Sull’inattualità di don Milani

Inevitabilmente, in questi giorni in cui ricorre il centenario della nascita di don Milani, si moltiplicheranno le celebrazioni del suo pensiero, della sua opera, della sua perdurante attualità. Non so se sia il modo giusto di ricordarlo, se sia questo il modo migliore per onorare i grandi del passato. Provo sempre un po’ di disagio, quando un autore classico viene usato per fargli dire quel che piace a noi, che viviamo in un’epoca completamente diversa. Dante era di destra? Manzoni ci invita a non parlare di etnie? Don Milani ci dice come dovrebbe essere la scuola oggi?

Proprio per questo, ho accolto con sollievo l’uscita, giusto in questi giorni, di un libriccino di Adolfo Scotto di Luzio (uno dei più autorevoli studiosi della storia della scuola), che parla del Priore e della sua opera in un modo diverso, non agiografico né strumentale, e che definirei semplicemente rispettoso (L’equivoco don Milani, Einaudi). Rispettoso perché filologico, perché si sforza – attraverso gli scritti – di farci entrare nella testa del Priore, con le sue ansie, i suoi sogni, il suo modo di vedere le cose. Evitando di ridurre “una figura così complessa, piena di tante cose, ambigua, contraddittoria e indubbiamente carica di fascino” al “figurino senza spessore del pedagogismo nostrano”.

Il risultato dell’operazione è spiazzante, perché non ci fornisce affatto – come spesso si presume – una soluzione ai problemi della scuola di oggi. Ma semmai ci rivela la radicale inattualità del pensiero di don Milani, una inattualità che, fin da subito, fu pienamente intuita da Pasolini, e da pochissimi altri. Lettera a una professoressa, spiega Scotto di Luzio, “è un pressante invito ad abbandonare ambizioni e illusioni del moderno”. Don Milani detestava il gioco, il pallone, il biliardo, il divertimento, la televisione, persino la ricreazione scolastica. Considerava egoistico persino avere una ragazza, farsi una famiglia, studiare all’università, aspirare a una professione come chirurgo o ingegnere. Le uniche professioni che considerava degne di stima erano, nell’ordine: prete, maestro, sindacalista, politico. La sua scuola era durissima, senza pause, e non disdegnava il ricorso alle maniere forti. Se avesse potuto vedere la scuola (e la gioventù) di oggi, don Milani ne avrebbe avuto orrore. Consumismo e volontà di autorealizzazione, cardini del nostro tempo, erano per lui debolezze piccolo-borghesi: solo la dedizione totale agli altri rendeva una vita degna di essere vissuta.

Ma qual era l’idea di scuola pubblica del Priore?

Fondamentalmente, poggiava su tre cardini. Primo, la cultura popolare, e contadina in particolare, fatta di esperienza e saperi pratici, ha pari dignità rispetto alla cultura alta, formale, borghese, insegnata nelle scuole. Secondo, la scuola dell’obbligo dovrebbe riconoscere il pieno valore della cultura popolare, e rinunciare a trasmettere conoscenze prive di utilità pratica (matematica, letteratura, filosofia, ecc.), puntando tutte le carte sull’attualità (leggere i giornali) e sul controllo della lingua (non solo italiana). Terzo, l’orario scolastico dovrebbe essere molto più lungo, perché è nelle ore di non-scuola che i figli dei ricchi acquisiscono un vantaggio rispetto a quelli dei poveri, costretti a lavorare quando non sono a scuola (di qui il favore con cui don Milani vedeva il “pieno tempo”, e persino le “classi differenziali”).

Da questo complesso di idee derivava una conseguenza fondamentale. Diversamente da Gramsci, da Concetto Marchesi, e dallo stesso Togliatti, don Milani non vedeva l’accesso alla cultura alta come strumento di elevazione ed emancipazione degli strati popolari. Per lui, come per Pierre Bourdieu pochi anni dopo, la cultura alta era uno strumento di dominio, che imponeva saperi arbitrari, fatti apposta per consentire ai ricchi di umiliare ed escludere i poveri. Come tale, andava lasciata ai ceti alti e a quanti, fra i poveri, preferivano tradire la loro classe di origine, sottomettendosi alla scuola borghese e frequentando quelle che don Milani spregiativamente considerava “Scuole di Servizio dell’Io”, università e licei in particolare.

In questa sua visione dei compiti dell’istruzione, don Milani si situa agli antipodi del pensiero dei Padri Costituenti, in particolare di Piero Calamandrei. Per loro la scuola doveva rompere il monopolio borghese della cultura, facendo sì che la nuova classe dirigente dell’Italia repubblicana potesse attingere alle forze migliori di ogni ceto sociale. Era a questo alto compito che guardava l’articolo 34 della Costituzione, che al comma 2 recita: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di accedere ai gradi più alti degli studi”.

Piero Calamandrei considerava quell’articolo il più importante della Costituzione. Don Milani, invece, detestava l’articolo 34. Per lui, diventando chirurgo o ingegnere, il povero perdeva la sua purezza, il suo legame con i compagni, l’appartenenza al magico universo della cultura popolare. Premiare i “capaci e meritevoli ma privi di mezzi” non era la strada giusta. E infatti non fu seguita. Le borse di studio che l’articolo 34 prometteva (al comma 3) sono rimaste in gran parte sulla carta: don Milani ha vinto, Piero Calamandrei ha perso.

Fu un bene? Fu un male? Su questo, fra una celebrazione e l’altra, forse varrebbe la pena riflettere.




Giovani: vittime e viziati

Quel che mi ha colpito, da quando è iniziata la protesta degli studenti “attendati” davanti alle università, è la forte presenza di reazioni non convenzionali, o in qualche modo inattese. Contrariamente a quel che accade su quasi tutto il resto, sulle “tende” destra e sinistra non appaiono compattamente schierate l’una a favore (la sinistra), l’altra contro (la destra). Ho ascoltato più volte parole di comprensione da parte di esponenti della maggioranza, ma anche parole di grande perplessità nel mondo progressista. Una parte della destra ammette che il problema è reale (oltreché antico), una parte della sinistra si chiede se, dare agli studenti un alloggio vicino all’università che frequentano, sia davvero una priorità.

Questa incertezza di giudizi ha una base logica più che comprensibile. Da un alto la mancanza di alloggi a prezzi accessibili è sicuramente un fattore che limita il diritto allo studio, ma dall’altro non si può ignorare il fatto che, comparati al vasto mondo dei lavoratori pendolari, gli studenti universitari – in media – costituiscono un segmento relativamente privilegiato (all’università accede circa 1 giovane su 2).

E tuttavia credo vi sia anche una ragione più profonda per cui, quando il discorso cade sulla condizione giovanile, è difficile assumere una posizione netta, e tantomeno sparare giudizi intransigenti o inappellabili. Il fatto è che, sulla condizione giovanile, convivono in Italia due racconti apparentemente opposti, ma entrambi fondati.

Il primo racconto osserva che in nessuna altra epoca è stato così alto il numero di giovani che possono permettersi di non fare nulla: né studio, né lavoro, né addestramento a un lavoro. In nessuna epoca del passato è stato possibile posticipare così a lungo l’ingresso nel mondo del lavoro (i cosiddetti Neet). Nessuna generazione precedente è stata allevata da genitori così protettivi, né da insegnanti così indulgenti. Di qui scaturiscono gli stereotipi classici, che dipingono i giovani come bamboccioni (Padoa Schioppa, 2007), schizzinosi o choosy (Elsa Fornero, 2012), sdraiati (Michele Serra, 2013). E, più recentemente, come fannulloni viziati dal reddito di cittadinanza. O come protagonisti della cosiddetta great resignation (gli autolicenziamenti di massa dopo il Covid, alla ricerca di un migliore equilibrio fra tempo di lavoro e tempo libero). O come generazione snowflake  (fiocco di neve), fragile e incapace di affrontare le difficoltà, di gestire gli insuccessi, di misurarsi con le opinioni altrui.

Il secondo racconto osserva che mai, nella storia repubblicana, sono state così poche, e così inadeguate alle aspirazioni, le occasioni di lavoro. Troppi posti di lavoro sono precari o sottopagati. Troppo incerte e modeste sono le possibilità di avanzamenti. Troppo forte è la tentazione di cercare all’estero quel che non si riesce a trovare in Italia. Di qui nascono i contro-stereotipi che descrivono i giovani nel registro vittimistico: sfruttati, emarginati, precarizzati, derubati del futuro.

Il fatto interessante è che entrambi gli stereotipi, quello di una generazione viziata e quello di una generazione vittima, posseggono qualcosa di più che un semplice “fondo di verità”. Certo, come tutti gli stereotipi semplificano e generalizzano incautamente, ma entrambi colgono un lato essenziale della condizione giovanile, e in questo senso sono non liquidabili. Si può inclinare verso l’uno o verso l’altro, ma non si può – se non si è accecati dall’ideologia – respingere totalmente una delle due semplificazioni come palesemente falsa. È qui, verosimilmente, l’origine dell’incertezza, della circospezione, talora dell’ambivalenza, con cui un po’ tutti ci accostiamo alla questione giovanile.

Ma c’è di più. I due stereotipi non solo sono entrambi a loro modo veritieri, ma sono strettamente connessi, perché hanno una radice comune. Se i giovani non trovano lavoro e (in tanti) possono permettersi di non cercarlo è anche perché, negli ultimi 60 anni, le generazioni immediatamente precedenti hanno radicalmente cambiato i propri modelli culturali. Al posto dell’etica del lavoro, del risparmio, dei sacrifici, dell’emancipazione attraverso la cultura, si sono affermati modelli di vita opposti, basati sul consumo, il tempo libero, il primato dell’autorealizzazione, l’iper-protezione di figli e allievi, il diritto al successo formativo. Tutto lecito, e forse auspicabile. Ma non privo di conseguenze, tutte ampiamente prevedibili: minore offerta di lavoro, distruzione della scuola e dell’università, progressivo deterioramento del “capitale umano”, rallentamento e poi arresto della formazione di posti di lavoro pregiati. Se ora i giovani non cercano lavoro, o non trovano il lavoro dei loro sogni, o quando lo trovano si scoprono inadeguati, è anche perché i loro padri e nonni a un certo punto hanno scelto di cambiare rotta. Hanno preferito raccogliere i frutti, piuttosto che continuare a seminare.

È questo che, a un certo punto, ha fermato la crescita. È questo che ha bloccato l’ascensore sociale. È per questo che i due stereotipi, quello del giovane viziato e quello del giovane vittima, non sono l’uno vero e l’altro falso, ma facce della medesima identica medaglia.




La macabra barbarie contro i morti sepolti

Trovo barbaro, macabro e raccapricciante quel che sta succedendo in Spagna col governo sinistro di Pedro Sanchez. Non mi va nemmeno di parlarne, lo faccio perché qualcuno deve pur dirlo. La chiamano Memoria Democratica e consiste nel prendersela con i morti e i caduti della parte sconfitta, disseppellendoli dalle loro tombe e traslocandoli altrove, in anonime e private tumulazioni, per cancel-lare ogni “infame” accostamento tra i loro resti e quelli dei combattenti anti-fascisti, comunisti e repubblicani. Con l’aggravante di farlo per lucrare misera-mente sul residuale antifascismo e tenere in vita la più tetra memoria del passato per rovesciarla alle elezioni sugli avversari, come il movimento Vox.

Il generalissimo Francisco Franco, il “becero dittatore”, alla fine della Guerra civile, li aveva sepolti insieme, rossi e neri, comunisti e falangisti, repubblicani e nazionalisti, nella Valle de Los Caidos. Lo ritenne un gesto di pietà e di ricon-ciliazione, dopo tanto odio e tanto sangue. Ma la Memoria Democratica non am-mette requiem né civile memoria, tantomeno condivisa; neanche dopo morti e dopo 84 anni dalla fine della Guerra Civile. Respinge ogni idea di pacificazione degli animi e di parificazione delle vittime, rifiuta il senso cristiano della pietas almeno post mortem e si accanisce con bestiale sciacalleria sui resti di poveri caduti degli anni trenta. Lo fa oggi perché ormai non c’è più nessuno a difendere la memoria del passato, nessun familiare diretto, nessun movimento che ne tuteli la memoria; solo sparuti, anacronistici militanti della testimonianza proibita, come le poche decine di persone che hanno tentato una flebile protesta.

Il governo rosso cancella la definizione stessa di Valle dei Caduti, e deporta le spoglie di coloro che sono seppelliti ma che appartennero alla parte avversa all’epoca vincente, rispetto a quella repubblicana e antifascista che i vincitori invece seppellirono accanto ai vinti, per lanciare un messaggio di pacificazione a un paese così sanguinosamente lacerato. Dopo la traslazione dei resti di Francisco Franco, di cui scrivemmo, il governo in carica formato dall’alleanza tra la sinistra del vecchio Psoe e la nuova sinistra radicale e grilleggiante di Podemos, ha esumato e cacciato dalla sua tomba i resti di José Antonio Primo de Rivera, fondatore del Movimento Falangista, ucciso, anzi fucilato, a 36 anni dai repub-blicani. Primo de Rivera era il Che Guevara della Rivoluzione nazionale e sociale spagnola, non fece in tempo a vivere il regime di Franco né la fase cruenta della guerra civile; Franco alla sua morte, congelò lo spirito nazional-rivoluzionario del movimento falangista e la sua carica ideale. José Antonio non amava il Fuhrer e scriveva: “Con Hitler non ci intenderemo mai. Non crede in Dio” e detestava il razzismo. “Che non ci si parli della razza, l’impero spagnolo non fu mai razzista; anzi, raggiunse l’immensa gloria proprio per aver unito uomini di tutte le razze”. José Antonio fu ucciso agli inizi della guerra civile, dunque non partecipò al cal-vario più terribile di quel paese, le atroci crudeltà compiute da ambo le parti, con lo speciale accanimento dei comunisti e stalinisti verso suore e preti, civili e minori, e perfino anarchici. Una pagina atroce che destò il disgusto di molti combattenti idealisti che erano accorsi in Spagna per difendere la Repubblica antifascista ma rimasero poi sconvolti e spiazzati dalle crudeltà, anche gratuite, commesse dai loro stessi compagni. Ne cito alcuni, tra i più famosi, oltre il celebre Ernst Hemingway: lo scrittore cattolico Georges Bernanos, lo scrittore liberal-so-cialista George Orwell, la giovane pensatrice Simone Weil, il combattente repub-blicano Randolfo Pacciardi. Erano andati tutti per combattere in difesa della Repubblica e della libertà, contro il franchismo e il falangismo. Ma dovettero presto fare i conti con le atrocità compiute dai loro stessi compagni.

José Antonio era un mito per la gioventù europea, non aveva fondato alcun regime sanguinario, alcuna dittatura, si era solo battuto lealmente in una guerra civile per i suoi ideali e per la difesa della Spagna eterna contro il pericolo comunista, ateo e stalinista. Fu un capo carismatico, un oratore coinvolgente, un combattente intrepido, un sognatore politico. Era avvocato, padre di quattro figli, a sua volta figlio di Miguel Primo de Rivera, generale e dittatore col consenso del Re negli anni venti. José Antonio sognava una Rivoluzione nazionale che coniugasse i valori tradizionali della Spagna cattolica, con i valori popolari di giustizia sociale e difesa dei lavoratori. Mi innamorai di lui da ragazzo, ricordo il suo discorso testamento: “La bandiera è stata issata. Andiamo a difenderla allegramente, poe-ticamente…il nostro posto è fuori, all’aria libera, sotto la notte chiara, arma in spalla e in alto le stelle”. A lui dedicò una biografia elogiativa Giorgio Almirante.

Non si tratta di riaprire e tantomeno di riscrivere le pagine della storia, figuria-moci. E’ proibito farlo, ormai, in Europa: e dico non in chiave apologetica e nem-meno revisionistica ma semplicemente e rigorosamente storica. Ma si tratta di denunciare a che livello di inciviltà, di disumanità e di odio sia giunta la “memoria democratica” toccando il fondo peggiore della “cancel culture” applicata alle spoglie dei defunti, ai trapassati remoti, fino al macabro disseppellimento e cacciata post mortem con odio eterno. Anche le più fiere e cruente ideologie mili-tari e militanti del secolo scorso, si sono fermate davanti all’oltraggio ai cadaveri. I regimi totalitari del passato, comunisti o nazisti, hanno sterminato milioni di morti ma nessun regime è andato a disseppellire e processare i cadaveri del passato. E’ solo una bestiale pratica del nostro presente, pur così pacifista, così sensibile e così pronto a indignarsi se viene maltrattato un fiore o un vitello. Dio ci scampi dalla Memoria Democratica.

di Marcello Veneziani




Calcio, tifo e razzismo

Finalmente, alla fine, anche nello sport si è aperto uno spiraglio, un timido tentativo di fare un pochino di chiarezza su se e quanto si possano definire “manifestazioni di razzismo” i cori che ormai quotidianamente si sentono negli stadi (italiani e non). Ad aprire il dibattito, con qualche interessante dichiarazione e alcune considerazioni di base, sulle quali riflettere almeno un istante, è stato l’allenatore dell’Atalanta, GianPiero Gasperini.

Breve riassunto degli accadimenti di domenica scorsa, per chi non segue da vicino lo sport giocato né quello chiacchierato. Va in scena a Bergamo la partita di campionato Atalanta-Juventus. Nel corso dello svolgimento, un gruppo significativo di ultras bergamaschi non smette di rivolgere all’attaccante slavo della squadra avversaria, Vlahovic, coretti ed epiteti spregiativi, tipo “sei uno zingaro”, se non anche peggiori. Un po’ ciò che era accaduto a Torino un paio di settimane prima, tra alcuni ultras della stessa Juve e l’attaccante nero dell’Inter Lukaku, apostrofato con il consueto “negro di merda” o giù di lì. In modo non dissimile anche in questo caso a ciò che avviene in tutti gli stadi di calcio, da anni a questa parte, più o meno nessuno escluso.

Breve parentesi, ma molto importante per il discorso che farò tra poco. Una volta, qualche decennio fa, questo era un “rituale” comune anche negli altri sport, in particolare quelli di squadra, ma molto meno quelli individuali (ve l’immaginate uno spettatore di boxe che avesse apostrofato a bordo ring Cassius Clay / Mohamed Alì con un epiteto del genere? Avrebbe fatto sicuramente una brutta fine…).

Anche nel basket, ad esempio, giravano coretti simili, del tipo “non ci sono negri italiani”, rivolto a Carlton Myers, figlio di un inglese nero e di una riminese, divenuto nel tempo una colonna della nazionale italiana, tipo Balotelli. Negli ultimi anni ingiurie di questo tipo sono praticamente scomparse da tutti i palazzetti di basket, per la semplice ragione che i migliori giocatori di pallacanestro sono spesso neri e tutte le squadre ne hanno nel loro roster almeno tre o quattro, e insultarne qualcuno a caso non avrebbe alla fine un apprezzabile risultato, né si saprebbe esattamente chi ne sarebbe il destinatario, dei cinque o sei che sono in campo o in panchina.

Dunque, nel basket, al contrario di un passato più antico, di squalifiche o di multe per “cori razzisti” oggi non se ne verificano praticamente mai. Significa forse che tra gli ultras della pallacanestro non c’è alcun esagitato tifoso, simile ad il suo omologo calcistico? Direi proprio di no. Forse meno diffuso, grazie al livello meno popolare degli spettatori di basket. Forse, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chiusa parentesi.

Ma torniamo ad Atalanta-Juve e alle dichiarazioni di Gasperini che, a fine partita, ha espresso un concetto semplice: non è vero che le frasi rivolte a quel giocatore slavo siano insulti di stampo razzista, semplicemente perché anche nella squadra che lui allena giocano almeno due-tre altri giocatori della stessa origine “etnica”, quella di Ibrahimovic per intenderci, che ha subito anch’egli nella sua lunga carriera epiteti molto simili. Ora, conclude Gasperini, se gli ultras fossero davvero razzisti (contro gli slavi), non potrebbero accettare nemmeno che nella propria squadra giochino almeno due-tre “zingari di merda”, e li insulterebbero a ogni piè sospinto, sebbene difendano i propri colori sociali. Come ben ci insegna la storia Usa, non si può essere razzisti ad intermittenza, o lo si è o non lo si è. E a volte, addirittura quando non si pensa di esserlo, il proprio rapporto con persone di colore non è semplice (vedi il caso del film anni Sessanta “Indovina chi viene a cena”). Punto.

Quegli insulti, sempre secondo Gasperini (che ovviamente è stato attaccato da tutti, proprio tutti tutti) non sarebbero razzisti, ma semplicemente “maleducati”, o beceri, perché seguono il diffuso sentiment di provocare l’avversario per infastidirlo, per fargli commettere errori che normalmente non farebbe. Non è bello, s’intende, ma non è nemmeno sintomo di razzismo, perché il razzismo, quello vero, è tutt’altra cosa, molto più grave, ma anche molto più specificamente diretta al colore della pelle, alla etnia, alla religione. Ora, argomenta l’allenatore dell’Atalanta (e io con lui), se ce l’ho con gli “sporchi negri” dell’altra squadra, perché quelli che giocano nella mia squadra sono al contrario “giganti d’ebano”, “principi neri”, eccetera. Balotelli, quando era dell’Inter, veniva insultato costantemente dai tifosi milanisti, quando passò al Milan subiva lo stesso trattamento da quelli interisti. Razzismo?

Ricordo ancora una ricerca universitaria degli anni Novanta, un’indagine sul campo promossa da Alessandro Dal Lago, in cui si cercava di studiare da vicino atteggiamenti e comportamenti degli ultras del Milan. Ne uscì un importante libro dal titolo “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio”. Utilizzammo per l’analisi dei tifosi e del loro livello di razzismo una procedura statistica chiamata “Scala di Likert”, composta da 10 frasi cui l’intervistato doveva dichiarare il proprio grado di accordo. La sommatoria di tutte le risposte avrebbe fornito appunto un indicatore complessivo del livello di razzismo degli ultras. A patto che tutte le frasi indicassero una delle facce del tema del razzismo.

Orbene, 9 frasi su 10 funzionavano piuttosto bene ed erano tra loro ben correlate. L’unica che al contrario non mostrava significativi livelli di collegamento con le altre era proprio quella che riguardava gli insulti ai giocatori avversari per il colore della loro pelle. Quella frase era correlata più con il tifo maleducato, gli insulti (“figlio di p…”, “testa di c…”) che con il razzismo. Già oltre 30 anni fa, dunque, le parole che oggi ha pronunciato l’allenatore dell’Atalanta erano state comprovate da un’analisi scientifica. Meglio tardi che mai.




Lollobrigida e il cane di Pavlov

“Io sono responsabile di quello che dico, non di quello che capisci tu”. Questa frase, attribuita a Massimo Troisi, mi è tornata irresistibilmente alla mente in questi giorni durante la lapidazione pubblica (e bipartisan) del ministro Lollobrigida, reo di aver usato l’espressione “sostituzione etnica”.

Perché non ha semplicemente citato Troisi? mi sono detto. Possibile che non abbia capito come funzionano i media nell’era dello smartphone? Non lo sa che spiegarsi e chiedere scusa è perfettamente inutile, anzi controproducente? E pensare che Guia Soncini, che di internet se ne intende, l’ha spiegato in mille salse nei suoi articoli su Linkiesta e nei suoi libri (L’era della suscettibilità, Marsilio 2021): “Va sempre così. Più ti scusi, più ti urlano. Più ti contrisci, più infieriscono. I giustizieri dell’internet sono come quei mariti stronzi che più piangi più godono a corcarti di mazzate”.

Eppure il meccanismo dovrebbe essere chiaro. È il medesimo su internet e sui media politicizzati. Tu dici una parola, l’altro le associa un’altra parola, che a sua volta (a lui!) ne richiama un’altra ancora, e così via secondo una catena associativa governata soltanto dai fantasmi di chi ascolta.

Esempio. Tu dici merito, l’altro pensa prestazione  competizione  selezione  esclusione stress  disagio  suicidi giovanili. E voilà, chi parla di merito ha sulla coscienza i ragazzi che si tolgono la vita.

Altro esempio. Tu dici Nazione, e scatta la catena patria  nazionalismo  militarismo colonialismo  fascismo. E voilà, chi parla di Nazione è in odore di fascismo.

E arriviamo a Lollobrigida: sostituzione etnica  razzismo  complottismo  fascismo suprematismo bianco  nazismo  pulizia etnica. E voilà: chi parla di sostituzione etnica (che vorrebbe evitare) “è a un passo dalla pulizia etnica”.

Per certi versi, è il cane di Pavlov, come ebbe a notare Massimo Recalcati in un articolo su Repubblica, in cui descriveva il “riflesso pavloviano di ripudio” che scatta “nella sinistra più ideologica” quando viene in contatto con certe parole-stimolo (Recalcati menzionava “merito” e “sicurezza”). Per altri versi, però, è qualcosa di più, e di diverso, da un mero riflesso pavloviano. C’è molto di scientifico, di intenzionale, di studiato a tavolino nella campagna che, contro Lollobrigida, è stata scatenata non solo dai media progressisti, ma dagli stessi alleati di governo (Lega e Forza Italia), che non hanno fatto mancare critiche, censure, rimproveri. In retorica si chiama straw man, (argomento fantoccio, o dello spaventapasseri), la fallacia logica che consiste nello smontare una tesi dandone una rappresentazione deformata.

Dico questo non solo perché è palese, per un osservatore neutrale, che il ministro Lollobrigida si è limitato a esporre una posizione discutibile ma perfettamente plausibile, per non dire scontata per un esponente della destra (meglio spingere sulla natalità che sui flussi migratori), ma anche perché la medesima espressione – sostituzione etnica – usata in passato sia da Salvini sia da Meloni, mai aveva suscitato reazioni paragonabili a quelle di questi giorni.

Che cosa è cambiato, rispetto ad allora? Perché parlare di “sostituzione etnica” è diventato improvvisamente così scandaloso?

Non lo so. Forse, per il mondo progressista, la destra al governo è un nemico più inquietante della destra all’opposizione. Forse, per Lega e Forza Italia, questo è il momento giusto per ridimensionare lo strapotere di Giorgia Meloni. Forse, nell’era della suscettibilità, la sensibilità alle parole è aumentata.

Chissà. Resta il fatto che parlare è diventato pericolosissimo. E questo, la classe dirigente della destra, non sembra proprio averlo ancora capito.