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Società

Punire il “negazionismo climatico”?

28 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

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Quando l’ho sentita non ci volevo credere. Pensavo fosse la solita notizia gonfiata e deformata dai media. Il solito tentativo di screditare l’avversario politico.

E invece no, quando sono andato a controllare, ho scoperto che era tutto vero. L’aveva proprio detto, il leader dei Verdi Angelo Bonelli, che intende presentare una proposta di legge per introdurre il reato di “negazionismo climatico”.

Dunque siamo a questo. Per Bonelli, la legge dovrebbe punire chi non aderisce al pensiero dominante in materia di clima. Vedremo, quando ci sarà un testo, se la pena sarà pecuniaria, detentiva, o entrambe le cose. Certo, mi farebbe una certa impressione vedere scattare le manette ai polsi del fisico dell’atmosfera Franco Prodi (fratello dell’ex presidente del Consiglio), o assistere a una discussione parlamentare sulla perseguibilità del senatore a vita Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica. O magari, in occasione di una incauta vacanza in Italia di Richard Lindzen (eminente fisico dell’atmosfera americano), vedere nascere una surreale diatriba sulla natura universale o meno del nuovo reato di Bonelli. Già, perché ciascuno di questi tre signori, che ho indicato solo a titolo di esempio fra decine di altri possibili, ha espresso perplessità sulla tesi che il riscaldamento globale sia dovuto soprattutto alla crescita delle emissioni di anidride carbonica (CO2).

Ma lasciamo perdere le conseguenze di una proposta di legge che non sarà mai approvata, e serve solo a incattivire il fondamentalismo green. Quel che merita attenzione non è il destino della proposta (se mai avranno il coraggio di metterla nero su bianco), ma la mentalità che la sorregge. Perché, bene o male, siamo abituati a pensare gli ambientalisti come una componente della galassia progressista. Che a sua volta ama pensare sé stessa come erede dell’illuminismo.

Peccato che l’idea di istituire il reato di “negazionismo climatico” sia quanto di più oscurantista si possa immaginare. E questo per due precise e distinte ragioni.

Primo, la proposta è illiberale, nella misura in cui calpesta il principio della libertà di opinione, un principio che – fra le opinioni tutelate – non può non includere quelle che si affrontano e si sfidano in campo scientifico.

Secondo, la proposta è profondamente antiscientifica. Bonelli forse non lo sa, ma il dubbio è uno dei cardini dell’etica della scienza. E lo è, in modo particolare, proprio sul punto cruciale della controversia climatica: la dimostrazione dell’esistenza di un nesso causale.

Perché il punto della discussione non è se oggi faccia più caldo di 50, 100, o 150 anni fa, ma se il cosiddetto riscaldamento globale possa essere attribuito prevalentemente all’azione dell’uomo. Chi ha dimestichezza con le tecniche statistiche di imputazione causale su dati osservativi (cioè nonsperimentali), e ha un minimo di conoscenza dei limiti intrinseci dei modelli di simulazione, sa perfettamente che tale attribuzione può essere effettuata solo in via congetturale, e che i margini di errore sono di entità sconosciuta.

Ma l’oscurantismo illiberale e antiscientifico non è l’unico difetto della mentalità green. C’è anche un difetto strettamente politico. Ammettiamo che abbiano ragione quanti pensano che il riscaldamento globale sia un effetto della CO2 (io stesso propendo a pensare che abbiano ragione). Resterebbe aperto quello che mi piace chiamare “il problema di Jonathan Franzen” (mirabilmente esposto nel suo libriccino E se smettessimo di fingere?): posto che le risorse che possiamo investire sull’ambiente sono limitate, è meglio convogliarle sulla rimozione delle (presunte) cause del riscaldamento globale, o concentrarle sulla prevenzione delle sue (catastrofiche) conseguenze?

Gli ambientalisti scettici, quando non sono a loro volta accecati dall’ideologia, dicono

solo questo: siamo sicuri che la nostra costosissima (e solitaria!) lotta all’anidride carbonica sia la strada più saggia per proteggerci dal riscaldamento globale?

Se poi sono pure di sinistra (quella vera), aggiungono: è proprio il caso, a forza di auto elettriche ed efficientamenti energetici delle abitazioni, di caricare sulle spalle dei ceti popolari gli enormi costi della cosiddetta transizione green? Non è che la lotta al riscaldamento globale finirà per aumentare le diseguaglianze?

È a queste domande che, per ora, gli ambientalisti ortodossi non hanno saputo rispondere.

Bilanci pandemici – di Lorenzo Morri (insegnante, “Presidio primaverile per una Scuola a scuola”) e Sara Gandini (epidemiologa e biostatistica, Istituto Europeo di Oncologia, Milano)

25 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

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L’annuncio, ai primi di maggio, da parte del direttore generale dell’OMS, Tedros Ghebreyesus, sulla fine dell’emergenza pandemica da Covid-19 ha rafforzato l’impressione che sia giunta finalmente l’ora di un bilancio. Dopo tre anni, ciò che in mezzo al succedersi imprevedibile delle ondate poteva sembrare un esercizio prematuro, diventa oggi del tutto legittimo, anzi doveroso. Tirare le somme su ciò che ha o non ha funzionato nelle strategie di sanità pubblica è necessario innanzitutto ad attrezzarsi meglio per il futuro, ma è anche un imperativo morale. Soprattutto a fronte dell’inconfessata quanto costante tendenza della politica a sottrarsi a qualunque redde rationem, prima in nome della logica delle “scelte obbligate”, adesso in ragione delle emergenze nuove (la guerra e i suoi spettri nucleari, l’inflazione) e meno nuove (le emigrazioni, il cambiamento climatico) da affrontare.

Invitato a redigere un primo bilancio degli anni della pandemia (“Corriere della Sera”, 6 maggio), Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto farmacologico “Mario Negri”, non ha avuto esitazioni a registrare nella colonna di ciò che ha funzionato il contributo della ricerca internazionale sui vaccini, così come la centralità del Servizio Sanitario Nazionale, ancorché penalizzato dallo stato di abbandono in cui versa la “medicina del territorio”. Nella colonna di ciò che non ha funzionato, invece, Remuzzi colloca al primo posto uno dei pilastri della politica anti-Covid dei governi italiani. Con una affermazione secca, nettissima, “le scuole sono state chiuse più del necessario”, sottolinea una pesante verità che ora comincia a farsi strada. Perché quel “più del necessario” significa non solo che un errore è stato compiuto, ma che un danno è stato causato, alle persone e alla società.

Dopo il lockdown del marzo-maggio 2020, l’Italia nell’autunno 2020 serrò le porte degli istituti ottenendo il record europeo di giorni senza scuola, in particolare per le elementari e per il Sud. Persino il “New York Times” se ne accorse, commentando che, nonostante gli alti tassi di dispersione, l’Italia aveva preferito chiudere le sue scuole nel primo anno della pandemia tre volte più a lungo della Francia e più della Spagna e della Germania. In uno studio epidemiologico pubblicato già nel marzo 2021 su The Lancet – Regional Health e ripreso dal sito dell’OMS si mostrava invece come ciò fosse “non necessario”, perché i contagi accadevano a scuola con un’incidenza non maggiore che in ogni altro luogo.

Che restrizioni così prolungate avrebbero avuto conseguenze severe sia sul piano formativo, sia su quello psicologico era prevedibile fin dall’inizio. Una vasta meta-analisi di 53 studi uscita su “Jama Pediatrics” ha concluso che il malessere e addirittura i disturbi (depressione, ansia, ideazione suicidaria) sono sensibilmente aumentati tra i giovani durante e dopo la pandemia. A soffrirne di più, in particolare, le ragazze e, in generale, chi appartiene alle classi sociali più abbienti, probabilmente per la maggior disponibilità di accesso all’uso dei dispositivi digitali, incentivato dalla riduzione delle occasioni di socializzazione faccia a faccia e dall’adozione della didattica a distanza. Dai primi dati di “Eucare”, una ricerca attualmente in corso nelle scuole italiane e finanziata dalla comunità europea, si evince che il 53% dei bambini della scuola primaria riferisce di essere arrabbiato per l’uso di mascherine e il 42% di sentirsi triste nel doverle portare.

Risulta così sempre più evidente che l’enfatizzazione, a nostro avviso infondata, del rischio di contagio nelle scuole e la disattenzione della politica verso i minori hanno fatto sì che questi ultimi diventassero le vittime silenziose della pandemia. Per paradosso, proprio il gruppo di età più resistente al virus è stato chiamato a pagare un alto prezzo, “non necessario”. Tutti devono saperlo. Per questo abbiamo scritto L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia sul mondo non-adulto (Erickson, 2023), libro a cura del “Presidio primaverile per una Scuola a scuola”*.

*Il “Presidio primaverile per una Scuola a scuola” è un gruppo informale di studio e azione attivo dal 2021 presso il Liceo “Leonardo da Vinci” di Casalecchio di Reno (BO)

Il caso Venezi

16 Luglio 2023 - di Luca Ricolfi

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Marzo 2021. Beatrice Venezi, al Festival di Sanremo, dichiara che preferisce essere chiamata direttore d’orchestra (piuttosto che direttrice o direttora). Laura Boldrini, ex presidente della Camera, trova il tempo e la voglia di montare una polemica: la presa di posizione della Venezi “è un problema serio”, e “dimostra poca autostima”.

Che dire?

Se uno pensa a quanti e quali problemi veri ha l’Italia, viene il mal di mare a constatare che ci sia qualcuno, a sinistra, che pensa che il fatto di preferire direttore a direttrice costituisca un “problema serio”. Quanto alla scarsa autostima, vien da ridere: la Boldrini ha visto il curriculum della Venezi? Si è accorta che è la più giovane direttrice d’orchestra italiana?

Ma andiamo avanti. 10 luglio 2023, Beatrice Venezi, incorre nell’ira di 14 associazioni (sedicenti) democratiche e anti-fasciste francesi. Alla fine del 2023 dovrebbe dirigere l’orchestra filarmonica per i tradizionali balletti di Natale e per il concerto di Capodanno. Ma le associazioni democratiche e anti-fasciste non ci stanno, e lanciano una petizione in cui chiedono al sindaco di Nizza e al direttore generale dell’Opera Nice Côte d’Azur di annullare l’invito. Motivi: le idee politiche di Venezi, la sua partecipazione alla Convention di Fratelli d’Italia la primavera dell’anno scorso, il suo ruolo di consigliere del ministro della Cultura Sangiuliano.

Non è finita. Due giorni dopo, il 12 luglio, a Lucca si svolge il Summer Festival dedicato al centenario pucciniano. Venezi dirige l’orchestra e include fra i brani l’Inno a Roma di Puccini, scritto nel 1919, ma successivamente usato dal fascismo e dal Movimento Sociale Italiano. Per protesta, diversi membri del Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane, fra cui alcuni sindaci e un presidente di provincia, disertano l’evento (peraltro dimenticandosi che il medesimo inno, cantato da Bocelli al Colosseo due anni fa, non aveva suscitato la benché minima protesta o contestazione).

Beatrice Venezi giustamente tiene il punto, e rivendica l’assoluta autonomia dell’arte rispetto alla politica (lo stesso, peraltro, dovrebbe valere per scienza, letteratura, sport). Respinge fermamente l’idea che un’opera o un autore possano essere cancellati per il solo fatto che sono piaciuti ai soggetti sbagliati. L’esempio di Richard Wagner è perfetto: non dovremmo più ascoltare la musica del grande compositore tedesco solo perché quella musica piaceva a Hitler?

Poi respinge l’accusa di essere neo-fascista, o che lo sia l’attuale governo. E accusa i suoi accusatori di misoginia, perché attaccano una giovane donna per le idee del padre (che era stato dirigente di Forza Nuova).

Tutto ineccepibile, ma forse manca qualcosa. Venezi è stata troppo soft. La petizione in cui si chiede di toglierle la direzione dei concerti di fine anno a causa delle sue idee politiche andrebbe considerata per quel che è: un incitamento a compiere un atto di discriminazione.

Sia nella Costituzione italiana (art. 3), sia nel diritto europeo (art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea; art. 14 della CEDU), le idee politiche sono indicate esplicitamente fra le ragioni sulla base delle quali è inammissibile effettuare discriminazioni.

Viste le cose da questa angolatura, diventa del tutto irrilevante stabilire quali siano le idee politiche di Beatrice Venezi. Perché il punto non sono le sue convinzioni, ma come mai, nel 2023, una parte della sinistra considera normale, anzi dovuto, discriminare una giovane donna a causa delle sue idee.

Non era, la lotta contro ogni discriminazione, uno dei cardini del politicamente corretto?

Insegnare contro vento – di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi, Francesco Genovesi (insegnanti di scuola secondaria superiore)

13 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

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Il rapido sviluppo delle tecnologie digitali e la loro estensione a ogni ambito della vita privata e pubblica sta facendo nascere una nuova “religione”? Che oggi si abbia nei confronti della digitalizzazione del mondo umano e naturale un atteggiamento di “salvifica attesa” – dalla medicina alla finanza, dalla ricerca scientifica alla pubblica amministrazione, dall’organizzazione del lavoro alla mobilità urbana, alla crisi climatica – è sotto gli occhi di tutti. Quei pochi che in ciò intravvedono i segni di una profonda mutazione antropologica, di cui è opportuno sottolineare i rischi, appaiono inguaribili scettici. Persone ingenue che si oppongono ridicolmente al corso della storia (e al “verbo” che la anima).

Si prenda l’istruzione. Il Pnrr ha destinato ingenti fondi a un’innovazione degli ambienti di apprendimento imperniata sulle dotazioni digitali. Che la frontiera del progresso didattico passi necessariamente per la digitalizzazione è uno dei dogmi della nuova religione. Nessuna discussione pedagogica ne è a fondamento, né sostanzia il documento “Scuola 4.0” che illustra le linee ministeriali. L’enunciato secondo cui si scalzerebbe così lo schema anacronistico della lezione frontale appare puramente ideologico. Pluridecennali sperimentazioni didattiche d’epoca pre-digitale hanno messo in questione la “frontalità” – operazione che esige, del resto, non meri investimenti, ma una riflessione sui fini dell’educazione e sulla non neutralità degli strumenti, cioè sull’intrinseca capacità di strumenti diversi di prefigurare fini diversi.

Ma i dogmi non si discutono. Nessuno scrupolo sui pericoli a cui bambini e adolescenti sono esposti dalla già massiccia mediazione digitale delle esperienze di vita, a cui “Scuola 4.0” si accoda: riduzione della memoria di lavoro e a lungo termine, dell’empatia e della concentrazione, delle aree cerebrali dell’astrazione e del giudizio etico ecc. Nessuno scrupolo sul fatto che la scuola possa ridursi a luogo di addestramento e applicazione di procedure, anziché essere spazio sociale delle domande di senso, del dialogo, della conoscenza disinteressata, ovvero delle dimensioni fondamentali dell’umano nella sua crescita corporea e mentale. Nessuno scrupolo, infine, sugli opachi interessi commerciali che si soddisfano, anche grazie ai sistemi di raccolta dati sottesi ai canali di produttività e condivisione on-line di Big Tech.

Farsi carico di questi scrupoli richiede oggi davvero una buona dose di eresia, quella che professano le personalità della cultura e gli insegnanti che stanno sottoscrivendo Insegnare contro vento. Per la difesa della relazione educativa dalla “religione del digitale” (https://www.gruppoabele.org/it-schede-1663-insegnare_contro_vento)

* Questo testo, con il titolo di Scuola digitale: i motivi dei prof “contro vento”, è stato pubblicato su “Il Corriere della Sera” del 30 maggio 2023.

“Ansia e registro elettronico” di Lorenzo Morri, Alberto Gualandi e Francesco Genovesi (insegnanti di scuola superiore)

12 Luglio 2023 - di Lorenzo Morri

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A partire dal primo anno scolastico vissuto per intero in regime di pandemia (2020/21), la stampa quotidiana ha cominciato a dedicare uno spazio non trascurabile al tema del disagio giovanile, correlandolo in base ai dati via via emergenti, da un lato, agli effetti su benessere e salute mentale prodotti dalle chiusure, dall’altro alla sempre più massiccia e precoce esposizione al virtuale e alle nuove forme di relazione intessute sui social media. Il progressivo esaurirsi dell’emergenza sanitaria e la cessazione dei confinamenti, a lungo affrontati da bambini e adolesecenti nei propri ambiti centrali d’esperienza (scuola, sport, tempo libero, volontariato ecc.), non ha fatto venir meno questa attenzione pubblicistica, che si è consolidata quasi in nuovo settore della cronaca, a cavallo tra costume e abbozzo di analisi sociale (si veda G. Pierpaoli, «Fuori dai radar». Lo studente dell’era pandemica nel racconto dei media, in L’onda lunga. Gli effetti psicologici e sociali della pandemia, Erickson, Trento, 2023).

A titolo di esempio, l’inchiesta di “Repubblica Bologna” del 19 dicembre 2022 riaccendeva, in coda agli anni delle restrizioni, i fari intorno a un disagio sempre più allarmante, soprattutto all’interno della scuola secondaria superiore. Demotivazione, ansia, attacchi di panico, stati depressivi, rabbie, che sfociano nella discontinuità della frequenza, nei ritiri e nelle bocciature per troppe assenze (circa 67.000 nelle sole superiori, a giugno 2022). A Tutta la città ne parla(Rai Radio3), pochi giorni prima, a partire da alcuni tragici fatti estremi, psicologi e pedagogisti ne avevano già discusso, portando sul banco degli imputati la nostra “società iper-competitiva”, nella quale successo, bellezza e popolarità divengono mete imperative fin da bambini, nello sport, nello studio e nelle cerchie sociali virtuali.

Questi fenomeni chiamano in causa inevitabilmente anche la voce di insegnanti e dirigenti scolastici.

Chi oggi entra in aula sa bene che gli studenti oramai guardano alla scuola non più come a un luogo di scoperte conoscitive e incontro con i coetanei, ma come a un’agenda, fitta di compiti, interrogazioni e verifiche scritte, da affrontare e via via depennare in attesa della conclusione del quadrimestre. Molte sono le ragioni di questa deriva percettiva. Qui richiamiamo l’attenzione sulla funzione di rinforzo giocata dal cosiddetto “registro elettronico” e dal suo perfezionamento come app per smartphone.

Questo strumento era nato con due finalità: 1) dematerializzare il tradizionale registro, nel suo valore di atto pubblico in cui il lavoratore firma la sua presenza e documenta quella degli studenti, il programma svolto e i voti assegnati; 2) creare un’interfaccia tra insegnanti studenti e famiglie, che fornisse servizi didattici e informativi. Tuttavia il “registro elettronico” è diventato molto di più. Per gli studenti è una delle principali app, forse seconda solo a Instagram e Tik Tok, da consultare compulsivamente alla ricerca di aggiornamenti. Aggiornamenti su cosa? Sulla “uscita” dei propri voti. I docenti, infatti, nel caso in cui non enuncino verbalmente gli esiti, possono sempre inserirli on-line successivamente. All’interessato non resterà che monitorare il registro, nell’attesa incerta e spasmodica di apprendere che cosa apparirà sulla ruota del suo destino scolastico.

Ci chiediamo se questo non abbia qualcosa a che fare con l’ansia.

Ma c’è di più. Nelle sue più evolute versioni, elaborate da aziende di software fuori dai binari di qualsivoglia riflessione psico-pedagogica, il registro elettronico tenta, al pari di ogni social media, di anticipare i desideri (le ansie?) dei suoi utenti, contribuendo a forgiarli. Reca in home page, accanto agli appuntamenti della giornata (compiti, interrogazioni, verifiche), l’elenco dei voti “usciti” di recente (bollini rossi per quelli negativi, bollini verdi per i positivi) e, addirittura, un enorme richiamo grafico circolare, al centro del quale campeggia a caratteri cubitali un numero: è il numero della media aritmetica di tutti voti ottenuti dallo studente nel periodo di valutazione in corso (non una media dei voti nelle singole materie, ma una media generale tra tutti i voti!).

Capito? Lo studente di oggi non incontra più una volta ogni tanto il feedback valutativo attraverso la voce dei suoi insegnanti, per poi riceverlo scritto in pagella a fine anno. Oggi, in tutte le circostanze in cui apra il registro elettronico, anche solo per cercare gli esercizi di matematica da svolgere o le pagine di italiano da studiare, egli si imbatterà nella chiara e spietata definizione di identità che la scuola gli rimanda: 8,7, o 6,3, o magari 5,2 o 4,7. A ogni ragazzo un numero. E che gli rimanga ben impresso in mente, in modo che desideri più di ogni altra cosa modificarlo verso l’alto, anche solo di pochi decimali, per stare al passo nella lotta emulativa della vita!

Questo ha forse qualcosa a che fare con l’ansia?

Nella convinzione erronea che il registro elettronico fosse soltanto uno strumento neutro di facilitazione, la scelta in merito alla sua adozione non ha mai coinvolto i collegi dei docenti, organi competenti in materia didattica. Ciò, accanto al problema psico-sociale da noi segnalato, pone anche un problema democratico. Insegnanti e dirigenti hanno ancora la facoltà di proteggere ed emancipare la relazione educativa dalle distorsioni più macroscopiche indotte dalla rivoluzione digitale, oppure sono tenuti a cantare sempre e comunque “le magnifiche sorti e progressive” del mondo del web, levandosi il cappello e ringraziando per i prodotti che le software house rilasciano?

*Questo testo, in forma leggermente ridotta, è stato pubblicato con il titolo Il registro on-line consultato come Tik Tok su “Repubblica Bologna” del 4 gennaio 2023

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