La tragedia del MES

Credo che, sulla questione della riforma del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità), sia essenziale tenere distinte tre domande.

Domanda 1: è pericoloso per l’Italia? O meglio: l’Italia, con il nuovo MES, corre più o meno rischi che con il vecchio?

Ebbene, qui la mia riposta è netta. Prima di leggere il testo non ero eccessivamente preoccupato, dopo averlo letto attentamente lo sono moltissimo. Il trattato è pericoloso per l’Italia, e aumenta il rischio di una crisi finanziaria che ci costringa a una pesante “ristrutturazione del debito” (eufemismo per non dover dire: perdite patrimoniali e relativa catena di conseguenze). Questo giudizio non è solo dell’opposizione ma è condiviso da numerosi politici e tecnici di sicura fede europeista e progressista, che hanno messo in evidenza i molti punti deboli dell’accordo: dall’eccesso di potere del MES (a scapito della Commissione Europea) alla pericolosità delle Clausole di Azione Collettiva (le cosiddette CACs) che dal 2022 renderanno più facile costringere gli Stati a ristrutturare il debito, per non parlare dello scudo penale a favore dei membri del MES (articoli 32 e 35 del trattato).  A minimizzare più o meno convintamente i rischi restano solo l’ex ministro Tria (che ha negoziato le modifiche), il ministro Gualtieri (che ha ereditato la patata bollente), la maggioranza degli esponenti del Pd, nonché i più acritici fra gli “europeisti a prescindere”.

Domanda 2: di chi è la colpa se ci troviamo in questa situazione, ossia a dover firmare un trattato che ci danneggia?

A mio parere la colpa principale è del governo giallo-verde, anche se la ripartizione delle responsabilità fra Conte-Tria-Salvini-Di Maio è impossibile da valutare per un osservatore esterno come me (se volessi scoprirlo proverei a sapere qualcosa da Giorgetti). L’idea che mi sono fatto è più o meno questa. Tria negozia quel che può, e non può molto perché il governo vuole flessibilità, e non può certo permettersi la procedura di infrazione per debito eccessivo. Poi dice a Conte (che è un avvocato, e di economia non si intende) che è un buon accordo. Conte non spiega a Salvini e Di Maio che, in realtà, quel che lui e Tria stanno negoziando – oltreché bruttino –  è quasi definitivo. Salvini e Di Maio, che preferiscono i bagni di folla (gratificanti) allo studio dei dossier (noiosissimi), fra un comizio e un salto in discoteca non si rendono conto né di quel che sta passando, né del fatto che quel che sta passando è sostanzialmente irreversibile. Personalmente sono più arrabbiato con Salvini e Di Maio che con Tria.

Domanda 3: e adesso? Adesso che l’Eurogruppo, nella riunione di ieri, ha detto chiaramente che il testo del trattato è sostanzialmente inemendabile, che cosa dovrebbe fare l’Italia?

La mia risposta è: non lo so. Perché ci sono gravi rischi sia se si rifiuta di firmare il trattato, sia se lo si accetta. In entrambi i casi la nostra vulnerabilità alla speculazione e alle crisi finanziarie è destinata ad aumentare considerevolmente.

C’è una domanda, però, cui mi sento di abbozzare una risposta. La domanda non è “che cosa dobbiamo fare?” ma “che cosa effettivamente faranno i nostri politici?”.

Ed ecco la mia previsione. Conte e Gualtieri pregheranno in ginocchio l’establishment europeo di concedere almeno una piccola modifica al trattato, in modo da consentire al governo giallo-rosso di salvare la faccia e farlo approvare in Parlamento (già si parla di eliminare, attenuare o ritardare l’entrata in vigore della cosiddette CACs, ossia delle clausole che – dal 2022 – renderanno più facile la ristrutturazione del debito). Le autorità europee concederanno qualche ritocco marginale, e magari qualche promessa sugli altri due tasselli del pacchetto che include il MES (unione bancaria, budget europeo).

Il governo rassicurerà gli italiani, dicendo che già avevamo ottenuto molto (nel testo attuale la ristrutturazione del debito non è automatica), e abbiamo ancora “migliorato” il trattato che era stato chiuso a giugno. Poi l’attività di governo riprenderà, con questo o con altro governo. Ma chiunque prenderà il timone della politica economica continuerà sulla strada di sempre: richiesta di flessibilità, deficit tra il 2 e il 3%, nessuna sostanziale diminuzione del rapporto debito/Pil. Perché su una cosa destra e sinistra, giallo-rossi e giallo-verdi sono sempre d’accordo: il risanamento dei conti pubblici, ossia l’unica cosa che ci metterebbe al riparo da crisi future, “è un obiettivo strategico”. Così strategico che ci penseremo domani, anzi ci penseranno quelli che verranno dopo di noi.




MINIMA POLITICA. Ora anche i sovranisti si mettono a fare gli antirisorgimentali

«Non si dimentichi, inoltre, che l’Unità d’Italia venne imposta con le armi, e non è considerazione di poco conto, e ben più della maggioranza degli abitanti dell’Italia pre-unitaria non la voleva affatto». Sono settant’anni che leggo frasi come queste in cui dà il meglio di sé l’attitudine italiana a épater les bourgeois avvalendosi di constatazioni ovvie. Nelle altre culture lo stupore si accompagna al trasgressivo, a verità che non sono tali per tutti ma, si sa, come diceva il vecchio Indro Montanelli, noi vogliamo fare la rivoluzione col permesso dei carabinieri. C’è però una grossa differenza rispetto al passato. Al tempo della mia giovinezza, a ripetere le celeberrime parole di Alfredo Oriani (maître-à-penser, si ricordi sia di Benito Mussolini che di Antonio Gramsci) sul sopruso della minoranza eroica che, nell’indifferenza dei popoli della penisola, fece l’Italia «aiutata da incidenze e coincidenze straniere», erano soprattutto gli eredi dei vinti del Risorgimento—comunisti e cattolici. E’ vero che non tutte le sinistre erano, si direbbe oggi,’revisioniste’—c’è un vario socialismo risorgimentale e mazziniano che arriva sino a Gaetano Salvemini e a Leonida Bissolati; ed è anche vero che, nel mondo cattolico, una componente di rilievo—il cui più prestigioso esponente, nel secolo scorso, fu Carlo Arturo Jemolo—si riconosceva  toto corde nei valori dello stato nazionale. D’altra parte, senza l’apporto decisivo della borghesia colta cattolica non avremmo avuto l’unità ed è, forse, superfluo ricordare che grandi statisti come Massimo D’Azeglio, Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e lo stesso Cavour che volle per il viatico un francescano, poi condannato da Pio IX, erano credenti. Resta, comunque, che i comunisti erano patrioti di un’altra patria (l’URSS) e i cattolici si sentivano eredi di uno Stato che la Chiesa non aveva riconosciuto.

 Oggi le cose sono cambiate. Paradossalmente è tra quanti si chiedono «per quale oscura ragione di diritto internazionale dobbiamo mettere il nostro ambito legislativo in posizione subordinata al diritto europeo e chiedere il nulla osta preventivo prima di decidere delle nostre questioni interne?» che si ritrova, spesso e volentieri, la demistificazione dello stato nazionale. In realtà non si comprende quale giovamento ne venga alla nostra civic culture e su quali valori i ‘sovranisti’ intendano ricostituire una citizenship condivisa. Abbattuti i monumenti a Cavour, a Mazzini, a Garibaldi, cancellate le tradizioni e gli ideali di chi volle farci diventare «una d’arme, di lingua e d’altare, di memorie di sangue e di cor» (Alessandro Manzoni, un cattolico unitario risorgimentale…), cosa ci rimane? Prevedo l’obiezione: dovremmo reintrodurre la retorica nel nostro insegnamento della storia? E trattare il Risorgimento nazionale come l’ANPI tratta la Resistenza antifascista? Ma neppure per sogno! Il processo che portò al ricongiungimento delle sparse membra della penisola fu, sia pur assai meno della lotta di Liberazione, costellato di contrasti, di violenze, di dure opposizioni sul tipo di stato (centralizzato o federale) che si sarebbe dovuto sostituire alla Staaterei preunitaria. E tuttavia la storia va studiata seriamente e la storia ci dice che se i modelli politici, vagheggiati dalle diverse correnti patriottiche, furono diversi, c’era qualcosa di profondo che le univa tutte: un fortissimo sentimento d’italianità, che rifulge nettamente persino nel più intransigente oppositore della soluzione sabauda, il federalista a 360 gradi Carlo Cattaneo (basta leggersi i due volumi degli Scritti letterari, a cura di Piero Treves, ed. Le Monnier).

 Il problema, però, è un altro: quando si scrive, come faceva Oriani, che il popolo rimase estraneo (se non ostile) alle guerre di indipendenza, bisogna, perché l’osservazione abbia un senso, fare del comparativismo. La ‘costruzione dello Stato’, in altri contesti europei, avvenne consultando le popolazioni interessate?’I trenta re che fecero la Francia’, per citare il grande Charles Maurras, chiesero il consenso dell’Anjou, del Cotentin, della Provence? E i monarchi inglesi tennero conto dei desideri di gallesi, irlandesi, scozzesi quando ne fecero gemme della loro corona? E ci sono Stati in Europa che fecero eccezione?

 Si dirà: ma allora non erano i popoli a decidere bensì i sovrani. Certo, in ogni epoca storica sono determinate forze politiche ad assemblare regioni, province, città: la democrazia, come potere del demos, è venuta dopo. D’accordo ma la regola vale altresì per l’Ottocento, e per quello italiano in particolare, in cui a ‘fare politica’, a guidare i popoli, erano le borghesie nazionali e le loro avanguardie intellettuali. Ebbene si può contestare che la stragrande maggioranza di quelle borghesie—anche grazie alla stagione illuministica, che segnò una grande pagina della nostra storia intellettuale e alla conquista francese, che ci diede il tricolore—era per l’unità, per la Grande Italia? Nel meridione—a parte qualche piccolo storico locale nostalgico dei Borboni—l’alta cultura era quasi tutta schierata dalla parte dei Savoia (e, tra l’altro, non proponeva soluzioni federali ma uno stato forte e centralizzato in grado di mettere mano ai mali antichi del Sud). Nel centro e nel nord sentirsi italiani significava sentirsi moderni e volersi ricongiungere all’Europa vivente. Letteratura, arte, storia, filosofia non conoscevano frontiere e la lingua era un potente argomento per quanti volevano che le frontiere culturali coincidessero con quelle politiche. «Unità imposta con le armi?» Vulimme pazzià´? come si direbbe a Napoli. E il fenomeno del volontariato—che univa nelle stesse formazioni combattenti abitanti di ogni parte della penisola—non era la riprova che le ‘minoranze eroiche’ erano, sì, minoranze (nel senso che contadini e plebi urbane rimanevano a guardare le loro gesta, ma per gli artigiani si dovrebbe fare un discorso diverso) ma diffuse sull’intero territorio nazionale?

 A scuola una volta ci mettevano in guardia contro gli anacronismi. Anacronismo, si legge nell’Enciclopedia Treccani è l’« errore cronologico per cui si pongono certi fatti in tempi in cui non sono avvenuti e, in special modo, si attribuiscono a un’età istituti, idee o costumi discordanti dal quadro storico di essa». La sua proliferazione è, forse, la più triste riprova di quella perdita della storicità, che fu il portato più prezioso del liberalismo ottocentesco. Ricordare che l’unità italiana è stata fatta senza il consenso delle masse sta sullo stesso piano dell’abbattimento delle statue di Cristoforo Colombo, colonizzatore e razzista. Sulla bocca di un sovranista è a dir poco sconcertante!




L’anima del Pd

Siamo in molti, credo, a chiederci che cosa sia saltato in mente a Zingaretti qualche giorno fa, quando ha compiuto due mosse che un po’ tutti abbiamo percepito come collegate. La prima è stata di ingiungere al governo di “trovare un’anima”, con ciò confermando la diagnosi che il mondo progressista ripete come un mantra da settimane: questo governo sarà pure necessario, in quanto unico argine possibile contro il razzismo (?), il fascismo (!) e l’aumento dell’Iva (?!), ma è innegabile che un’anima non ce l’ha; e dunque se la dia, se vuole sopravvivere.

Ma l’esortazione di Zingaretti non avrebbe suscitato tanta attenzione se non fosse stata accompagnata dall’impegno, preso a nome del Pd, di tornare a battersi per lo ius soli e lo ius culturae, ovvero per allargare le maglie della concessione della cittadinanza agli stranieri.

Difficile non fare 2 + 2 e intendere che, in realtà, l’esortazione a darsi un’anima, più che al governo, fosse rivolta al Pd, che quasi tutti gli osservatori descrivono come un partito confuso, disorientato, alla ricerca di un’identità o, appunto, di un’anima. E infatti il primo a lanciarsi, piuttosto entusiasticamente, sulla proposta di Zingaretti (in particolare sullo ius culturae) è stato Luigi Manconi, che giusto 10 anni fa aveva scritto un libro con un titolo significativo (Un’anima per il Pd) e un sottotitolo ancor più significativo (La sinistra e le passioni tristi). Dunque siamo al punto di partenza: al Pd mancava un’anima quand’era piccino (il libro di Manconi è del 2009) e manca un’anima pure oggi che è grandicello. I suoi sostenitori esigono, giustamente dal loro punto di vista, che questa benedetta anima venga “trovata”, e Zingaretti ci prova. Annuncia che il Pd darà battaglia su ius soli, ius culturae e decreti sicurezza.

Io non so perché Zingaretti abbia scelto di percorrere questa strada, tutta pro-migranti e così poco sensibile alle priorità dei ceti popolari. Può darsi che abbia ragione Federico Rampini che qualche giorno fa, in un dibattito televisivo, manifestava tutto il suo sconcerto di fronte alle esternazioni zingarettiane: il Pd, ormai, ascolta solo il mondo radical chic, e pare del tutto dimentico delle sue origini (il Partito comunista “era legge e ordine”, altroché buonismo e permissivismo). Ed è certo che questa evoluzione era stata immaginata fin dagli anni ’70 dal grande filosofo Augusto del Noce, che profetizzava una progressiva trasformazione del Pci, il “partito della classe operaia”, in un “partito radicale di massa”, attento alle esigenze e alla sensibilità degli strati alti e medio-alti della popolazione.

E tuttavia, pur essendo fra quanti, non da ieri ma da qualche decennio, hanno registrato questa deriva, per cui i diritti sociali (a partire dal lavoro) cedono il passo a quelli civili (le “grandi battaglie di civiltà”, dalle unioni gay alla fecondazione assistita, dalla cittadinanza all’eutanasia), non riesco a nascondere il mio stupore. Perché quel che è strano non è che il Pd cerchi di dotarsi di un’anima, ma che – per farlo – si ispiri ai salotti della borghesia illuminata e alle credenze dei media progressisti, anziché alle esigenze e ai sentimenti dei ceti popolari. Quel che è strano è che, di fronte alla domanda di protezione che, da anni, si leva dagli strati periferici della società italiana, il maggiore partito della sinistra preferisca sintonizzarsi con le priorità degli strati sociali centrali, fatti di persone istruite, urbanizzate, benestanti.

Perché?

Augusto del Noce direbbe, forse: perché era inevitabile. La trasformazione del Pci in partito radicale di massa altro non è che l’esito finale del lungo cammino che, in mezzo secolo, ci ha resi una società opulenta e profondamente individualista. Del resto, la mutazione non è avvenuta solo da noi: che i partiti progressisti rappresentino soprattutto gli strati medio-alti, e che i ceti popolari guardino più a destra che a sinistra, non è un tratto distintivo dell’Italia, ma è una circostanza che è possibile ritrovare nella maggior parte delle società avanzate. Perché stupirsi, dunque, se il maggior partito della sinistra si aggrappa alle “sardine” (gli studenti che riempiono le piazze contro Salvini), e snobba le preoccupazioni degli strati più umili?

La ragione per cui mi stupisco è presto detta: l’Italia non è come gli altri maggiori paesi paesi avanzati. L’Italia è l’unica società avanzata in cui l’economia non cresce più, la produttività è ferma da vent’anni, e le persone che non lavorano sono molto più numerose di quelle che lavorano. In queste condizioni, se non si fa nulla, siamo condannati a un processo di “argentinizzazione lenta”, che nel giro di pochi decenni eroderà la ricchezza accumulata dalle generazioni che hanno ricostruito il Paese dopo la seconda guerra mondiale. Le grandi emergenze economico-sociali di cui si parla in questi giorni (Ilva, Alitalia, Mose), le innumerevoli crisi aziendali aperte, non sono eventi accidentali, o di origine misteriosa, ma i segni difficilmente equivocabili del declino in atto.

Ecco perché mi stupisco delle mosse del maggiore partito della sinistra. Non ho nulla contro lo ius culturae, una misura che – se congegnata bene – troverebbe ampio consenso, anche fra quanti guardano a destra, ma trovo incredibile che, per darsi un’anima, e in una situazione in cui il Paese affonda sotto una valanga di problemi che rigardano l’hardware del sistema sociale (economia e lavoro), il maggiore partito della sinistra preferisca baloccarsi con problemi che riguardano il software del sistema sociale, e sono largamente estranei alla sensibilità popolare. Un grande leader come Berlinguer, di fronte alla situazione dell’Italia di oggi, non avrebbe trovato alcuna difficoltà – ove ve ne fosse stato bisogno – a trovare un’anima al suo partito. E, soprattutto, non l’avrebbe cercata lontano dalle periferie e dalle fabbriche, dove tutt’ora, e a dispetto del benessere dei più, gli strati popolari fanno i conti con le asprezze della vita.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 23 novembre 2019



Il terrorismo del piano inclinato

Mi permetto di suggerire a Michela Murgia, l’Hannah Arendt di Cabras, inventrice del fascistometro, un indicatore forse ancora più infallibile dei 65 da lei individuati per smascherare la personalità totalitaria. Si tratta dell’argomento della china pericolosa—slippery slope argument—fondato sul sofisma che una volta ammesso A non puoi evitare di percorrere tutte le tappe che ti porteranno a Z. E’ come dire, chi ha cominciato a fumare lo spinello si ritroverà dipendente dall’eroina. Forse pochi altri stili di pensiero rivelano il cancro del fondamentalismo etico, dell’ottusità mentale, dell’oscuramento della ragione, del furore nichilistico come questo. A destra e a sinistra se ne fa un uso smodato: «se ammettiamo questo, chissà dove andiamo a finire!», «ciò che sulle prime sembra innocuo può diventare l’inizio delle peggiori nefandezze!». In tutto questo c’è una sottile sfiducia nella libertà e nella responsabilità umana: un’opinione cattiva diventa un cappio al collo di cui non ci si può liberare più e sostenere un’idea politicamente scorretta (lasciamo stare, per il momento, chi decide che sia tale) è come aver contratto una malattia. E coi malati non si dialoga: si curano o si isolano. Così se si hanno riserve sulla politica dell’accoglienza e delle porte aperte si finisce, in virtù dello slippery slope argument— in compagnia di Hitler, se si propone una qualche nazionalizzazione (ed io da liberale non sono certo favorevole ad affidare allo Stato la gestione delle aziende in crisi), si finisce in compagnia di Stalin. E il risultato, guardando a sinistra, è che, come ha scritto Luca Ricolfi nel suo magistrale articolo di fondo Chi rema contro il partito del Pil (‘Il Messaggero’ 16 novembre u.s.), poiché nel mondo progressista, l’ideologia tende a prevalere su tutto «per la sinistra, la Lega e il suo leader, non sono normali avversari, portatori di un progetto politico a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie».

Si è a favore delle unioni civili ma contrari al matrimonio gay e al diritto di adozione (rivendicato con successo da Niki Vendola)? Si rischia l’accusa di omofobia e, se dipendesse da Monica Cirinnà, si potrebbe anche essere citati in giudizio. Si vuole chiudere i porti all’immigrazione irregolare? Si rischia di passare per biechi nazionalisti, amanti dei muri e delle frontiere. Si vogliono pene certe e severe per i reati contro le persone e le loro proprietà? Si rischia l’accusa di giustizialismo e di essere seguaci di Charles Lynch. Se poi qualcuno si dichiarasse a favore della pena di morte—sostenuta, peraltro, dal più grande filosofo dell’età moderna, Immanuel Kant, e nell’Italia contemporanea da uno studioso insigne come Vittorio Mathieu, che di Kant è forse il massimo esperto mondiale—sicuramente non avrebbe accesso a giornali e a cattedre universitarie. Intendiamoci, non sto sostenendo che le opinioni citate siano corrette e che quanti sono di diverso avviso, contrariamente alla communis opinio della stampa establishment, siano nel torto. Il virus totalitario sta nel ritenere che le opinioni abbiano lo stesso status logico degli ‘aridi veri’ della scienza e che opporsi, ad es., a un disegno di legge ritenuto giusto—e in linea con la Costituzione—equivalga ad affermare che sia il sole a girare attorno alla terra. Per i regimi totalitari era senz’altro così: nell’URSS opinare che il potere non apparteneva al popolo ma a una ristretta oligarchia, significava venir preso per pazzo—alla stregua di un sostenitore della teoria geocentrica—e rinchiuso in un manicomio criminale; nell’Italia delle camice nere, assai meno totalitaria della Russia e della Germania, negare le benemerenze del regime comportava una bella bevuta di olio di ricino, al fine di liberare corpo e mente dai veleni dell’antifascismo.

Nel clima denunciato da Ricolfi, purtroppo, si registra un effetto moltiplicatore. La denuncia di quanti sono accusati di odiare i diversi (immigrati, gay, zingari, islamici, ebrei etc. etc.) assume toni così forti e (verbalmente) violenti da convertirsi in odio per i (presunti) seminatori di odio: sicché all’odio dei secondi si unisce quello dei primi e il cielo della politica diventa ancora più plumbeo e opprimente.

E dispiace che a gettare benzina sul fuoco sia un pontefice pur rispettabile, come Francesco I che giustamente, nel recente discorso ai penalisti internazionali, ha fatto rilevare l’inciviltà della carcerazione preventiva—una battaglia liberale quant’altre mai. «Quanto sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel’34 e nel ‘36». ‘Esageruma nen’? direbbero in Piemonte. Concordo in pieno con quanto scrive Fabrizio Cicchitto sul ‘Tempo del 16 novembre u.s.—I grillini vogliono lo Stato di polizia. Qualcuno li fermi—e ritengo anch’io liberticida la legge Severino (votata anche da ‘Forza Italia’ grazie all’ineffabile Niccolò Ghedini) e un giudizio non meno severo mi sento di dare sull’eliminazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, chiesta dal ministro Alfonso Bonafede, ma rievocare Hitler rivela una preoccupante nostalgia delle crociate e dello scontro all’ultimo sangue nonché una ferrea determinazione a ripulire il mondo, in nome dell’universalismo paolino—v. il saggio di Alain Badiou, Saint Paul. La fondation de l’universalisme, Puf 1997—di tutto il male che vi alberga e che Papa Bergoglio individua, a livello internazionale, nel capitalismo e nella finanza apolide e, a livello locale, nella guerra pro aris et focis combattuta dai sovranisti.

Personalmente un movimento assistenzialista, giustizialista, populista, fautore della decrescita felice come quello fondato da Beppe Grillo è l’antitesi di tutto ciò in cui credo ma Hitler (e con lui Stalin, però non nominato) «che c’azzecca», come direbbe il padre spirituale dei pentastellati? No, il terrorismo del piano inclinato è la morte della democrazia liberale. E definire razzista chi, ad esempio, ha paura a vivere accanto a un campo rom ottiene solo l’effetto di renderlo razzista sul serio. Stiamo bene attenti: quanti, nati tanti anni dopo il crollo del fascismo, vengono giudicati fascisti per opinioni che ad essi sembrano del tutto ragionevoli potrebbero essere indotti a pensare: «ma se il fascismo era questo, non era meglio di questa nostra scarcagnata democrazia?».

Pubblicato su L’Atlantico



Il partito del Pil

A che punto è il cosiddetto partito del Pil, ovvero l’Italia che non si è rassegnata al declino, e vorrebbe tornare alla crescita?

Il tema è stato sollevato con la consueta lucidità da Angelo Panebianco in un articolo sul Corriere della Sera di qualche giorno fa. Di fronte alla disastrosa gestione del caso dell’Ilva, ma soprattutto al perdurare di politiche assistenziali (quota 100 e reddito di cittadinanza) in entrambi i governi Conte, Panebianco suggerisce che ben poco sia cambiato nel passaggio dall’esecutivo giallo-verde a quello giallo-rosso, salvo il fatto che, ora, le deboli e timide istanze pro-crescita della società italiana anziché essere rappresentate dalla Lega vengono rappresentate da una parte del Pd (e, aggiungo io, da Italia Viva, il nuovo partito di Mattero Renzi). E lascia aperta la domanda cruciale: il partito del Pil è minoranza nel paese, o è semplicemente privo di un’adeguata espressione politica?

La mia impressione, ma potrebbe essere un’illusione dettata dallo sconforto, è che fra la gente, e non solo al Nord, il partito del Pil sia molto più forte di quanto suggerisca il balbettio delle forze politiche che, più o meno maldestramente, provano a interpretarne qualche istanza. E che ci siano ragioni ben precise per cui il partito del Pil non riesce a trovare un’espressione di governo adeguata.

La prima ragione è ovvia e strettamente politica: i Cinque Stelle, che sono l’espressione più pura del partito della decrescita, hanno la maggioranza relativa in parlamento, e quindi qualsiasi governo che li includa non può non avere un orientamento prevalentemente assistenziale. Ma ci sono anche altre due ragioni che, a mio parere, soffocano sul nascere la formazione di uno schieramento pro-crescita. Una a che fare con l’economia, l’altra con l’ideologia.

Sul versante dell’economia, è difficile non notare che sia la Lega sia il Pd hanno essi stessi una componente assistenziale molto forte. La Lega l’ha palesata clamorosamente anteponendo quota 100 alla riduzione delle tasse, il Pd la palesa ogniqualvolta (quasi sempre) antepone gli incrementi di spesa alle riduzioni delle tasse sui produttori, o preferisce migliorare le retribuzioni di chi ha già un lavoro piuttosto che rendere possibile la nascita di nuovi posti di lavoro. A questa debolezza dei timidi rappresentanti del partito del Pil si aggiunge un ulteriore handicap: né la Lega né il Pd ci hanno ancora spiegato se l’alleggerimento della pressione fiscale, che entrambi dicono di perseguire, intendono attuarlo facendo nuovo debito pubblico oppure no (al riguardo, la mia sensazione è che la Lega pensi di ridurre le tasse con un condono e portando il deficit vicino al 3%, e che il Pd semplicemente non abbia alcuna seria intenzione di ridurle davvero, le tasse).

Ma supponiamo, per un attimo, che fra Pd e Lega non vi siano differenze significative sulla politica economica, e che questi due partiti si ergano a rappresentanti del partito del Pil. Supponiamo anche che i Cinque Stelle scendano intorno al 10-15% dei consensi. Basterebbe questo a dare spazio al partito del Pil?

Secondo me no, perché nella politica italiana – ma oggi siamo costretti a specificare: nel modo di fare politica del mondo progressista – l’ideologia tende a prevalere su tutto. Per la sinistra, la Lega e il suo leader non sono normali avversari, portatori di un progetto politico alternativo a quello della sinistra. No, la Lega e i suoi alleati (specie Fratelli d’Italia), sono prima di tutto la manifestazione dei più torbidi impulsi della società italiana: razzismo, odio verso gli stranieri, antisemitismo, nostalgie fasciste, tentazioni autoritarie. La destra, oggi con Salvini come ieri con Berlusconi, è culturalmente indigeribile: altroché politica economica e partito del Pil! E’ come se, accecata dall’odio per il non-uomo Salvini, la sinistra avesse perso ogni capacità di discernimento, oltreché ogni rispetto per l’avversario.

Ecco perché penso che, alla fine, nonostante il partito del Pil sia forte nel Paese, non vi sia, attualmente, alcuna realistica possibilità di fornirgli un’espressione politica, anche nel caso i Cinque Stelle e le forze anti-crescita (quelle che plaudono alla chiusura o alla nazionalizzazione dell’Ilva) dovessero subire una severa sconfitta elettorale. La realtà, temo, è che le spinte assistenziali e la tentazione di affrontare i problemi facendo più debito sono fortissime tanto a destra quanto a sinistra. E lo sono perché i due partiti maggiori, la Lega e il Pd, pur non insensibili al “grido di dolore” del partito del Pil, non hanno più, se mai l’hanno avuta, la crescita nel loro DNA.

Da questo punto di vista l’esperienza dei due governi Conte è stata semplicemente illuminante. Non solo perché accomunati dalle due misure più anti-crescita (quota 100 e reddito di cittadinanza), introdotte dal primo e confermate dal secondo (con tanti saluti alla “discontinuità” invocata da Zingaretti), ma perché quel poco che li ha resi diversi è l’opposto di quel che Lega e Pd hanno sempre predicato. Il Conte 1, a trazione leghista, anziché ridurre le tasse ha aumentato la pressione fiscale, dopo un quinquennio di (sia pur modeste) riduzioni attuate dai governi di sinistra (Letta, Renzi, Gentiloni). Il Conte 2, a trazione Pd, dunque in linea di principio ligio alle regole europee, ha esordito facendosi concedere dall’Europa 16 miliardi di spesa in deficit, così interrompendo i sia pur modesti segnali di miglioramento dei conti pubblici emersi durante il breve regno dell’antieuropeo Conte 1.

Che dire?

Anche ammesso che, come sono incline a pensare, il partito del Pil sia maggioranza nel Paese, le due forze principali che dovrebbero rappresentarlo, la Lega e il Pd, non sembrano al momento all’altezza del compito. Non solo perché ferocemente ostili l’una all’altra, ma perché entrambe possedute dai due demoni che insidiano il ritorno alla crescita: l’incapacità di ridurre le tasse sui produttori, e la sempiterna tendenza a comprare il consenso con nuove spese.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 16 novembre 2019