Che idea dell’Italia?

Rischiamo tutti, credo, di giudicare questo governo solo per il “peccato originale” da cui nasce: una manovra di Palazzo, parzialmente pilotata dalle autorità europee, volta a impedire con tutti i mezzi che si ritorni al voto. Non è una novità: quando il popolo rischia di fare la scelta sbagliata, i “sinceri democratici” fanno di tutto per aiutare il popolo a non sbagliare. E la via maestra è sempre quella: impedire il voto.

Ma concentrarci sulla genesi di questo governo è sterile. Dopotutto, cosa fatta capo ha. Molto più importante, arrivati a questo punto, è capire che cosa questo governo ha in serbo per noi. Quali sono le sue priorità. Ma soprattutto: qual è l’idea dell’Italia che lo ispira? Qual è la diagnosi delle esigenze del Paese che guiderà le sue scelte?

Perché se prevedere che cosa esattamente farà è praticamente impossibile, capire qual è la sua visione dei problemi dell’Italia non è troppo difficile. E’ vero che il programma in 29 punti è estremamente generico, confuso, e completamente privo di ipotesi su come trovare le risorse per fare le innumerevoli cose che si vorrebbero fare. Però proprio quella congerie di impegni generici, alla fine, un’idea dell’Italia la trasmette.

Quale idea?

L’idea sembra questa: il problema dell’Italia sono le diseguaglianze economico-sociali. Ci sono decine di categorie che meriterebbero un sostegno e un aiuto. Il problema centrale, dunque, è un problema di redistribuzione. Sono segnali di questa visione dell’Italia le proposte più incisive del programma: riduzione del costo del lavoro ad esclusivo vantaggio del lavoratore; salario minimo a 9 euro; “giusto compenso” per i lavoratori autonomi. Proposte cui si aggiungono una miriade di spese a sostegno di gruppi, categorie e settori più o meno particolari.

Le conseguenze effettive della stragrande maggior parte di queste misure sono tre: più  debito pubblico, maggiori costi per le imprese, ulteriore riduzione dei posti di lavoro regolari.

Ma è fondata l’immagine dell’Italia che guida questa diagnosi e questi rimedi?

In un certo senso sì. Se davvero si pensa che il problema cruciale dell’Italia sia la redistribuzione della ricchezza, e inoltre si aderisce alla filosofia della “decrescita felice”, più volte invocata dai grillini (ed esplicitamente sottoscritta da uno dei ministri del nuovo governo), allora non è un problema il fatto che l’aumento dei costi per le imprese distrugga occupazione e riduca la torta del Pil: avremo tutti sempre meno  ricchezza, ma almeno – grazie al saggio intervento dello Stato – sarà distribuita in modo più equilibrato. Nel momento in cui la decrescita non è un tabù, anzi magari è diventato un risultato desiderabile, l’assistenzialismo va benissimo.

Se però si pensa che, per fare le mille cose di cui si dice esservi assoluto bisogno, dalle nuove infrastrutture al potenziamento della scuola e della sanità, ci vogliono più risorse, molte di più di quelle di cui disponiamo oggi, allora l’assoluta mancanza di proposte incisive per rendere meno difficile fare impresa (e creare occupazione) diventa un problema serissimo. Il fatto che la riduzione del cuneo fiscale vada tutta in busta paga, senza incidere sui costi dell’impresa, è un segnale preoccupante. Come è preoccupante che si parli di salario minimo a 9 euro, un livello che molte imprese (specie al Sud) non si potrebbero permettere. Ed è ancora più preoccupante che non una parola venga spesa sul flop del reddito di cittadinanza, fin qui capace di elargire un reddito, ma del tutto incapace di offrire un lavoro.

La realtà, temo, è che la diagnosi di questo governo confonde le cause con gli effetti. E’ vero, molti stipendi e salari in Italia sono troppo bassi, ma la ragione per cui lo sono è solo in minima parte l’avidità e la mancanza di scrupoli di alcuni datori di lavoro. La vera ragione è che la nostra produttività è bassa e, caso unico nel mondo sviluppato (insieme a quello della Grecia), è ferma da venti anni. Pensare che le cose possano andare a posto alzando le retribuzioni della minoranza che ha già un lavoro, senza aver prima disboscato l’immane rete di tasse e adempimenti che soffocano i produttori, è una pericolosa illusione.

Capisco che l’idea possa piacere agli ideologi della decrescita felice, e sia perfettamente in linea con la visione del mondo dei grillini. Capisco di meno che se la stia facendo piacere il Pd, un partito che fino a poche settimane fa ancora non aveva preso congedo dalla cultura del lavoro, e anzi proprio su questo punto orgogliosamente rivendicava la propria diversità dai Cinque Stelle.

Pubblicato su Il Messaggero del 7 settembre 2019



Il ritorno “emozionale” degli elettori 5 stelle

Gli umori sono dunque un po’ cambiati, da inizio estate ad oggi. Allora, il vissuto emozionale degli italiani, divenuto ormai il vero traino delle opinioni e degli orientamenti di voto, era ben saldamente ancorato al Capitano leghista. Reduce dal buon successo elettorale alle europee, con un incremento di quasi 3,5 milioni di voti in un solo anno, e dall’effetto “bandwagon” che ne era derivato, il mese di luglio aveva rappresentato per Matteo Salvini il momento più elevato del suo consenso e, di conseguenza, di quello del suo partito, che alcuni ipotizzavano prossimo al 40% dei voti validi, laddove il suo credito di fiducia personale superava addirittura la metà di tutto l’elettorato. Come dire che almeno un italiano su due, che volesse andare a votare o che volesse astenersi, giudicava positivamente l’operato del leader della Lega.

Cifre da capogiro, che potrebbero far perdere la testa a chiunque (come peraltro è capitato allo stesso Renzi) e che possono indurre in tentazione anche il più moderato uomo politico, figuriamoci uno che tanto moderato non lo è di suo. E la tentazione di monetizzare tutto e (quasi) subito gli ha forse fatto commettere un errore, sottovalutando la reazione quasi pavloviana da parte del resto della classe politica, di fronte alla insistita richiesta di “pieni poteri” per guidare il nostro paese.

Tutti gli altri si sono velocemente ribellati; Conte se ne è uscito con la miglior performance comunicativa della sua vita, attaccando Salvini in profondità e con cognizione di causa e appellandosi all’altra metà dell’Italia, quella che non stravede per il leader leghista; il Partito Democratico, insieme a molti pentastellati, ha ricominciato a pensare ad un futuro meno legato alla risoluzione dei propri litigi interni e più vicino ai bisogni del paese.

E’ bastato questo, sono bastati questi piccoli avvenimenti quotidiani per cambiare l’umore di una parte significativa della popolazione. Salvini, a giudicare dai sondaggi pubblicati recentemente, ha perso quasi il 15% di giudizi positivi nei suoi confronti; la Lega si è alienata un 5-6% dei suoi potenziali elettori di luglio; il Movimento 5 stelle ha recuperato una fetta importante dei suoi precedenti estimatori, nonostante Di Maio che invece appare ancora in sofferenza nei giudizi nei suoi confronti.

Se non è emozione pura questa, senza troppa razionalità né profondità di pensiero, quali altre occasioni dobbiamo aspettarci per prenderne definitivamente atto? Nel confronto con il voto politico dello scorso anno, il tasso di fedeltà al M5s era intorno al 30-35% fino a luglio, mentre oggi supera nettamente il 50%: come dire che l’emozione vale almeno il 20% dei consensi, il sentimento di ritrovata centralità nel gioco politico fa riacquistare fiducia in una forza politica che, fino ad un mese fa, era giudicata quasi in via di estinzione, destinata forse a non superare il 10% in caso di elezioni anticipate.

Per non pensare a cosa accadrà se l’ipotesi di governo M5s-Pd non andrà poi a buon fine. Nuove emozioni sanciranno un drastico ripensamento della fiducia in queste due forze politiche, e si ritornerà con Salvini trionfante e Giorgia Meloni in netta ascesa nei giudizi degli italiani. La volatilità di pensiero è forse ciò che più contraddistingue questi nostri tempi non propriamente felici, come giustamente sottolinea Luigi di Gregorio nel suo recente saggio “Demopatìa”.




Tre false credenze

Comunque la si pensi, e quale che sia l’atteggiamento di ciascuno verso questa crisi di governo, credo sarebbe meglio non ingannarci su quel che è successo, e su come stanno effettivamente le cose. Dico questo perché uno degli effetti di questa crisi a me pare il consolidamento di credenze false. Soprattutto tre.

La prima credenza è che le cose siano andate come sono andate perché Salvini ha sbagliato i tempi: doveva aprire la crisi prima, subito dopo le Europee. La realtà, invece, è tutta un’altra. La ragione per cui l’apertura della crisi, anziché portarci alle elezioni, ha generato un governo rosso-giallo, è semplicemente che il livello di spregiudicatezza e di opportunismo del ceto politico ha superato il livello di guardia. Vale per Zingaretti, che ha sempre detto che bisognava tornare al voto, e vale per Renzi, che ha sempre detto “mai con i Cinque Stelle”.

La cosa interessante è che, almeno a mia conoscenza, non esiste un solo giornalista, studioso, politico o osservatore che, nell’epoca in cui Salvini veniva quotidianamente invitato a staccare la spina, abbia ipotizzato che Salvini non avesse affatto il coltello dalla parte del manico, perché i parlamentari non avrebbero accettato di farsi mandare a casa prima di aver maturato la pensione. Prima di rimproverare Salvini per la sua imprudenza, dovremmo rimproverare noi stessi per la nostra ingenuità.

La seconda credenza è che l’alleanza fra Pd e Cinque Stelle sia contro natura, una sorta di mostro politico, come in effetti lo era l’alleanza fra Cinque Stelle e Lega. No, non lo è. Non solo perché da tempo una parte del popolo di sinistra vota Cinque Stelle, o guarda ai Cinque Stelle con simpatia e interesse, ma perché su tantissimi e decisivi punti, dal salario minimo al reddito di cittadinanza, le rispettive idee convergono. E la ragione è molto semplice: nel Pd convivono una minoranza modernizzatrice, riformista e garantista, e una maggioranza statalista, assistenziale e giustizialista. L’alleanza con i Cinque Stelle si limita a dare ancora più spazio a tale maggioranza e a mettere ancora più nell’angolo la minoranza (per convincersene, basta leggere la bozza di programma di governo che circola in questi giorni). Ma forse sarebbe più esatto dire: con la capriola di Renzi la minoranza riformista non c’è più, come testimonia il fatto che due sole persone (Calenda e Richetti) abbiano preso le distanze dall’alleanza con i Cinque Stelle. La credenza che Pd e Cinque Stelle siano due forze politiche molto diverse poggia solo sugli insulti che si sono scambiati fin qui.

C’è una terza credenza falsa che sta prendendo piede negli ultimi tempi, e cioè che esista in Italia una ampia maggioranza di elettori che vorrebbero un governo di centro-destra, e che il ribaltone di questi giorni avrebbe tradito. La maggioranza di centro-destra probabilmente c’è, a giudicare dalle elezioni europee e dai sondaggi. Ma non è ampia, e tantomeno schiacciante. Schiacciante è solo la maggioranza di centro-destra che, stante l’attuale legge elettorale, si formerebbe in Parlamento. Il tradimento c’è stato, ma è stato innanzitutto un tradimento degli italiani, del diritto dei cittadini a far sentire la loro voce attraverso il voto, in un momento in cui c’è una sola cosa certa: il Parlamento che, per conservare sé stesso, si appresta a far nascere il governo rosso-giallo, non riflette minimamente la distribuzione dei consensi nel Paese.

Una cosa sola, forse, ci può regalare un’amara (e paradossale) consolazione. Allo stato delle cose, né il blocco di centro-destra, né il nascente blocco di centro-sinistra, sarebbero in grado di offrire agli elettori una sintesi, ossia una visione chiara e coerente del futuro, che non nasconda il prezzo che ogni politica porta con sé. Il centro-destra è diviso e irrisolto sul rapporto con l’Europa, il centro-sinistra ha già delineato un programma in cui la fanno da padroni vaghezza, demagogia, e politiche di spesa senza coperture.

In queste condizioni avremmo tutto il diritto di tornare alle urne ma, forse, dovremmo imparare a farlo con una nuova certezza: il nostro voto conta quasi nulla, perché sono ormai pochissimi, ammesso che ve ne siano ancora, i leader politici che si sentono impegnati a tener fede alle solenni dichiarazioni con cui cercano di strapparci il voto.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 31 agosto 2019



Il semaforo della crisi

E così, dopo 15 mesi di governo giallo-verde, ne avremo non si sa quanti di governo giallo-rosso: il semaforo della crisi tiene fermo il giallo, e prova a sostituire il verde-Lega con il rosso-Pd.

Il ragionamento del neo-segretario Zingaretti, illustrato ieri nella Direzione del partito, si snoda intorno a due passaggi fondamentali.

Il primo è un comprensibile, quanto poco convincente, sforzo di allontanare ogni sospetto di opportunismo. Una excusatio non petita che si nutre di affermazioni come: “un Governo non può nascere sulla paura che qualcun altro vinca la elezioni” (ah no? la paura che Salvini stravinca le elezioni non vi tange?), dobbiamo “evitare ogni accusa di trasformismo e opportunismo” (e come farete, visto che fino a ieri escludevate solennemente qualsiasi accordo con i grillini?); “non siamo quelli pronti a manovre di Palazzo” (e cos’altro sta accadendo in queste ore, nel Palazzo della politica?).

C’è poi il secondo snodo, che in sostanza è una richiesta martellante e ripetuta di “forte discontinuità” rispetto “all’esperienza del governo uscente”. La richiesta, ovviamente, è rivolta ai superstiti del governo uscente, che non hanno alcuna intenzione di uscire come ha fatto Salvini, e contano precisamente sul Pd per rientrare. Messa così, parrebbe un aut-aut ai Cinque Stelle: o voi fate autocritica, e promettete di non fare più i populisti, oppure noi, che il voto lo temiamo meno di voi, vi abbandoneremo al vostro destino.

Arrivati a questo punto il paziente lettore della relazione di Zingaretti si aspetterebbe, come minimo, un’indicazione su quali dovrebbero essere, secondo il Pd, i capisaldi dell’azione del nuovo governo, a partire dalla “mostruosa manovra di bilancio che occorre fare”. Stabilito che, per non far scattare l’aumento dell’Iva, si tratta di reperire almeno 23 miliardi, più altri 7 di spese varie e indifferibili, ed escluso che lo si possa fare in deficit (altrimenti addio discontinuità), saremmo tutti curiosi di sapere dove il Pd pensa di poter reperire i 30 miliardi che occorrono. Nuove tasse? tagli alla sanità? sforbiciata alle agevolazioni fiscali? soppressione di quota 100? soppressione del reddito di cittadinanza?

Non è dato sapere. Invece di fornirci questa preziosa informazione, la relazione di Zingaretti si avventura in una elencazione di cinque richieste tanto perentorie quanto vaghe: “l’appartenenza leale all’Unione Europea, per un’Europa profondamente rinnovata”; “il pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa”; “l’investimento su una diversa stagione dello sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale”;  “una svolta profonda nell’organizzazione e gestione dei flussi migratori”; “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva”.

Di questi cinque punti, i primi tre (Europa, democrazia rappresentativa, diversa stagione dello sviluppo) sono puro fumo politichese: detti così, troverebbero d’accordo chiunque. Gli ultimi due sono invece inquietanti.

La richiesta di una svolta nelle politiche migratorie elude il problema principale di questi anni: che è di garantire l’accesso in Europa a chi ne ha diritto, senza mandare segnali che non possono non alimentare il traffico di esseri umani. E’ sconfortante che Salvini abbia sostanzialmente risolto il secondo aspetto del problema (disincentivare il business dei naufragi), facendo finta che il primo (diritti dei profughi) non esista. Ma è ancora più sconfortante che chi vuole una discontinuità, il problema manco lo veda, o peggio abbia in mente di invertire l’equazione migratoria, come se esistesse solo il primo aspetto (profughi) e non il secondo (traffico di esseri umani). Difficile non pensare che quel che si vuole, in realtà, sia un ritorno alla stagione dell’accoglienza caotica degli anni pre-Minniti, tanto più che lo sponsor principale dell’alleanza con i Cinque Stelle è Renzi, che di quella stagione si è sempre dichiarato fiero.

Quanto all’ultimo punto, l’invocazione di “nuove ricette economiche e sociali in chiave redistributiva e di attenzione al lavoro, all’equità sociale, territoriale, generazionale e di genere”, quel che è inquietante non è tanto la genericità, quanto l’analisi che sembra starle dietro. Un’analisi che si ostina ad attribuire lo stallo del Paese a questa mediocre esperienza di 15 mesi, come se l’Italia non fosse già in stagnazione quando Conte è diventato presidente del Consiglio, e come se negli anni in cui al timone c’era il Pd i nostri conti pubblici fossero in ordine. Ma, soprattutto, un’analisi che ripropone, per l’ennesima volta, la solita diagnosi sui mali del Paese, una diagnosi in cui il problema cruciale – ancora una volta – non è di metterci in condizione di produrre nuova ricchezza, ma è di redistribuire quella che già c’è, finché ce n’è.

Il fatto è che su un punto Zingaretti ha perfettamente ragione: ci vuole una discontinuità radicale rispetto al passato, perché il passato è fatto di demagogia, ricerca ossessiva del consenso, rimozione dei problemi del paese, dilazione delle decisioni difficili. Ma quel passato, bisognerebbe avere l’onestà di riconoscerlo, è il passato comune del nostro ceto politico, non il lascito esclusivo dell’ultima breve stagione di governo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero il 22 agosto 2019



La sagra dell’ipocrisia

Ancora una settimana fa pareva certo che, avendo Salvini annunciato l’intenzione di sfiduciare Conte, il governo sarebbe caduto nel giro di pochi giorni, e noi saremmo andati al voto nel giro di pochi mesi. Questa certezza, condivisa dalla stragrande maggioranza degli osservatori (me compreso), si basava su una credenza che si è improvvisamente rivelata errata: e cioè che, non essendovi in Parlamento alternative all’attuale governo, Salvini avesse il coltello dalla parte del manico. Era lui, e soltanto lui, che poteva decidere se far proseguire la legislatura o interromperla. E in entrambi i casi ne avrebbe avuto un vantaggio: andando al voto avrebbe raddoppiato i consensi, restando al governo avrebbe potuto dettare le condizioni all’alleato Cinque Stelle, timoroso di andare al voto e dimezzare i consensi.

Ora sappiamo che le cose stanno diversamente. Una maggioranza alternativa c’è, è il tridente Pd-Cinque Stelle-Leu. Non possiamo sapere se riuscirà ad accordarsi su un programma e a formare un governo, ma sappiamo che l’eventualità è all’ordine del giorno. E’ persino possibile che il nuovo governo duri fino al 2023, e che sia quindi questo Parlamento ad eleggere il prossimo presidente della Repubblica.

Dunque Salvini è all’angolo. La situazione, che sembrava rosea per lui, si è fatta repentinamente nera. Perché se facesse cadere il governo, i Cinque Stelle potrebbero rispondere alleandosi con il Pd. Mentre se rinunciasse a sfiduciare Conte, a parte la figuraccia, si verrebbe a trovare nella classica situazione dell’anatra zoppa: nelle nuove condizioni sarebbero i Cinque Stelle ad avere il coltello dalla parte del manico.

Situazione curiosa. E’ come se fosse resuscitato Bettino Craxi, ma con il triplo dei voti. Che cos’è, infatti, la condotta di Di Maio, se non la riedizione dell’eterna politica dei due forni? Allora Craxi poteva, a seconda del contesto, scegliere fra Dc e Pci, ora Di Maio non sembra farsi alcun problema a passare dall’alleanza (pardon: ‘contratto’) con la Lega a un possibile contratto con il Pd, magari grazie ai buoni uffici dell’estrema sinistra, che su diversi punti (politica economica e regole europee in particolare) è più vicina ai Cinque Stelle che al Pd.

Come è stato possibile tutto questo? E per di più in meno di una settimana?

Da qualche giorno, molti stanno notando che Salvini ha clamorosamente sbagliato i tempi: se voleva andare al voto, doveva farlo subito dopo le Europee, e comunque non in agosto, con la spada di Damocle di una sovrapposizione – a novembre – fra Legge di Bilancio e procedure di insediamento del nuovo governo.

Alla luce di quel che sta capitando, e soprattutto del modo istantaneo in cui si è delineato l’asse Pd-Cinque Stelle, mi sto convincendo invece che lo spettacolo cui assistiamo in questi giorni lo avremmo avuto comunque, anche se Salvini avesse sfiduciato Conte uno o due mesi fa. E sto pensando che chi, come me, guarda la politica dall’esterno, attribuendole ancora qualche sia pur debole, circoscritto e remoto movente ideale, ha clamorosamente sottovalutato un fattore cruciale: l’attaccamento al seggio dei parlamentari, una forza formidabile che li rende disponibili ad astrusi “ripensamenti” politici non appena se ne presenti la convenienza.

Non saprei spiegare altrimenti quello che oggi sconcerta tanti elettori. E cioè che i parlamentari renziani, che ingenuamente ci eravamo abituati a percepire come la garanzia che in questa legislatura non avremmo visto un’alleanza Pd-Cinque Stelle, ora si mostrino pronti a rinnegare le scelte fatte fin qui (a partire dall’opposizione alla demagogica riforma che riduce il numero di parlamentari) pur di evitare il voto e la perdita del seggio, che sanno a rischio con il neo-segretario Zingaretti. E che, specularmente e con il medesimo scopo di non perdere i seggi conquistati, il Movimento Cinque Stelle, che aveva fatto quadrato a difesa di Salvini sul caso Diciotti, ora – di fronte al caso della nave Open Arms – capovolga le sue posizioni sulla politica migratoria, pur di attaccare il ministro dell’Interno, passato nella categoria dei nemici.

Alla fine, quel che resta di tutta questa vicenda è l’amarezza per il modo spudorato e ipocrita con cui questi cambi di linea politica ci vengono raccontati, sempre invocando la responsabilità, il senso delle Istituzioni, il bene del Paese, la volontà del popolo, i pericoli per la democrazia. La realtà, purtroppo, è molto più semplice del racconto che i politici tentano di cucirle addosso: Salvini al voto ci vuole andare perché pensa di raddoppiare i seggi, Di Maio e Renzi, perfetti eredi del trasformismo ottocentesco, al voto non ci vogliono andare perché di seggi ne perderebbero troppi.

Pubblicato su Il Messaggero del 17 agosto 2019