Il referendum del 29 marzo

Fra chi segue settimanalmente i sondaggi si sta facendo strada una sensazione, se non una previsione: il Pd gode di una discreta salute, i Cinque Stelle stanno perdendo consensi settimana dopo settimana, al punto che – a breve – potrebbero essere sorpassati da Fratelli d’Italia, l’unico partito in costante ascesa da mesi. Con la Lega vicina al 30%, il Pd vicino al 20, e il partito della Meloni in vista del 15 i Cinque Stelle (che, lo ricordiamo, in Parlamento sono di gran lunga il primo partito) potrebbero precipitare al quarto posto.

Chi vede le cose in questo modo, però, forse non fa i conti fino in fondo con un evento politico che ormai è alle porte: il referendum confermativo sul taglio del numero dei parlamentari (da 945 a 600), previsto fra una manciata di settimane (domenica 29 marzo). Qualsiasi cosa si pensi di questa riforma costituzionale (personalmente la trovo tanto ragionevole quanto di scarso impatto: sono assai più sostanziali i cambiamenti delle regole di cui ci sarebbe bisogno), resta il fatto che essa è stata una bandiera di un solo partito (il Movimento Cinque Stelle), è stata osteggiata con decisione dal Pd, e alla fine è passata non certo perché il Pd si sia convertito, ma perché i Cinque Stelle l’hanno posta come condizione per imbarcare il Pd e Leu nel nuovo governo.

Dunque quel che dobbiamo attenderci non è che il referendum passi nell’indifferenza generale (visto che nessun partito osa schierarsi apertamente a favore del no), bensì che il Movimento Cinque Stelle, che di quella riforma si considera – del tutto giustamente – il promotore e l’artefice, colga l’occasione per passare all’incasso sul piano del consenso. E’ quasi certo che il taglio dei parlamentari avrà l’approvazione della stragrande maggioranza dei votanti, ed è impensabile che, su questo successo, i Cinque Stelle non tentino un’operazione di recupero del consenso perduto, magari trasformando l’evento degli Stati generali in un’occasione di autocelebrazione, che non potrà non sfociare in un revival della retorica anticasta che ne ha segnato le origini.

Con quali effetti sul seguito elettorale?

Difficile dirlo, perché spesso il consenso ad A è anche il frutto del discredito di B, C e D, ovvero delle altre forze politiche. Quel che però mi sembra ragionevole prevedere è che questa vittoria possa rallentare (se non invertire) il trend di declino dei Cinque Stelle, ma soprattutto possa rendere più evidente l’abdicazione del Pd da ogni velleità di dare un segno, il proprio segno, al governo giallo-rosso. Dopo aver ceduto sul taglio dei parlamentari, dopo essersi rassegnato al reddito di cittadinanza (aspramente criticato fino a pochi mesi fa), dopo aver piegato la testa su concessioni autostradali e giustizia, dopo avere esitato e temporeggiato su tutto ciò che riguarda l’immigrazione (dai decreti Salvini allo ius soli), il Pd zingarettiano appare pronto a tornare quel che era prima di Renzi, forse fino al punto di riaccogliere, a braccia più o meno aperte, i transfughi fin qui rifugiati in Leu.

Un processo, questo, che l’attivismo di Renzi non fa che mettere impietosamente a nudo. Perché è vero che a salvare i Cinque Stelle da un’ecatombe elettorale è stato Renzi, è vero che a sdoganarli a sinistra è stato Renzi, è vero che Italia Viva fin qui ha digerito quasi tutto ciò che il convento giallo-rosso imponeva ai suoi adepti, ma non si può non notare che quello che Renzi oggi dice e rivendica a nome di Italia Viva altro non è, sulla maggior parte delle questioni, esattamente ciò che il Pd diceva e rivendicava fino a ieri.

La conclusione è semplice. I Cinque Stelle sono stati il vero dominus del governo giallo-rosso e si apprestano a rinverdire il loro populismo anticasta. Renzi e Italia Viva, dopo la mossa opportunista e anti-salviniana di far nascere il Conte 2, stanno tornando ad assumere il loro profilo naturale, quello di una sinistra riformista e garantista. Solo il Pd resta un enigma, incerto fra il suo passato renziano e il suo presente grillino.

Pubblicato su Il Messaggero del 29 febbraio 2020



L’economia dimenticata

Se scorriamo i titoli dei giornali e dei telegiornali delle ultime settimane, è inevitabile constatare che tre argomenti hanno ormai monopolizzato l’attenzione dei media e della politica: il processo a Salvini per la vicenda della nave Diciotti, la giustizia, con la questione della prescrizione, e il coronavirus (ora ribattezzato Covid-19).

La questione della prescrizione è arrivata al punto di minacciare la sopravvivenza del governo, mettendo in evidenza la incompatibilità fra Italia Viva e Cinque Stelle.

Il problema del coronavirus ha riacceso le accuse di razzismo e xenofobia che il mondo progressista riversa su chiunque non sposi la linea ufficiale, per la quale il diritto allo studio (niente quarantena preventiva per gli studenti che arrivano dalla Cina) ha la precedenza su quello alla salute. O, se preferiamo dirla in modo più filo-governativo: per le autorità preposte a gestire l’epidemia, i rischi di contagio sono così bassi che possiamo permetterci di correrli.

In tutto ciò, quel che è completamente sparito dalla scena sono i problemi dell’economia. Eppure l’economia batte alle porte.

Ci sono, innanzitutto, i problemi che fino a ieri parevano cruciali, e che ora si preferisce rimuovere. Ricordate il dramma dell’Ilva, che fino a due mesi fa pareva una questione di vita o di morte, per la salute dei cittadini di Taranto come per l’economia del mezzogiorno e dell’intero paese?

E l’Alitalia ? Una vicenda che si trascina da anni e ora è tornata alla ribalta solo perché la magistratura ha deciso di indagare una ventina di dirigenti per presunti favori illeciti a Etihad.

C’è poi la questione della revoca della Concessione ad Autostrade, un problema che si tende ad affrontare in modo ideologico, come se le scelte (o le non scelte) che si compiono non avessero pesanti ripercussioni economiche (la revoca potrebbe costare miliardi alle casse dello Stato, la rinuncia a imporre investimenti al concessionario potrebbe peggiorare ulteriormente lo stato della nostra rete autostradale).

E il MES? Qualcuno ricorda che fino a un paio di mesi sulla riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità volavano le accuse, e anche i più cauti fra gli economisti avanzavano preoccupazioni?

Tutto cancellato, tutto sottotraccia, tutto in sordina, sommerso dalle intemperanze dei politici che si sfidano sul processo al capo della Lega, sulla prescrizione, sulle misure da adottare per contrastare il contagio.

Ma non è tutto. Accanto ai problemi specifici dell’economia italiana ci sono le turbolenze che arrivano da fuori e da lontano. La crescita mondiale sta rallentando, la Brexit sta creando incertezza e instabilità, il commercio con la Cina subirà certamente una frenata.

E in questo quadro arrivano le stime di crescita per il 2020 e il 2021 della Commissione europea, che annunciano un rallentamento dell’Europa in generale, e dell’Italia in particolare. La vera notizia, per noi, è che anche nei prossimi anni, così come in quelli passati, l’Italia occupa l’ultimo posto, dietro paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda. Tutti i paesi dell’euro, secondo le previsioni, cresceranno più dell’1%, e 10 paesi (su 19) cresceranno fra il 2 e il 4%. Solo per l’Italia la Commissione prevede una crescita prossima a zero (0.3%).

Qualcuno dirà che questa è l’amara eredità del governo populista e del suo capo, quel Giuseppe Conte che aveva profetizzato che il 2019 sarebbe stato “un anno bellissimo”. Qualcun altro obietterà che, nel passaggio da giallo-verde a giallo-rosso, o da Conte 1 a Conte 2, le cose sono addirittura peggiorate, visto che per il terzo trimestre del 2019 l’Istat prevede addirittura una contrazione del Pil (-0.3%).

Ma ad entrambi, e a chi rimpiange gli anni precedenti, vorrei ricordare che il primo segno meno davanti al tasso di crescita del Pil risale al secondo trimestre del 2018, quando il timone dell’economia era ancora in mano al governo Gentiloni. Dunque, facciamocene tutti una ragione: se guardata dal lato dell’economia, l’Italia brilla per la continuità delle sue non-politiche.

Sono anni e anni che, chiunque governi, siamo ultimi in Europa. E sono anni e anni che i nostri nodi veri, dal debito pubblico alla pressione fiscale, dalla produttività all’occupazione, preferiamo non affrontarli. E ogni coronavirus che passa ci fornisce l’insperata occasione di perseverare nella nostra inerzia.

Pubblicato su Il Messaggero del 15 febbraio 2020



La sinistra ha perso i suoi referenti storici: periferie e ceti popolari

La sinistra non c’è più là dove una volta la si andava a cercare: nelle periferie delle grandi città e nei ceti subalterni. Da tempo sconta ormai una crisi di consensi elettorali, soprattutto nel suo insediamento tradizionale di riferimento, cioè le classi popolari e meno istruite.

A partire dal nuovo secolo, ma in alcuni paesi anche prima, si assiste infatti a due fenomeni paralleli: da un lato un calo generalizzato dei partiti di matrice socialista e socialdemocratica in quasi tutti i principali paesi europei; dall’altro la progressiva perdita di appeal di quei partiti nelle loro storiche constituency.

Per quanto riguarda il primo elemento, è evidente come tutti i principali partiti di quell’area, vale a dire il PASOK in Grecia, il PSOE in Spagna, il PSF in Francia, l’SPD in Germania, il SAP in Svezia, giusto per citare i partiti più rappresentativi della tradizione socialista europea, mostrano un andamento tendenziale dei consensi elettorali in costante diminuzione.

E ancora peggiori, salvo rare eccezioni, sono stati negli ultimi 20 anni i risultati elettorali nei paesi usciti dal regime sovietico, dove i partiti di ispirazione socialista o social-democratica hanno spesso faticato persino ad ottenere seggi nei rispettivi parlamenti.

In Italia infine, il Partito Democratico, nei suoi dieci anni di vita elettorale, ha visto quasi dimezzare i suoi consensi, dai 14 milioni e mezzo di voti delle elezioni 2008 che celebrarono il suo esordio come formazione politica ai 7 milioni e mezzo delle elezioni politiche dello scorso anno. Un confronto che diventa ancora più impietoso se si considerano i 19 milioni di elettori che, prima della nascita del PD, nelle elezioni politiche del 2006, segnarono il risultato delle liste collegate alla coalizione di centro-sinistra, l’Unione di Romano Prodi.

Prende così forma una sorta di “male oscuro” che tocca le forze progressiste di tutto il mondo occidentale. A fronte del quale, assume rilevanza crescente la correlazione tra il voto ai partiti della sinistra democratica e socialista occidentale e la residenza nelle grandi metropoli, o nei centri urbani di grossa dimensione, così come con gli strati più istruiti e benestanti della popolazione in genere. Un fenomeno sempre più evidente, soprattutto nei paesi dove l’onda lunga del sovranismo miete maggiori consensi, dalla Francia di Marine Le Pen agli Stati Uniti di Donald Trump fino al Regno Unito di Boris Johnson, per arrivare all’Italia di Matteo Salvini.

Consideriamo le ultime elezioni politiche che si sono tenute in questi ultimi tre paesi: quelle legislative in Italia e Regno Unito, e quelle per il Presidente negli Stati Uniti. Dati di sondaggio sulle elezioni inglesi dello scorso dicembre segnalano evidenze molto interessanti nel dato relativo al grado di istruzione, dove se i Conservatori vantano quasi il 60% dei consensi fra i non laureati, gli elettori laureati risultano più equamente distribuiti fra liberaldemocratici, conservatori e laburisti, con questi ultimi che incassano quasi il 40% dei voti di coloro che hanno una laurea o un titolo di studio superiore. E se nelle precedenti elezioni (2017) fra gli elettori non laureati i Conservatori superavano i Laburisti di meno di 20 punti percentuali, nelle elezioni dello scorso dicembre il divario fra i due partiti si è allargato, raggiungendo una differenza percentuale di poco inferiore ai 40 punti.

Appare inoltre particolarmente significativa la ripartizione del voto nelle diverse aree urbane del paese, rispetto alla quale, così come già si era verificato in occasione delle elezioni politiche del 2017 e del Referendum del 2016 sulla cosiddetta Brexit, gli elettori del Partito Conservatore si ritrovano soprattutto fra i cittadini che risiedono nei centri urbani medio-piccoli e nelle aree rurali, mentre quelli del Partito Laburista sono preponderanti nelle città più popolose e, all’interno di queste, più al centro che in periferia. Una propensione che nel corso del tempo è diventata sempre più indicativa. Basti pensare che ancora nel 2010 la percentuale degli elettori Conservatori fuori dai grandi centri urbani era mediamente intorno al 40%, mentre adesso supera il 50%. Sempre nello stesso periodo di tempo, gli elettori del Partito Laburista nelle metropoli sono viceversa cresciuti dal 35% del 2010 a oltre il 50% di oggi.

Il confronto con il Referendum sulla Brexit mette inoltre in luce come alcune delle aree territoriali in cui il sostegno al “leave” è stato nel 2016 più forte e che appartenevano tradizionalmente ai Laburisti, nella parte settentrionale e centrale dell’Inghilterra, nelle elezioni politiche dello scorso dicembre hanno visto vincere i Conservatori. Crepe importanti nella cosiddetta red wall sono per esempio la perdita dei collegi di Blyth Valley, circoscrizione laburista dal 1950, e di Bishop Auckland, che ha visto eletto un deputato Conservatore per la prima volta in 137 anni di storia di quella constituency.

In maniera molto simile a quanto accaduto nelle ultime elezioni per il Parlamento in UK, nelle elezioni presidenziali americane del 2016 il divario rispetto al grado di istruzione e la frattura territoriale fra centro e periferia si fanno parimenti sentire. Per quel che riguarda il livello di scolarizzazione, gli elettori della Clinton risultano mediamente più istruiti di quelli di Trump: poco più della metà (52%) degli elettori democratici dispone quanto meno di un diploma di istruzione superiore, mentre molto meno della metà (42%) degli elettori repubblicani si trova nella medesima condizione. Inoltre, il 51% di coloro che hanno votato Trump ha frequentato solo la scuola dell’obbligo americana (contro il 43% di Hillary Clinton), mentre fra i votanti della Clinton il 49% si è laureato e il 58% ha acquisito un diploma di master o una laurea di secondo livello (contro solo il 32% di Trump).

Un dato ancor più significativo se si pensa che Trump fa il pieno dell’elettorato bianco (57% contro 37%), storicamente il più istruito, mentre Clinton monopolizza quello nero e ispanico (74% contro 21%). Tra i bianchi non laureati, Trump infatti stravince per 66% a 29%! Infine, come nel Regno Unito, anche negli Stati Uniti la frattura territoriale fra centro e periferia consente di discriminare fra un elettorato repubblicano maggiormente concentrato nelle aree suburbane o rurali, che hanno contribuito al successo di Trump rispettivamente per il 49% e il 61%, e un elettorato democratico insediato soprattutto (60%) nelle aree urbane del paese. Come dire: più ci si avvicina al centro delle metropoli, più l’elettore vota Democratico, più ce ne si allontana, più è Trump ad essere preferito.

E arriviamo infine al caso italiano. Nelle più recenti consultazioni emiliane, nonostante il buon successo ottenuto da Bonaccini e dalla sua coalizione, la percezione che ci trasmettono i risultati elettorali è quella di trovarci in presenza di una regione spaccata secondo una evidente direttrice territoriale, una chiara frattura tra centro e periferia, con i comuni più popolosi che stanno a sinistra e quelli più periferici a destra. Un dato confermato dalle analisi nazionali, dove nelle grandi città (con oltre 250mila abitanti) il Pd ottiene 5 punti percentuali sopra la sua media, mentre la Lega ne fa registrare quasi 4 in meno. Anche dal punto di vista della scolarizzazione, la situazione nel nostro paese ricorda quella internazionale: i votanti con almeno un diploma superiore scelgono Pd per il 4% più della media e scelgono Lega per il 4% in meno (e i laureati addirittura il 10% in meno).

Facciamo infine un gioco chiaramente anti-democratico, benché particolarmente significativo: se limitiamo l’acceso al voto ai solo elettori delle grandi città in possesso di un titolo di studio superiore, il Pd batterebbe la Lega di ben 15 punti, 30% a 15%. Questa è dunque la nuova constituency della sinistra, a livello nazionale come a livello internazionale. Occorre che ne prenda atto.

*Un’analisi più dettagliata di quanto qui dibattuto uscirà sul prossimo numero cartaceo de Il Mulino, in un saggio di Luciano Fasano e Paolo Natale



L’eclissi del liberal-riformismo

Mi ha molto colpito e fatto riflettere la sconsolata intervista che, qualche giorno fa, ha rilasciato a “La Stampa” Emanuele Macaluso, una delle figure più rappresentative (e più nobili) della corrente riformista del Pci-Pds-Ds-Pd. In quella intervista, l’anziano ex dirigente comunista lamentava l’imperscrutabilità della linea del Pd sulle questioni cruciali del Paese, a partire da quella dei migranti.

Per una volta, io che da molti anni sono estremamente critico su quel partito, vorrei provare a dirigere l’attenzione altrove. O meglio: anche altrove, e innanzitutto verso quanti, come me, si collocano nell’area che, per brevità, chiamerò liberal-riformista. E vengo subito al punto: vogliamo renderci conto che abbiamo fallito? Vogliamo dircelo, una buona volta, che la cultura liberal-riformista, che era egemone in Italia negli anni ’90, si è completamente auto-prosciugata?

Vorrei ricordarlo, perché forse non tutti ne abbiamo memoria: negli anni ‘90 la diagnosi di fondo sui mali dell’Italia e sulle riforme necessarie per raddrizzare il paese era, al di là delle sfumature e della propaganda, sostanzialmente condivisa dai riformisti di entrambi gli schieramenti. Erano i tempi del “rapporto Onofri” sulla spesa sociale, con la sua analisi spietata delle distorsioni del nostro welfare. Erano i tempi della “riforma Dini” del sistema pensionistico. Erano i tempi in cui, per riprendere il titolo di un libro dell’economista Nicola Rossi, eravamo “riformisti per forza”, perché era l’Italia ad avere bisogno di riforme, e soprattutto di scelte coraggiose: riduzione del debito pubblico, contenimento della spesa pensionistica, reddito minimo, politiche attive sul mercato del lavoro, efficientamento della spesa sanitaria, più meritocrazia e meno privilegi, nuovi asili nido, borse di studio nella scuola e nell’università. Ma anche: federalismo fiscale, riforma della giustizia civile e penale, meno burocrazia, interventi sul sovraffollamento delle carceri.

C’era anche, allora, un aspetto che non mi ha mai convinto (ne presi le distanze già vent’anni fa): una fiducia smisurata nell’Europa e nelle virtù della globalizzazione, vista dai più come una formidabile opportunità.

Ebbene, che ne è di tutto ciò?

Quasi nulla, mi pare. Il mondo liberal-riformista non esiste più. Nella migliore delle ipotesi, si limita a ripetere le sue diagnosi e le sue ricette, ma senza prendere atto del proprio fallimento. Soprattutto, senza interrogarsi davvero sulle ragioni profonde di quel fallimento. La diagnosi era sbagliata? O sono le soluzioni che non erano all’altezza dei problemi? E soprattutto: abbiamo provato davvero a mettere in atto le nostre idee?

A me pare che molto di quel che si predicava non è stato fatto, o è stato fatto troppo tardi, o troppo timidamente. Penso alla incompiutezza delle riforme del mercato del lavoro, ma soprattutto alla omissione della riforma delle riforme, che tutto doveva precedere: la difesa della scuola, e la lotta alle diseguaglianze proprio a partire da lì, dall’attuazione concreta del dettato costituzionale che sancisce il diritto dei “capaci e meritevoli” di raggiungere “i gradi più alti degli studi” (articolo 34). Per non parlare della nostra superficialità sulle virtù della globalizzazione, della nostra tolleranza per la mostruosa crescita della burocrazia, o della nostra timidezza in materia di garanzie dell’imputato, una materia che ha visto la sinistra sempre sostanzialmente subalterna al partito dei giudici, e la destra sempre vigile solo quando in questione erano i diritti dell’imputato Berlusconi.

Perché sollevo questi interrogativi, ora?

Fondamentalmente, perché mi sono convinto che, nella nascita e nel dilagare del populismo, una responsabilità grave ce l’abbiamo anche noi liberal-riformisti. Il centro-destra non ha mai nemmeno provato ad attuare la rivoluzione liberale promessa. Quanto al centro-sinistra esso è rimasto sempre, anche nelle sue stagioni migliori, abbondantemente al di qua di quel che sarebbe stato necessario. Si può forse dare atto a Renzi di avere tentato qualcosa, ma non si può non notare che anche il suo governo ha innanzitutto perseguito il consenso, senza incidere sull’hardware del sistema Italia. E ancor meno si può ignorare che è stato proprio Renzi a spalancare le porte ai Cinque Stelle, la più demagogica, anti-liberale e anti-riformista delle forze politiche in campo.

Ecco perché mi sembra venuto il tempo di rivolgere la nostra attenzione prima di tutto a noi stessi e alle nostre omissioni, o al nostro lungo sonno. Se la cultura liberale non batte un colpo, o resta rinchiusa nei piccoli circoli dove è adusa confermarsi nelle proprie convinzioni, è inutile continuare a chiedere ai populisti di diventare più riformisti, o più liberali, o semplicemente più ragionevoli. Quello di ricostruire una cultura politica liberal-riformista è compito innanzitutto nostro. I populisti fanno il loro mestiere, e lo fanno meglio di quanto noi facciamo il nostro.

Pubblicato su Il Messaggero del 4 febbraio 2020



Dalla tribù all’universo, e il nazionalismo diventa il male assoluto

Da tempo, grazie anche alle esortazioni di figure istituzionali come il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, veniamo invitati a distinguere tra il patriottismo, valore alto e positivo, e il nazionalismo, negazione di ogni virtù civica. Cominciò Giuseppe Mazzini, in un testo del 1871, Nazionalità e nazionalismo, a porre sullo stesso piano il fraintendimento delle parole “tolleranza” e “indifferenza” con quello che rendeva sinonimi «la santa parola Nazionalità» e il «gretto geloso nazionalismo. È lo stesso errore che confonde Religione e superstizione o Unità e «concentramento amministrativo». In realtà, il nazionalismo al quale si riferiva l’apostolo genovese non aveva nulla a che vedere con quello moderno, riferendosi piuttosto agli ingrandimenti degli Stati promossi da dinastie avide e prive di scrupoli. Per i retori del patriottismo e del republicanism, però, tutto fa brodo. Anche il richiamo a Benedetto Croce che, nel 1943, scriveva sulla ‘parola desueta: l’amor di patria’ che «si potrebbe dire che corre tra l’amor di patria e il nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o la morbosa lussuria o l’egoistico capriccio». Il senatore, qualche anno dopo, tuonava contro il Trattato di Pace imposto all’Italia, che toglieva allo Stato nazionale lembi sacri di territorio e le colonie ma questo non interessa chi nella storia cerca solo argomenti a sostegno di una tesi ideologica.

Certo si può distinguere il patriottismo dal nazionalismo, rifacendosi al lungo Ottocento, ma non è lecito ignorare un dato fondamentale: che negli scrittori dell’età postrisorgimentale, il nazionalismo era la degenerazione di una cosa buona mentre oggi è diventato il segno stesso del male radicale, di un pendio al fondo del quale si trovano razzismo, fascismo, antisemitismo etc. Un grande e dimenticato filosofo del diritto, Alessandro Levi – assieme a Rodolfo Mondolfo espressione di un socialismo riformista, europeista e occidentale scriveva nell’articolo La crisi della democrazia ( 1912): «La democrazia che non chiuda gli occhi alla realtà non può disconoscere la verità storica e anche l’efficienza civile delle lotte fra le classi e fra i popoli. Né può negare, se non voglia addormentarsi cullata dalle nenie di un bamboleggiante pacifismo, che, nella vita nazionale e internazionale, ‘pace è vocabolo/ Mal certo’. E sa la democrazia che non si perda in rosei sogni, come gli individui, le classi, le Nazioni nulla ottengono se non si fanno valere».

Oggi queste parole sarebbero inconcepibili: il rigetto del nazionalismo è così radicale da estendersi allo stesso concetto di Nazione. Con le parole di un allievo di Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, «il concetto di Nazione è in se stesso inconsistente e implausibile, e come tale inaccettabile; la teoria che difende il diritto di autodeterminazione dei popoli – peraltro sancito in questi termini in documenti di diritto positivo – è una teoria mal costruita, ambigua e almeno per certi aspetti contraddittoria, e pertanto ricusabile».

Per capire quel che sta succedendo, a mio avviso, può essere utile adottare un approccio transpolitico, riprendendo e laicizzando la filosofia della storia di Augusto Del Noce. Per il pensatore piemontese (uno dei più geniali del nostro tempo) «anziché vedere il vero motore della storia nella causalità materiale, nei conflitti di classe o nel progresso tecnologico, dovremmo riconoscere che tutti questi processi, certo importantissimi, forniscono però solo la materia della trasformazione storica. La forma, che è poi l’elemento decisivo, dipende dalla visione filosofica complessiva che fornisce le categorie attraverso le quali il mutamento viene pensato». Non si tratta di un approccio idealistico (in base al quale sarebbero le idee a fare la Storia) ma di disposizioni mentali che segnano in maniera indelebile un’epoca storica.

Per comprendere davvero il nostro tempo, a mio avviso, occorre prendere coscienza della ‘rivoluzione culturale’ che lo distingue dalle epoche passate, finite nel ’68 come aveva ben compreso il compianto Roger Scruton. Si tratta della fine di quell’equilibrio tra etica e politica, tra morale e diritto, tra religione e scienza, fra passato e avvenire che aveva fatto grande l’Occidente e che costituiva la stessa ragion d’essere del vecchio Stato nazionale – anello di congiunzione, per adoperare una splendida metafora di Pierre Manent tra l’universo e la tribù. Uno studioso della Scuola di Raymond Aron, Marcel Gauchet così ne parlava: «E’ precisamente nel quadro degli Stati-nazione, e in esso soltanto, che l’individuo universale ha potuto prender corpo. E questo il motivo che ha portato all’adozione di tale forma politica. La finitudine umana ci condanna a non poter accedere all’universale se non all’interno del particolare. Le Nazioni sono l’espressione politica della particolarità sociale che ha consentito di pensare l’universalità dei diritti dei loro membri, ovverosia il loro superamento in una federazione pacifica di particolarismi. Non prendiamone le distanze senza prima aver valutato quel che dobbiamo a esse».

Oggi, sui piani alti della cultura politica si assiste, per restare nella metafora di Manent, alla cancellazione della ‘tribù’ e al trionfo su tutta la linea dell’’universo’. E’ come se la mens illuministica avesse imposto le sue misure: a ciò che è ‘particolare’ – la comunità umana che persegue un suo interesse specifico che può entrare in conflitto con gli interessi di altre comunità – non viene quasi più riconosciuto uno status morale, una sua ‘ragione sociale’ o ‘ragion di Stato’.

La stessa endiadi gloriosa delle rivoluzioni atlantiche: i diritti dell’uomo e del cittadino va in frantumi. I ‘diritti del cittadino’ sono legittimi finché non cozzano contro i diritti dell’uomo. La Politica, che trova nello Stato il suo luogo naturale, diventa un cane mastino a guardia del Diritto e della Morale: le sue frontiere sono le mura di cinta delle ville del privilegio, il cui accesso viene impedito ai dannati della terra. (v. il ‘diritto cosmopolitico’ del filosofo del diritto, un altro allievo del neo-illuminista Norberto Bobbio, Luigi Ferrajoli). Le ‘appartenenze’ al plurale diventano, tutt’al più, ’qualità secondarie’ e nell’età dei diritti, conta solo l’appartenenza al genere umano. E’ esemplare quanto scriveva Voltaire nella VI ‘lettera inglese’: «Entrate nella Borsa di Londra, luogo più rispettabile di tante corti; vi trovate riuniti, per l’utilità degli uomini, rappresentanti di tutte le Nazioni. Là, l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e chiamano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta; là, il presbiteriano si fida dell’anabattista, e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste libere e pacifiche riunioni, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; questo va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; quello fa tagliare il prepuzio di suo figlio e fa mormorare sul bambino parole ebraiche che non comprende; altri vanno nella loro chiesa col cappello in testa ad attendere l’ispirazione divina, e tutti sono contenti». Sembra il manifesto della globalizzazione economica: è, in ogni caso, la sintesi dei tre universalismi che oggi tengono il campo. L’universalismo economico: si produce, si vende e si compra là dove c’è più convenienza. L’universalismo etico: gli uomini sono tutti uguali, sotto ogni latitudine e longitudine. L’universalismo giuridico: la cittadinanza deve essere sempre più inclusiva. Come ha ben sintetizzato Fernando Savater, nel libro Contro le Patrie (Ed. Elèuthera 1999): «Nell’evoluzione delle idee politiche, tutto ciò che ha qualcosa di progressista e di emancipatorio va in una direzione di riaffermare il carattere convenzionale e ‘artefatto’ dell’organizzazione sociale. Al contrario, tutto quanto insiste nel ‘naturalizzare’ la gerarchia sociale o nel ‘sovrannaturizzarla’ (sovente ambedue gli impegni apparentemente antitetici funzionano in modo complementare) è inequivocabilmente reazionario. Da qui il ripudio illuministico della teocrazia e del razzismo, del diritto divino dei re e dei ceti socialmente superiori per sangue, della schiavitù e delle leggi inappellabili del divenire storico. ‘Nazionalismo’, ‘patriottismo’, sono ideologie che, già nella loro etimologia, si richiamano più alla biologia che al patto sociale».

Diceva il vecchio Hegel che la tragedia umana sta nel fatto che a scontrarsi non sono quasi mai una ragione e un torto ma sovente due ragioni. Se questo è vero, il nostro tempo ha eliminato la tragedia sostituendola col dramma (rassicurante) della lotta dei buoni contro i cattivi. Solo all’etica universalistica (kantiana) è stata riconosciuta l’eccellenza mentre alla Nazione tribalizzata – sono state impresse le stimmate del fascismo.

E’ una frattura epocale che si fonda sulla rimozione della storia: definito il fascismo come negatività assoluta non si è più in grado di comprenderlo come la trasformazione del buon dottor Jekyll (lo Stato liberale risorgimentale) nel bieco Mister Hyde: trasformazione dovuta a contesti istituzionali e a sfide storiche, non inventati dalle camicie nere ma abilmente sfruttati. In quello che considero uno dei testi fondamentali per la comprensione della genesi e della natura del fascismo, la Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma, (Ed. Il Mulino 2012) Roberto Vivarelli scrive: «Il fascismo, tanto più alle sue origini, non si definisce propriamente in termini di classe, ma di adesione o meno allo Stato nazionale e ai suoi valori e di rapporto con la tradizione risorgimentale». Cent’anni fa, e non solo in Italia, si ebbe la lacerazione tra la classe e la nazione. Oggi abbiamo quella tra il mondo e la nazione: tra quanti economicamente, culturalmente, antropologicamente vivono un’esistenza che sta oltre le frontiere nazionali e quanti si vedono nel loro abbattimento la fine della ‘protezione sociale’. E’ un vero e proprio ‘scontro di civiltà’ che rischia di fare a pezzi la democrazia liberale giacché questa richiede la condivisione di valori iscritti, soprattutto, nell’etica pubblica, e quando si affrontano non più avversari divisi dal modo di realizzare le idealità comuni ma nemici ontologici – catapultati dall’Inferno – e al confronto pacifico e rispettoso delle parti subentra un’interminabile guerra civile. E’ da un secolo, per tornare nel nostro Paese, che gli antifascisti sono considerati anti-italiani, ovvero nemici della comunità nazionale, e i fascisti (nazionalisti, sovranisti, razzisti etc.) non-umani, giacché ignari dell’eguaglianza di tutti i figli della terra. Con la sua trentennale riflessioni storiografica sul fascismo, Renzo De Felice aveva fatto opera elevata di educazione civica consentendo agli Italiani il disarmo degli spiriti e una riappropriazione del passato nel segno della comprensione e non della demonizzazione. Ma la sua fu la classica vox clamantis in deserto.

Pubblicato su Il Dubbio