via più demenziali.

Livello di demenzialità Motivazione della censura Oggetto della censura (esempi)
1 Il titolo del brano contiene la parola negro Le petit nègre, di Claude Debussy
2 Il compositore è nazista Richard Wagner (razzista e antisemita, ma morto prima che Hitler fosse nato)
3 Il compositore piaceva ai nazisti Beethoven, Schubert,  Bach, Haydn, Schubert, Wagner
4 Il compositore è europeo, quindi “è stato sostenuto dalla bianchezza (whiteness) e dalla mascolinità per duecento anni”.

La sua musica “rafforza il dominio dei maschi bianchi e sopprime le voci delle donne, dei neri e della comunità Lgbtq”

Compositori europei

 

In particolare: Beethoven,

Quinta sinfonia

5 Il compositore è affetto da “bianchezza”, quindi colpevole di razzismo Praticamente tutti i compositori e musicisti occidentali

La censura di opere e autori non è tutto, però. Accanto ad essa proliferano anche altre pratiche. Ad esempio quella di scusarsi di essere bianchi da parte di dirigenti di grandi istituzioni musicali, come il presidente della Los Angeles Opera (Christopher Koelsch), o il capo della League of American Orchestra (Simon Woods), a quanto pare convinti che la whiteness sia una colpa. O il licenziamento di chi resiste alle intimidazioni dei censori (è successo a Dona Vaughn, direttrice dell’opera alla Manhattan School of Music).

Ma le pratiche più inquietanti sono quelle con cui si pretende di aumentare la presenza di musicisti neri nelle orchestre americane, da sempre molto sbilanciate a favore dei bianchi. Peccato che il rimedio usato – impedire ai giudici di vedere i musicisti, per evitare favoritismi pro-bianchi e discriminazioni – si sia rivelato un boomerang: il “daltonismo” dei giudici nelle “audizioni alla cieca” finiva per premiare il merito, non la razza. Ora è considerato discriminatorio.




Follemente corretto (18) – Cambiare razza?

Che si possa cambiare sesso, è una eventualità ormai entrata nel senso comune. Ma il percorso è stato lungo, e non è ancora concluso. Con la legge 164 del 1982, la riassegnazione del sesso sulla carta di identità comportava necessariamente un intervento chirurgico. Con il decreto legislativo 150 del 2011 le cose cambiano drasticamente: si può ottenere una modificazione del proprio status anagrafico anche senza intervento chirurgico, l’essenziale è convincere il giudice dell’esistenza di una condizione di “disforia di genere” e della serietà (e irreversibilità) della propria scelta.

Oggi le organizzazioni che promuovono i diritti delle persone trans chiedono molto di più: quel che molti vorrebbero è il cosiddetto self-id, ossia la possibilità di scegliere il proprio genere in modo completamente libero, senza alcun intervento di medici, psicologi, giudici.

La questione è delicata perché alla condizione di maschio o femmina sono associati diritti e prerogative differenti. Un maschio, ad esempio, non può accedere a bagni, spogliatoi, reparti carcerari, associazioni, competizioni (sportive e non) riservate alle donne. Simmetricamente, una donna non può partecipare ad associazioni, gare e reclutamenti riservati agli uomini. Il problema che si pone, quindi, è se il cambio di sesso/genere comporti una riallocazione automatica e completa di diritti, prerogative e corrispondenti divieti. E, soprattutto, se sia il singolo l’unico arbitro che può decidere del proprio sesso/genere, secondo la filosofia del self-id, o sia invece necessaria l’approvazione di altri soggetti individuali e istituzionali (genitori, medici, psicologi, giudici). E, infine, se debbano essere sanzionati quanti si rifiutano di accettare auto-identificazioni di genere soggettive, non sancite dalla legge (ad esempio l’insegnante che continua ad usare pronomi maschili verso un allievo che si autoidentifica come femmina).

Le organizzazioni che promuovono i diritti LGBT tendono ad asserire che la scelta del sesso/genere debba essere individuale, completamente libera, rispettata e riconosciuta da tutti. Non hanno però messo in conto che la medesima pretesa di scegliere – e far valere – la propria identità potesse essere avanzata in ambiti diversi dal genere: ad esempio quello della razza. Dopo quello dei trans-sessuali, è venuto il tempo dei trans-razziali.

Sono celebri, negli Stati Uniti, i casi di Rachel Dolezal, donna caucasica che si è finta di colore per anni (prima di fare outing, nel 2015); o di Korla Pandit, musicista afro-americano che si è fatto passare per indiano; o della professoressa Jessika Crug, figlia di genitori bianchi, che per tutta la vita lavorativa ha fatto credere di essere di colore.

Ma i casi più interessanti sono quelli di coloro che, anziché ricorrere all’inganno, sono ricorsi alla medicina e alla chirurgia per modificare effettivamente il proprio corpo. Martina Big, donna tedesca bianca, è ricorsa a iniezioni di melanina per diventare nera. Oli London, ragazzo bianco inglese, si è sottoposto a 18 (diciotto) interventi chirurgici per diventare come un coreano (più esattamente: per somigliare alla popstar coreana Jimin dei BTS).

Il fenomeno sarebbe rimasto poco più che una curiosità folkloristica se non avesse attirato l’attenzione delle accademiche femministe. Tutto parte da un provocatorio saggio del 2017 di Rebecca Tuvel, giovane docente di filosofia, in cui si sostiene che, così come ammettiamo la possibilità di cambiare genere, per coerenza dovremmo ammettere quella di cambiare razza. Fra i due tipi di transizione, infatti, non sussistono differenze tali da autorizzarne una e negare l’altra.

La filosofa non aveva previsto, però, che la sua difesa del transrazzialismo può portare da tutt’altra parte. I paradossi connessi alla scelta soggettiva della razza (un bianco che diventa nero può godere dei diritti riservati ai neri?), anziché ampliare gli ambiti della autodeterminazione, hanno finito per accendere un faro sull’assurdità di ogni auto-identificazione, di genere o di razza che sia. Di qui una pioggia di contumelie a Rebecca Tuvel, e il contrordine: cambiare razza non si può, solo il genere può essere cambiato.

La lobby LGBT è, e deve restare, un club esclusivo.