Paralisi sanitaria

La buona notizia è che, da circa un mese e mezzo, nella maggior parte dei paesi del mondo l’epidemia sta battendo in ritirata. La cattiva notizia è che in Europa sono molti i paesi in cui la ritirata è lenta, o non è affatto in corso, o addirittura i ricoveri ospedalieri sono in aumento. Fra i grandi paesi europei i due messi peggio sono la Francia e l’Italia, dove non solo le cose non stanno migliorando, ma da qualche giorno manifestano una chiara tendenza al peggioramento. Per un’infausta congiunzione astrale la nascita del governo Draghi è avvenuta esattamente nel momento in cui l’epidemia, ancora pericolosamente diffusa ma comunque in lieve regresso, ha invertito il suo cammino e ha ripreso a correre.

Di qui lo spiazzamento dei partiti che sostengono il governo. L’istinto di Lega, Forza Italia (e pure di Italia Viva, a quel che sembra) è di spingere per allargare il perimetro della normalità, il che – in buona sostanza – vuol dire ragazzi a scuola, mezzi di trasporto pieni, bar e ristoranti aperti anche la sera. Quello della triplice Pd-Leu-Cinque Stelle è di continuare con la politica dell’Italia a colori, sperando che l’evoluzione dell’epidemia consenta presto di attenuare la morsa delle chiusure, ma ben sapendo che ciò non avverrà e quindi non potremo far altro che assistere a qualche nuovo giro di vite.

Il risultato è la paralisi, in perfetta continuità con il governo precedente. Ma forse oggi la difficoltà di imboccare una strada ben definita, indicando e spiegando al paese una comprensibile via di uscita, è ancora maggiore di un mese fa.

Salvini dichiara che “parlare già oggi di una Pasqua chiusi in casa non è rispettoso degli italiani”, come se nel giro di poche settimane la drammatica situazione attuale potesse retrocedere, e come se l’Italia fosse l’unico grande paese europeo in cui si pianificano chiusure a medio e lungo termine. La triplice Pd-Leu-Cinque Stelle ha buon gioco ad accusare Salvini di imprudenza, perché l’epidemia galoppa e gli esperti (questa volta quasi tutti: governativi e indipendenti) prevedono che, se nulla si farà, a Pasqua i casi saranno molti più di adesso.

Ora però c’è una complicazione, rispetto a un mese fa. Essendo al governo, e non potendo sconfessare l’operato dei ministri di Pd-Leu-Cinque Stelle, anche la destra è imbavagliata. Se fosse una destra seria e libera, farebbe la lista delle cose che il governo rosso-giallo non ha fatto, e che avrebbero evitato il riesplodere del contagio. Chiederebbe che quelle cose finalmente si facessero, per permettere – fra qualche mese – un vero ritorno alla normalità. E spiegherebbe agli italiani che la promessa di vaccinare il 70% dei cittadini entro l’estate non è credibile, e serve solo a non farle per l’ennesima volta, quelle benedette cose che si potevano e dovevano fare, se non si volevano vanificare i nostri sacrifici.

Quali cose?

Sono una dozzina, ma ne ricordo almeno sei: test di massa (almeno 300 mila tamponi molecolari al giorno), aumento degli addetti al contact tracing, rafforzamento del trasporto locale, protocollo nazionale di cure domiciliari, aumento del numero di sequenziamenti, controllo delle frontiere.

Ma quelle cose, nei lunghi mesi della pandemia, la destra non le ha mai invocate né pretese con la dovuta convinzione, preferendo quasi sempre puntare sul comodo binomio ristori-riaperture. Ciò ha finito per cucire addosso alla sinistra l’abito che ora indossa, e la fa apparire come il saggio “partito della prudenza”, che si oppone all’irrazionale e antiscientifico vitalismo di Salvini. Un partito, quello della prudenza giallo-rossa, cui nessuno, da destra, chiede conto del proprio operato precisamente perché la destra – anziché incalzare il governo sulle cose non fatte – ha finito a sua volta per autocucirsi addosso l’abito opposto e contrario, quello che la fa apparire come il partito delle riaperture, incauto e indifferente alle fondate preoccupazioni della scienza.

Ecco perché, sul piano della politica sanitaria, il governo Draghi appare come una (sia pur bella) copia del governo precedente, di cui non può che ereditare l’immobilismo su tutto ciò che esula dalla scontata battaglia per avere i vaccini. Intrappolati dalle loro condotte passate, i rappresentanti della destra e della sinistra sono condannati a combattersi (e a negoziare) solo intorno al falso dilemma apertura-chiusura. Come se un po’ di prudenza in più o in meno potesse cambiare il nostro destino. Mentre la realtà è tanto semplice quanto sconfortante: stringere o allentare di qualche maglia le catene della nostra prigione serve solo a spostare di qualche settimana la data in cui i nostri ospedali potrebbero non farcela più.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 febbraio 2021




Il virus dell’autoritarismo

Nell’ultimo articolo avevo analizzato i diversi metodi di contrasto al virus adottati nel mondo, mostrando come ve ne sono almeno tre che si sono dimostrati efficaci (anche se in misura diversa) nei paesi avanzati dell’Estremo Oriente e dell’Oceania (che chiamerò “paesi del Pacifico”, dato che si trovano tutti nell’area del Pacifico Ocidentale) e, almeno nella prima fase, anche in molti paesi dell’Europa del Nord e dell’Est.

Incredibilmente, nessuno di tali metodi è stato però adottato dai paesi leader dell’Occidente. A un anno esatto di distanza dall’inizio ufficiale dell’epidemia in Europa, con la scoperta dei primi casi a Codogno il 20 febbraio 2020, è venuto il momento di chiedersi: perché?

Se fossi un complottista, la risposta sarebbe facile: infatti, anche se nessuno lo ammetterebbe mai, il virus fa comodo a un bel po’ di gente, a cominciare dalla Cina, che, essendo uscita dall’emergenza già da molti mesi, sta inondando i mercati con le sue merci in sostituzione di quelle che noi non riusciamo più a produrre. Addirittura, nel suo discorso di fine anno il presidente Xi Jinping è arrivato a definire il 2020 «un anno ottimo per il nostro paese» e per una volta non era la balla di un dittatore (quale lui è: cerchiamo di ricordarcelo), ma la pura e semplice verità. Ma il virus fa comodo anche ai governi e, più in generale, alle élites occidentali, che da tempo attraversano una grave crisi di credibilità, che grazie all’emergenza è stata, se non proprio superata, quantomeno temporaneamente accantonata.

Sarebbe quindi facile sostenere, come molti in effetti fanno, che la pandemia è frutto di un piano ordito dai dittatori di Pechino in combutta con le suddette élites occidentali. Questa teoria, però, come tutti i complottismi, si scontra con evidenze indiscutibili, prima fra tutte il fatto che è certo possibile mettere in moto intenzionalmente un processo del genere, ma nessuno sarebbe in grado di prevederne la successiva evoluzione. Inoltre, soltanto un pazzo metterebbe in circolazione un virus letale sul proprio territorio, tanto più senza disporre ancora di un antidoto: e i cinesi tutto sono tranne che pazzi. Quanto alle élites occidentali, è vero che questa vicenda le ha finora rafforzate, ma su tempi più lunghi il disastro economico che sta causando rischia di avere l’effetto opposto.

Inoltre, non solo non vi è nessuna evidenza che il virus sia stato lasciato entrare e dilagare intenzionalmente in Europa, ma, al contrario, ve ne sono molte che ciò sia dovuto ad altre cause, che sono già state ampiamente analizzate in altri articoli apparsi su questo sito, sia miei che di Ricolfi e di altri suoi collaboratori, che perciò mi limiterò a elencare, senza andare di nuovo a discuterle.

Anzitutto, incompetenza, ignoranza, limiti intellettuali e a volte perfino psicologici di molti leader ed esperti o presunti tali; poi, internazionalismo a parole, che ha portato al rifiuto ideologico di chiudere le frontiere (come invece facemmo ai tempi della Sars, avendo appena 4 contagi e zero morti) e provincialismo di fatto, che ha portato a concentrarsi solo su ciò che accade in Europa e Stati Uniti, senza guardare agli esempi virtuosi dei paesi del Pacifico; incomprensione della “matematica” delle epidemie, che ha portato ad adottare le misure preventive nella sequenza sbagliata (prima quelle blande, poi quelle dure, anziché viceversa); quindi vanità e presunzione, che hanno portato a credere al mito dell’inesistente “modello Italia”; e infine indisponibilità ad ammettere i propri errori, che hanno portato a ripeterli più volte.

Inoltre, ha pesato molto il caso, poiché sfortuna ha voluto che il primo paese europeo ad essere colpito dal virus sia stata l’Italia, che in quel momento era retta dal governo più inetto e incompetente di tutta la storia delle democrazie moderne, particolarmente (benché niente affatto esclusivamente) nella componente dei 5 Stelle, un partito che ha modellato il suo metodo su quello dei social media e il suo programma sulla pseudoscienza da blog (vedi il mio saggio Il partito di Internet, in Miti, simboli e potere, Albo Versorio, Milano 2018, pp. 333-344).

Non sapendo che pesci pigliare, ai nostri governanti non è parso vero che qualcun altro decidesse per loro, cosicché hanno seguito ciecamente tutte le disastrose indicazioni della OMS, che ha ricambiato la cortesia additandoci al mondo intero come il modello da seguire, anziché, come sarebbe stato suo dovere, quei paesi del Pacifico che fin dalla prima fase avevano fatto cento volte meglio di noi (dove “cento volte” non è un’espressione retorica, ma l’esatto ordine di grandezza del divario esistente tra noi e loro). E così Conte ha trascinato con sé nell’abisso non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente.

Tutto ciò premesso per onestà intellettuale, va però detto che la stessa onestà intellettuale impone di riconoscere che, una volta fatta la frittata, molti si sono accorti che dopotutto non era così indigesta, almeno per loro. Fuor di metafora, le élites occidentali non hanno intenzionalmente causato la pandemia, ma l’hanno intenzionalmente sfruttata a scopi di potere, cosa di cui vi sono molte prove, tanto incontestabili quanto preoccupanti.

Anzitutto, infatti, è evidente che questa situazione ha aiutato moltissimo tali élites, largamente dominanti nei palazzi del potere, ma sempre più invise ai rispettivi popoli, a mettere in riga i partiti antisistema, accusando chiunque si azzardasse a criticare le scelte dei governi di essere un “negazionista”, certo facilitati – questo va riconosciuto – dal fatto che tali movimenti tendono effettivamente ad assumere posizioni di questo tipo.

Ciò si è visto con la massima chiarezza negli USA, dove senza tutte le idiozie che ha detto sul virus Trump avrebbe asfaltato Biden come un rullo compressore, tant’è vero che perfino così ha rischiato di vincere (perché negli Stati chiave la differenza è stata di poche migliaia di voti, anche se adesso preferiamo dimenticarlo). Ma la situazione è simile in tutta l’Europa occidentale e in particolare in Italia, dove in condizioni normali lo sgangherato governo giallorosso sarebbe caduto molto prima. Anche il sostegno incondizionato ricevuto dagli altri paesi, nonché gli ormai mitici 209 miliardi del Recovery Fund, sembrano essere stati concessi a Conte assai più in riconoscimento dei suoi “meriti” nel mettere all’angolo Salvini e Meloni a colpi di (illegali) DPCM che non di quelli (inesistenti) nel gestire l’epidemia.

Sia chiaro, però, che non sto dicendo che esista un’unica regia che spiega tutto ciò che sta accadendo, né a livello italiano né, tantomeno, europeo e mondiale: ho già detto che non credo al complottismo, né in generale né per quanto riguarda la genesi e la diffusione dell’epidemia e non ci credo neanche per quanto riguarda la sua strumentalizzazione a fini politici. Certo, complotti di portata limitata sono possibili e anche in questo caso alcuni ci sono sicuramente stati, ma a livello globale non funziona così. Come ha detto qualcuno che se ne intende, «non c’è uno che dà le carte, c’è un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono». Sono parole di Luca Palamara (Il Sistema, Rizzoli 2021, p. 221), quel gentiluomo che è stato a lungo il garante di quello che lui chiama “il Sistema” e che per decenni ha deciso e continua tuttora a decidere tutte le cariche importanti della magistratura italiana. Valgono anche nel nostro caso, soltanto un po’ più in grande.

Qui, infatti, il “blocco culturale omogeneo” comprende praticamente tutte le nostre classi dirigenti (politici, giornalisti, magistrati, intellettuali, docenti universitari e – ahimè – anche scienziati) che si riconoscono in quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che ha definito molto esattamente come «un modo di operare […] basato su almeno due caposaldi: I) la subalternità rispetto agli organismi sovranazionali […]; II) la sacralizzazione della globalizzazione, del commercio internazionale e della circolazione delle persone» (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia, La nave di Teseo 2021, pp. 22-23). Il primo di tali caposaldi, infatti, ha portato a ubbidire ciecamente alla OMS, mentre il secondo ha impedito la tempestiva chiusura delle frontiere.

È facile per chiunque vedere come tale ideologia ricomprenda ormai praticamente tutto l’arco costituzionale, dall’estrema sinistra fino alla destra moderata, lasciando all’opposizione solo la destra “populista”, o, più esattamente, quella che viene ritenuta tale per definizione, dato che questa è l’unica “casella” che viene lasciata (intenzionalmente) libera e in cui, di conseguenza, vengono, per l’appunto, “incasellati” tutti i movimenti eterodossi, a dispetto di qualsiasi differenza possa sussistere tra di essi.

In effetti, lo stesso termine “populista”, per come viene usato, ha ormai perso qualsiasi significato definito, per trasformarsi in una pura “etichetta” usata per demonizzare gli avversari, proprio come quella di “fascista” negli anni Settanta, tanto che potremmo addirittura formulare un terzo “caposaldo” dell’ideologia suddetta come segue: «III) Chiunque non accetti i primi due principi viene automaticamente catalogato come “populista” e, di conseguenza, considerato un “impresentabile” da emarginare al più presto dalla scena politica con qualsiasi mezzo possibile». E ciò vale non solo verso le singole persone, ma anche verso gruppi, partiti e addirittura interi Stati.

Il caso più impressionante è quello dell’Inghilterra, che, pur essendo uno dei paesi più potenti del mondo, nonché uno di quelli che più di tutti hanno contribuito a creare la suddetta “ideologia europea”, da quando l’ha radicalmente messa in discussione, non solo teoricamente, ma in pratica, con la Brexit, è improvvisamente passata tra i “cattivi” per definizione e da allora viene regolarmente denigrata da giornalisti e intellettuali (a cominciare dai suoi) a prescindere, con il più sovrano disprezzo per i fatti. Solo per fare un esempio, si è a lungo sostenuto che non essendo più in Europa avrebbe avuto problemi a trovare i vaccini, mentre la realtà è esattamente opposta: a faticare siamo noi, mentre l’Inghilterra (che ha sempre fatto molto meglio, anche prima che iniziassero i ritardi nelle forniture) ha già vaccinato oltre un quarto della sua popolazione, contro una media UE di circa il 6%, cioè quasi 5 volte inferiore (numeri vaccini italia-mondo). Eppure, avete mai sentito qualcuno ammetterlo, magari aggiungendo: “Scusate, avevo sbagliato?” No? Ecco, appunto…

Anzi, all’inizio, con un meschino trucchetto che la dice lunga sul suo infimo livello culturale e morale, il nostro governo non considerava nemmeno l’Inghilterra un paese europeo per poter sostenere che eravamo i secondi in Europa per numero di vaccinazioni, versione riveduta e corretta del mito del “modello Italia”, che per fortuna non ha fatto presa, dato che era altrettanto infondata della prima, basandosi sui numeri assoluti, che non significano nulla, anziché, come dovrebbe essere, sulla percentuale di popolazione vaccinata. Per la cronaca, l’Italia è attualmente al 42° posto nel mondo con il 5,7% di vaccinati, un po’ meno della media europea, il che – attenzione! – non significa che siamo al livello di tutti gli altri paesi europei, bensì che circa metà di essi (tra cui parecchi assai meno progrediti di noi) hanno fatto meglio e l’altra metà peggio, anche se le differenze, in entrambi i sensi, sono abbastanza piccole.

Altrettanto facile è vedere come questa ideologia in realtà non coinvolge soltanto l’Europa, ma anche USA, Canda e buona parte dell’America Latina, per cui dovremmo forse chiamarla, più correttamente, “ideologia atlantica”, anche per marcare maggiormente la contrapposizione con i paesi del Pacifico, che non la condividono (per lo stesso motivo eviterei invece di parlare di “ideologia occidentale”, dato che Australia e Nuova Zelanda, che guidano il gruppo del Pacifico, culturalmente appartengono all’Occidente). In particolare, è evidente l’uso demonizzante che anche in America viene fatto del termine “populista” nei confronti di tutti coloro che rifiutano tale ideologia, come per esempio Trump negli USA o Bolsonaro in Brasile.

Attenzione: con questo non sto dicendo che i suddetti non si meritino tale qualifica, ma soltanto che essa non viene attribuita a loro o a chiunque altro perché se la merita, ma perché non accetta l’ideologia di cui sopra. Se invece uno la accetta, anche solo a parole, poi può permettersi di fare tutto quel che gli pare senza praticamente suscitare proteste, come per esempio il dittatore venezuelano Maduro o il suo predecessore Chavez, che hanno ridotto alla fame uno dei paesi potenzialmente più ricchi della Terra nella più totale indifferenza dei nostri leader politici e intellettuali. Nemmeno la dittatura cinese, nonostante le sue gravissime e ormai accertate colpe nella diffusione del virus (oltre che in molte altre cose), viene trattata – neanche lontanamente – con la stessa ostilità riservata ai “populisti” di cui sopra: basti pensare alle nostre piazze piene (giustamente) per le violenze della polizia americana contro i neri, ma desolatamente vuote di fronte alle violenze (ben peggiori) della polizia cinese contro i manifestanti di Hong Kong.

Si capisce quindi perché tale ideologia stia suscitando una crescente insofferenza in gran parte della popolazione occidentale. E si capisce anche perché la reazione contro di essa prenda spesso forme sguaiate, “impresentabili” o addirittura violente: poiché infatti la quasi totalità delle persone istruite è organica al sistema, i “ribelli” faticano terribilmente a trovare leader all’altezza, per cui molti, pur non essendo affatto degli estremisti, finiscono col votare “turandosi il naso” per personaggi che in condizioni normali non si sognerebbero mai di prendere in considerazione.

Mi sono reso conto di colpo di quanto fosse diventato profondo questo fenomeno nel 2016, quando per la prima volta nella mia vita ho sbagliato il pronostico su un’elezione politica, non prevedendo la vittoria di Donald Trump. Riflettendo sulle ragioni che mi avevano indotto in errore, mi sono reso conto che mi ero concentrato quasi esclusivamente sulla popolarità di Trump, che giudicavo (giustamente) sufficiente per competere, ma non per vincere, mentre avevo dato per scontato (erroneamente) che quella di Hillary fosse calata solo di poco rispetto ai tempi d’oro, senza rendermi conto di quanto invece fosse ormai odiata da gran parte della popolazione. Ma il fenomeno non è solo americano: tutti gli “impresentabili” del nostro tempo, da Bolsonaro a Orbán, da Salvini alla Le Pen, vincono in questo modo.

D’altra parte, neanche gli “impresentabili” sono sempre realmente tali, giacché vale anche per i leader ciò che vale per i loro seguaci: non tutti sono davvero estremisti, ma, di fronte a un sistema che non li considera avversari da battere, ma nemici da distruggere e li spinge comunque ai margini, spesso scelgono di apparire tali per ragioni elettorali, in modo da raccogliere i voti dei veri estremisti, secondo la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. In realtà, però, molti di loro (benché non tutti: lo ripeto a scanso di equivoci) sarebbero ben felici di “civilizzarsi” e interloquire pacatamente con i rappresentanti dell’establishment, se tra di essi trovassero interlocutori disposti ad ascoltare le loro ragioni.

Ciò spiega, per esempio, come mai la Lega, il cui “zoccolo duro” è costituito essenzialmente da imprenditori del Nord che con l’Europa ci lavorano continuamente, pur non amando la sua ideologia, abbia subito accettato l’invito di Draghi, che per l’appunto è, o almeno potrebbe essere, uno di tali interlocutori più aperti. Tuttavia, la stragrande maggioranza dei nostri commentatori politici hanno prima respinto come “impossibile” tale eventualità e poi, quando i fatti hanno dimostrato il contrario, hanno cercato di presentarla o come un tentativo contro natura destinato a sicuro fallimento o come l’inizio di una sorta di cammino di “conversione” all’ideologia di cui sopra, benché sia piuttosto evidente che non è né l’una  né l’altra cosa.

E qui arriviamo al punto più preoccupante. Quella che Ricolfi ha chiamato “ideologia europea” e che io ho qui ribattezzato “ideologia atlantica” è in effetti solo un’applicazione particolare (benché ovviamente assai eclatante) di un’ideologia ancora più ampia: quella del “politically correct”. Ed è proprio da essa che nasce il virus dell’autoritarismo che si sta propagando insieme a quello del Covid.

L’aspetto più paradossale del politically correct è che, volendo abolire qualsiasi tipo di discriminazione, a prima vista sembra l’esatto opposto dell’autoritarismo, ma in realtà è l’esatto opposto della tolleranza. Quest’ultima, infatti, si esercita, per definizione, verso le idee che non si condividono: essa, perciò, presuppone il disaccordo e di conseguenza la critica, purché non si traduca in discriminazione.

Ma per il politically correct la critica – qualsiasi critica – va considerata di per sé stessa una discriminazione, perché può offendere la sensibilità di chi la riceve, il che in certa misura è anche vero. Il problema, però, è che vietare le critiche è un rimedio molto peggiore del male, giacché si traduce di fatto nel pretendere che le idee altrui non debbano solo essere tollerate, ma anche condivise, il che equivale a negare la libertà di opinione, anzi, addirittura la libertà di coscienza, dato che chi non ci sta non va semplicemente ridotto al silenzio, ma “rieducato” e, se si rifiuta, ostracizzato ed espulso dalla società civile.

Tale tendenza è presente nella nostra società da parecchio tempo, ma il virus le ha fornito su un piatto d’argento l’occasione perfetta per fare un ulteriore salto di qualità, perché ovviamente è molto più facile convincere la gente a emarginare qualcuno se si dice che non solo costui è brutto, sporco e cattivo, ma sta anche mettendo in pericolo la salute di tutti. Così è nato il “pandemically correct”, che non ha fatto altro che adattare alla situazione gli stessi meccanismi del politically correct “classico”: creazione di alcune “parole d’ordine” considerate “buone” per definizione; loro imposizione attraverso un’ossessiva campagna mediatica; demonizzazione di chi chiunque dissenta, considerato per definizione “negazionista” a prescindere dal merito delle sue affermazioni; conseguente deriva dei dissidenti moderati verso posizioni estremiste per mancanza di leader dissidenti moderati; e infine, a chiudere un circolo palesemente vizioso, ma a suo modo perversamente perfetto, uso strumentale di tale fenomeno per “dimostrare” la bontà delle parole d’ordine suddette indipendentemente dalla loro reale efficacia.

Una volta di più voglio ribadire che non sto dicendo che ciò sia frutto di un complotto planetario: anche qui non c’è nessun Grande Fratello che “dà le carte”, bensì, di nuovo, “un blocco culturale omogeneo che si muove all’unisono”. Tuttavia, è almeno possibile indicare quale parte del suddetto “blocco” è quella che ha maggiore influenza, creando e diffondendo le “parole d’ordine” a cui tutti si devono adeguare, che è poi la stessa che da tempo crea quelle del politically correct classico: si tratta essenzialmente delle grandi burocrazie nazionali e, soprattutto, internazionali, nonché dei grandi giornali e delle grandi televisioni e degli intellettuali organici a tale sistema, che sono in realtà una piccola minoranza, ma dettano legge a tutti.

Per questo a partire dal 2013 ho cominciato a parlare al proposito di “totalitarismo burocratico”, anche se in forma scritta credo che l’espressione compaia per la prima volta solo nella seconda edizione del mio libro La scienza e l’idea di ragione (Mimesis 2019). L’impressionante velocità con cui è stato creato e imposto a tutti il gergo del pandemically correct la dice lunga sul preoccupante grado di efficienza che tale meccanismo ha ormai raggiunto.

Quanto alla sua funzione “rieducativa” e quindi alla natura autoritaria (e tendenzialmente totalitaria) della mentalità da cui nasce, si potrebbero addurre centinaia di esempi, anche se per forza di cose qui ne potrò fare molti meno e saranno in gran parte italiani, ma ciò non significa che altrove le cose vadano diversamente. Comincerò da due dichiarazioni, particolarmente inquietanti e quindi particolarmente significative.

La prima è di Alberto Villani, presidente della Società Italiana di Pediatria nonché membro del Comitato Tecnico Scientifico, il quale a settembre, in occasione della riapertura delle scuole, aveva dichiarato al TG1 della sera che per i bambini portare la mascherina per 5 ore filate «non è un problema, soprattutto se hanno il buon esempio in casa», sottintendendo quindi, neanche tanto velatamente, che se per caso qualche bambino avesse protestato i colpevoli sarebbero stati i genitori, che evidentemente gli davano il cattivo esempio. Per la cronaca, si tratta dello stesso signore che il 5 gennaio, quando il disastro era ormai tale che nemmeno Conte osava più parlare di “modello Italia”, in un’intervista rilasciata a La Stampa ha dichiarato che la colpa dell’aumento dei contagi era dei cenoni di Capodanno e che «sinceramente non farei cambio con nessuno: con tutti i suoi limiti, la situazione italiana è migliore di quella americana e inglese», benché in quel momento l’Italia avesse 1263 morti per milione di abitanti, l’Inghilterra 1121 e gli USA 1098. Certo, se questi sono i consulenti del governo, allora si capiscono molte cose…

La seconda è di Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, che, ancora su La Stampa del 21 dicembre scorso, dopo aver mosso molte giuste critiche all’operato del governo, invece di concluderne, come logica avrebbe voluto, che dunque quest’ultimo avrebbe dovuto adottare misure diverse e più efficaci, con un triplo salto mortale senza rete affermava recisamente, senza addurre nessuna prova a sostegno, che «una politica  seria dovrebbe assumersi l’onere della chiusura responsabile e affrontare il difficile compito di far comprendere ai cittadini che la vita di prima non tornerà». Forse la mia illustre collega avrebbe bisogno di una vacanza per schiarirsi le idee, magari a Taiwan, in Australia o in Nuova Zelanda, dove, oltre a sole e mare in quantità, troverebbe “la vita di prima” già tornata da un bel pezzo…

Tuttavia, l’aspetto che mostra con maggiore evidenza la suddetta tendenza autoritaria è il tentativo, più volte denunciato anche da Ricolfi, di incolpare i cittadini di quello che in realtà è un fallimento dei governi. Certo, anche questo per un verso fa parte della loro strategia di autogiustificazione, ma c’è in esso anche qualcosa di più perverso, che ha espresso in modo impareggiabile Massimo Cacciari, a cui lascio quindi la parola.

«A partire dallo sciagurato slogan del “distanziamento sociale”, invece che di “distanza di sicurezza” o formule analoghe, è purtroppo del tutto evidente il punto di vista culturale con cui il “messaggio” è stato concepito. Quello slogan poteva venire in mente soltanto a chi ritenga un pericolo la prossimità, un’assemblea o una manifestazione un irragionevole “assembramento”, il “lieto romore” che fanno i fanciulli gridando “su la piazzola in frotta… e qua e là saltando” un intollerabile baccano. […] Ogni energia è spesa a convincerci che è in fondo più comodo lavorare di fronte a un pc che convivere e cooperare “in presenza” con colleghi, amici e magari anche nemici, che quella bella leopardiana “movida” può essere sostituita da qualche chat, che la pizza è altrettanto buona seduti sul divano di fronte a mamma tv che con gli amici in pizzeria. Invece di suscitare l’ardente desiderio di fare tutto il necessario per uscire al più presto dalla miseria dell’attuale situazione, la propaganda “in rete” ci vuole convincere che la vita del pensionato è ottima e forse, anzi, ideale. […] Bisogna, credo, insorgere contro questa deprimente narrazione, sintomo di una generale senescenza delle nostre società» (Ora proviamo a essere eroi per un anno, su La Stampa del 2/1/2021, pp. 1-19).

Mi permetto solo di aggiungere a tale esattissima descrizione che non è solo contro la senescenza che dobbiamo insorgere, perché essa va qui insieme a qualcosa di ancor peggiore. Infatti, la colpevolizzazione moralistica dei semplici piaceri della vita è da sempre tipica di tutti i regimi autoritari, perché solo chi non è contento della propria vita è disposto a venderla al potere di turno: come ha scritto una volta Clive Staples Lewis, «ho conosciuto un essere umano che ha trovato la difesa contro forti tentazioni di ambizione sociale in un gusto ancor più forte per la trippa e le cipolle» (Le lettere di Berlicche, Mondadori, Milano 1998, p. 56).

Ora, questo qualsiasi dittatore o aspirante tale lo sa istintivamente in cuor suo, giacché egli per primo è così: un frustrato che cerca di compensare la sua incapacità di dominare la propria vita pretendendo di dominare quella degli altri, in particolare di quelli che la vita, a differenza di lui, se la sanno godere. Il grande psicanalista Giacomo Contri ha chiamato tale atteggiamento “odio logico” e l’ha riassunto nella formula “Ti uccido, dunque sono”, che non cambia molto se modificata in “Ti imprigiono, dunque sono”, equivalente “colto” del celeberrimo «State a casa o chiudo l’Italia!» pronunciato con tono da bullo di periferia dal premier-per-caso Giuseppe Conte all’inizio della crisi.

Da un lato, perciò, la pura e semplice esistenza di tali piaceri e di chi non vi vuole rinunciare è intollerabile per il dittatore di turno, giacché gli ricorda continuamente il suo fallimento esistenziale; dall’altro, a dispetto della loro apparente frivolezza, essi rappresentano per loro natura un punto di irriducibile resistenza contro qualsiasi potere, come aveva perfettamente chiaro George Orwell, colui che più di chiunque altro ne ha capito l’intima essenza. Non è un caso che anche Gesù Cristo ne avesse la massima considerazione e che per questo venisse giudicato dai moralisti di allora «un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7, 33): insomma, un tipo poco serio e probabilmente anche poco responsabile, esattamente come i fautori dell’odierno pandemically correct giudicano chiunque non si dimostri entusiasta di ubbidire ai loro dogmi.

Naturalmente, già conosco l’obiezione standard a queste considerazioni, perché è anch’essa una delle suddette parole d’ordine, che ci viene ossessivamente ripetuta: “I sacrifici sono duri, ma necessari”. Peccato solo che si tratti di una balla cosmica, perché questi sacrifici sono solo duri, ma per niente necessari, non essendo serviti praticamente a nulla, se è vero, come è vero, che siamo messi peggio perfino dei paesi del Terzo Mondo.

Anzi, proprio l’insistenza su questo aspetto è stata ed è tuttora la principale causa non del contenimento, bensì della diffusione del virus, perché è ciò che ha finora impedito di capire la sostanziale differenza tra il vero lockdown, duro, breve ed efficace, in cui si chiude davvero tutto, come in Cina, in Australia e in Nuova Zelanda (ma anche, almeno nella prima fase, in Grecia e un po’ in tutta l’Europa dell’Est e del Nord), e lo pseudo-lockdown all’italiana, meno duro, ma in compenso molto più lungo e molto meno efficace.

Da noi, infatti (e per “noi” intendo non solo l’Italia, ma tutti i paesi in cui dominano l’ideologia atlantica e il pandemically correct, quindi tutta l’Europa occidentale e le Americhe), quando si parla di chiudere “tutto” in realtà si sottintende sempre “tutto ciò che può causare assembramenti”: quindi negozi, locali pubblici, attività sportive (vedi, proprio in questi giorni, l’allucinante vicenda degli impianti sciistici) e perfino le elezioni, ma non fabbriche e uffici.

Eppure, non solo il buon senso, ma anche tutti gli studi scientifici, a cominciare da quello sui primi dati cinesi pubblicato il 26 febbraio 2020 (l’unica cosa buona fatta dalla OMS in questa sciagurata vicenda, i cui principali risultati restano validi ancor oggi), indicano che la probabilità di contagio è massima tra persone adulte che stanno a lungo in ambienti chiusi, mentre quella minima è all’aperto tra giovani. È quindi evidente che l’accanimento contro i mitici “assembramenti” e, in particolare, contro la ancor più mitica “movida” ha una motivazione essenzialmente ideologica. E, come ogni ideologia, ha prodotto risultati catastrofici per i popoli, ma che per certi versi fanno invece comodo a chi sta al potere.

Una volta di più, non sto dicendo che ci sia un piano a tavolino per prolungare artificiosamente la pandemia: la realtà è sempre molto più complessa del semplicismo complottista. E tuttavia è innegabile che proprio questo, oggettivamente, sia stato l’effetto prodotto dalle misure adottate dai nostri governi allo scopo di contenerla, così come è innegabile che a ciò abbia contribuito, insieme a tutte le altre cause prima ricordate, anche la tendenza autoritaria che punta alla rieducazione dei popoli europei attraverso l’uso terroristico del pandemically correct.

Altrettanto innegabile è che ci siano già stati vari tentativi di insinuare, con le scuse più varie, che forse anche dopo esserci liberati del virus dovremmo mantenere almeno alcune delle misure attuate durante lo stato di emergenza. Alcuni, come per esempio i produttori di sistemi informatici, lo fanno per evidenti interessi economici (tra parentesi, dovremmo sempre ricordarci che gli esperti di sistemi informatici sono sempre anche produttori o quantomeno progettisti degli stessi e quindi il loro parere non è mai esattamente disinteressato), ma in altri casi la motivazione è chiaramente ideologica, anche se “travestita” da tecnica.

Tale atteggiamento ideologico diventa ancor più evidente (e più preoccupante) se consideriamo i mass media, dove la volontà, largamente maggioritaria, di sostenere a tutti i costi i governi, fregandosene altamente di quanti morti stanno causando con i loro errori pur di sbarrare la strada ai “populisti”, è non solo palese, ma spesso anche esplicitamente dichiarata: basti dire che perfino Massimo Cacciari, che, come abbiamo appena visto, è uno dei pochi critici davvero intelligenti di Conte, ha sempre sostenuto che il suo governo “non aveva alternative”, benché ciò fosse palesemente falso, come i fatti hanno appena dimostrato.

Più in generale, la “sorpresa” da tutti dichiarata per la “geniale mossa” di Mattarella di dare l’incarico a Draghi (che invece era del tutto ovvia e scontata, essendo fin dall’inizio della crisi l’unica soluzione praticabile) in parte sarà anche stata dovuta a pura ottusità, ma in parte ben più grande è stata un palese quanto maldestro tentativo di nascondere il fatto che le “analisi” che indicavano come unica soluzione possibile il Conte-Ter altro non erano che pressioni mascherate da previsioni.

Ma c’è di più e di peggio. Infatti, almeno alcuni tentativi di strumentalizzare intenzionalmente l’informazione si sono certamente verificati. Lasciando stare, per il momento, tutto il tema della manipolazione del linguaggio, che è così ampio e importante che gli dedicherò un articolo a parte, gli episodi di disinformazione sono stati talmente gravi e ripetuti che possono essere definiti adeguatamente soltanto con la parola “censura”. Anche qui posso fare solo alcuni esempi, ma confido che basteranno.

Anzitutto, spero che tutti abbiano notato come tra le interviste fatte per strada alla gente dai vari TG non se n’è mai vista neanche una in cui l’intervistato criticasse l’efficacia delle misure governative dal punto di vista strettamente sanitario, il che è chiaramente impossibile e si spiega soltanto col fatto che in onda vengono mandate solo quelle in cui l’intervistato raccomanda di ubbidire alle regole (in certi casi con toni così auto-flagellatori che viene perfino il dubbio che la cosa sia stata concordata prima). Qualche eccezione viene fatta solo per i negazionisti veri e propri, in modo da dare la falsa impressione che tutti quelli che criticano le regole siano, appunto, negazionisti.

Un altro aspetto gravissimo è l’intollerabile doppiopesismo con cui vengono abitualmente giudicate le azioni dei “correct” e degli “incorrect”. Ho detto prima che Trump si è giocato la rielezione con le idiozie che ha detto sul virus, anche se poi le sue azioni sono state assai meno scriteriate delle sue affermazioni. Tuttavia, se queste ultime sono state (giustamente) bollate come “irresponsabili” e a volte perfino “criminali”, che dire del “buon” Biden e del “grande” Anthony Fauci, che hanno sempre dichiarato di volersi ispirare al “modello Italia”, nonostante che l’Italia abbia sempre avuto molti più morti per abitante degli USA? Usando lo stesso metro, anche queste affermazioni dovrebbero essere considerate irresponsabili e criminali esattamente come quelle di Trump, anzi, ancora di più, perché se fossero state messe in pratica avrebbero causato la morte di ancora più persone. Eppure, avete mai sentito qualcuno dirlo? No? Ecco, appunto…

Comunque, la cosa in assoluto più scandalosa è il totale silenzio sulle esperienze dei paesi del Pacifico, che in alcune occasioni ha toccato vette tali che più che di censura si dovrebbe parlare di riscrittura della realtà, sullo stile di 1984 di Orwell.

Fig. 1. Per la OMS Taiwan non esiste, in quanto è considerata parte integrante della Cina.

Un primo esempio, che ha dell’incredibile, è quello di Taiwan, che nella mappa del contagio del sito ufficiale della OMS nemmeno compare, essendo considerata parte integrante della Cina. E Taiwan non è un paese qualunque, dato che è quello che se l’è cavata meglio di tutti al mondo; appena 0,34 morti per milione di abitanti, che significa che noi ne dovremmo avere appena 20! Che nessuno abbia mai denunciato questo scandalo, nemmeno i media di opposizione, che pure avrebbero tutto l’interesse a farlo, può significare una sola, incredibile cosa: che nessun giornalista è mai andato a vedere i dati ufficiali della OMS, limitandosi a commentarne le affermazioni, che spesso sono in completo contrasto con quanto emerge dai suoi stessi dati, del che però nessuno si accorgerà mai, se nessuno li va mai a guardare. Ciò rappresenta un radicale tradimento della missione del giornalista, che è quella di informare (che significa innanzitutto informarsi) e non di dividere il mondo in buoni e cattivi in base a categorie ideologiche costruite a tavolino.

Fig. 2. Capodanno senza mascherine a Auckland. Secondo la RAI erano tutti in casa a guardarlo alla TV.

Non meno assurdo è il trattamento riservato ad Australia e Nuova Zelanda. Per esempio, in occasione del Capodanno tutti i TG della RAI del 31 dicembre e del 1° gennaio (li ho controllati e registrati uno per uno, quindi nessuno si azzardi a negare) hanno accuratamente evitato di mostrare, come invece è sempre accaduto in passato, le folle che festeggiavano in strada, senza distanziamenti e senza mascherine, a Auckland, Sydney e Melbourne (nonché a Taiwan, Singapore, Bangkok e in molti altri paesi in cui il contagio è azzerato da mesi), arrivando addirittura in alcuni casi a sostenere esplicitamente che anche lì la gente avrebbe visto i fuochi d’artificio soltanto da casa.

In un caso si è arrivati ad affermare che solo in Cina la gente era scesa in piazza, peraltro sempre con le mascherine, il che costituisce un’ulteriore menzogna, perché, come si vedeva anche nel servizio da Wuhan, solo alcuni la portavano, il che significa che era una scelta personale, perché se fosse stata obbligatoria ovviamente l’avrebbero avuta tutti.

Fig. 3. I tifosi si “assembrano” festosamente senza mascherine intorno a Luna Rossa nel golfo di Hauraki. La RAI, però, ha parlato solo del mini-lockdown di 3 giorni dovuto ad appena 3 contagi ad Auckland.

La stessa cosa si è ripetuta, ma in forma, se possibile, ancor più vergognosa, con la Coppa America in Nuova Zelanda e gli Open di Australia di tennis, dove i TG e la Domenica Sportiva hanno raccontato con dovizia di particolari le imprese di Luna Rossa e dei grandi tennisti, ma non hanno mai mostrato né menzionato il pubblico che assisteva senza limitazioni e senza mascherine. Durante le telecronache, invece, per forza di cose non hanno potuto evitarlo, ma l’unico commento che ho sentito, all’inizio delle regate nel golfo di Hauraki, è stato: “Beati loro!”, come se la libertà dal virus gli fosse piovuta dal cielo per grazia divina (sulle telecronache del tennis non ho informazioni perché per scelta non guardo le Pay TV, ma, visto l’andazzo generale, non mi aspetto nulla di diverso, anche se naturalmente sarei ben felice di essere smentito).

In compenso, TG e DS si sono invece subito affrettati ad annunciare il rinvio delle regate di martedì 16 e mercoledì 17 febbraio per un mini-lockdown di appena 3 giorni deciso dalla premier Jacinda Ardern per 3 soli contagi (peraltro probabilmente “importati”) scoperti ad Auckland. Anzi, il TG3 delle 14 di domenica 14 febbraio è arrivato al punto di mettere fra i suoi titoli di apertura che “in Nuova Zelanda il virus torna a fare paura”, naturalmente guardandosi bene dal dire che si trattava, appunto, di soli 3 casi, che fino a quel momento il pubblico aveva assistito alle regate in totale libertà e che il lockdown era stato deciso non perché la situazione fosse preoccupante, ma perché proprio nell’intervenire con la massima decisione al minimo segno di contagio, prima che la situazione diventi preoccupante, consiste la “dottrina Jacinda” che ha permesso ai neozelandesi di vivere una vita praticamente normale da maggio in qua, come ho spiegato nel mio articolo del 12/01/2021.

Fig. 4. Pubblico senza mascherine agli Australian Open di tennis. Anche qui, la RAI ha parlato solo del mini-lockdown di 5 giorni dovuto ad alcuni contagi “di importazione” nell’hotel dell’aeroporto di Adelaide.

Esattamente lo stesso è successo con gli Australian Open, dove la RAI non ha mai mostrato né commentato le immagini del folto pubblico che ha assistito alle prime giornate, ma ha invece subito annunciato il mini-lockdown di 5 giorni deciso per alcuni casi scoperti ad Adelaide, peraltro anch’essi chiaramente di importazione, essendosi verificati all’Holiday Inn, l’hotel dell’aeroporto. Anche qui, nessun cenno al fatto che sia prima che dopo si è giocato con il pubblico, dato che dal 16 ottobre a oggi in Australia ci sono stati appena 5 morti su 25 milioni di abitanti, né che questo risultato strabiliante (l’Italia da allora a oggi di morti ne ha avuti 58.000) è stato ottenuto grazie alla “conversione” dell’Australia alla suddetta “dottrina Jacinda” (vedi sempre mio articolo del 12/01/2021), né infine che il senso di questi mini-lockdown è consentire il tracciamento di tutti i possibili contagi già avvenuti senza che nel frattempo se ne verifichino altri, per poi tornare rapidamente a quella normalità che noi ci sogniamo ormai da un anno, mentre i neozelandesi ne godono già da 8 mesi e gli australiani da 4.

È chiaro che una distorsione così sistematica e “mirata” della realtà non può essere attribuita soltanto all’ignoranza e all’incompetenza (che pure la loro parte la giocano), ma implica necessariamente una strategia pianificata a tavolino, che nel caso della TV di Stato non può che provenire direttamente dal governo, mentre negli altri casi è con ogni probabilità frutto di un misto di pressioni governative e di altre interne allo stesso sistema mediatico.

Di alcuni casi ho anche testimonianze certe, ma purtroppo non posso citarle, perché conoscere i fatti e poterli provare in tribunale sono due cose separate e distinte. Io stesso mi sono visto rifiutare due articoli da due diversi quotidiani (di cui, per le stesse ragioni di cui sopra, non farò il nome) perché i giornalisti a cui li avevo proposti, pur condividendoli, mi hanno detto che la direzione non li avrebbe mai accettati, in un caso per paura di ritorsioni da parte del governo e nell’altro per non metterlo in difficoltà.

La cosa più paradossale, comunque, è che questa strategia sta ottenendo l’effetto esattamente opposto a quello che si propone, facendo crescere, anziché diminuire, il numero dei negazionisti, esattamente come il tentativo di imporre i dogmi della “ideologia europea” ha fatto crescere, anziché diminuire, il numero degli antieuropeisti.

Anche il motivo è lo stesso: se infatti chi capisce confusamente che c’è qualcosa che non va nella visione ortodossa proposta dall’establishment non trova qualcuno che sia capace di spiegargli in modo chiaro e convincente che cosa esattamente non va, finirà per andar dietro a chiunque capiti, anche se ha le idee confuse come e perfino più delle sue, purché si opponga a politiche che ormai vengono ritenute inaccettabili, non tanto perché richiedono sacrifici, ma – giova ripeterlo – perché richiedono sacrifici inutili o, nel migliore dei casi, assolutamente sproporzionati ai magrissimi risultati ottenuti.

Ora, sul breve termine questo metodo ha sicuramente pagato, rafforzando il suddetto establishment, perché è più facile battere un avversario rozzo e “impresentabile” che uno preparato e intelligente, ma sul lungo periodo radicalizzare i conflitti sociali può solo avere effetti catastrofici per tutti (tra parentesi: è mai possibile che nessun fautore del politically correct si renda conto di quanto sia controproducente cercare continuamente l’appoggio dei personaggi dello spettacolo, che sono visti – più a ragione che a torto, per la verità – come dei ricchi ignoranti e presuntuosi che vivono in un modo che non ha nulla a che fare con quello della gente comune e ciononostante pretendono di farle la morale?).

I primi effetti negativi rischiamo di vederli già nei prossimi mesi, perché sta montando una diffusa opposizione che potrebbe ulteriormente rallentare il già troppo lento piano vaccinale, che a questo punto è l’unica via di salvezza che ci resta prima del baratro. Ho molti amici che, pur non essendo assolutamente contrari ai vaccini in generale, non si fidano di questi vaccini perché non si fidano di questi governi e di questi esperti. E la cosa più drammatica è che hanno ragione.

Questo è un punto molto delicato, a cui bisognerà una volta o l’altra dedicare una riflessione a parte, perché se è vero che molti scienziati hanno cercato di suggerire strategie più intelligenti ai governi (peraltro senza essere mai ascoltati), è altrettanto vero che pochissimi hanno contestato alla radice le loro politiche: nonostante l’evidenza del loro totale fallimento, quasi tutti si sono infatti limitati a proporre correzioni di aspetti particolari e soprattutto maggiore efficienza, all’interno di un quadro che fondamentalmente continuava a basarsi sugli stessi erronei presupposti.

In particolare, stupisce il comportamento dei medici: una loro sollevazione collettiva, con richiesta di un drastico cambiamento di rotta, in questa situazione non potrebbe essere facilmente ignorata, eppure non l’hanno mai neanche tentata, nonostante rischino la pelle in prima persona, tanto che ne sono già morti oltre trecento. La mia impressione, ascoltando non solo i discorsi in televisione, ma anche quelli dei molti medici che conosco (alcuni li ho pure in famiglia), è che pensino davvero che non ci siano errori concettuali di fondo, ma solo di gestione, il che è davvero incomprensibile, perché, diversamente dai non addetti ai lavori, la loro interpretazione dei dati non dovrebbe essere influenzata dalla propaganda dei media e, come abbiamo visto, quello che emerge dai dati è un quadro completamente diverso rispetto a quello delineato dall’ideologia del pandemically correct.

La sostanziale accettazione di quest’ultimo presuppone quindi un processo di autoinganno almeno in parte volontario: è quello che Václav Havel, il più lucido e profetico dei dissidenti dell’Est, nel suo capolavoro Il potere dei senza potere chiama “autototalitarismo sociale” e che ricorda molto il meccanismo descritto pochi giorni fa su questo stesso sito dal politologo Paolo Natale. Ma, come ho detto, ne parleremo un’altra volta.

Ciò che invece adesso dobbiamo sottolineare è quanto sia pericoloso l’atteggiamento delle nostre attuali classi dirigenti, la cui stragrande maggioranza reagisce all’avanzata dei negazionisti esattamente come a quella dei populisti (peraltro ormai visti sostanzialmente come la stessa cosa): demonizzandoli ancor più e insistendo a volerli “rieducare” anziché provare ad ascoltarli, senza fare di tutta l’erba un fascio e distinguendo, tra le diverse posizioni, quelle assolutamente infondate da quelle che invece nascono da preoccupazioni assolutamente legittime e giustificate.

Questo si è visto in modo emblematico in America, dove la prima “geniale” mossa della strategia di Biden per “riconciliare il paese” è stata sostenere a spada tratta l’impeachment per Trump, tra l’altro contrario alla logica prima ancora che alla Costituzione, dato che l’impeachment non è un processo penale, bensì la «messa in stato d’accusa di persona che detiene un’alta carica pubblica, ritenuta colpevole di azioni illecite nell’esercizio delle proprie funzioni, allo scopo di provocarne la destituzione» (Dizionario online di Oxford Languages) e quindi per definizione non si applica a chi sia già stato rimosso dalla sua carica, “per la contradizion che nol consente”, qualsiasi cosa pensino e votino gli illustri membri del Congresso. È vero che tecnicamente la motivazione dell’accusa era la sua presunta responsabilità nell’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si trattava in realtà di un attacco a tutta la sua politica e innanzitutto alla gestione dell’epidemia.

Ora, se voi foste dei sostenitori di Trump, magari anche moderati e critici verso l’atteggiamento che ha tenuto nella fase finale del suo mandato, come vi sentireste ora: più o meno inclini a riconciliarvi con Biden? La risposta è ovvia quanto la domanda, e di conseguenza il fatto che praticamente nessuno se la sia posta dimostra una volta di più come “riconciliarsi con l’avversario” nel linguaggio del politically correct significhi in realtà “rieducarlo”.

Del tutto analoga è la situazione nostrana, emblematicamente rappresentata dalla celeberrima espressione “sciamani d’Italia” che Massimo Giannini, direttore di La Stampa nonché ex vicedirettore di Repubblica nonché autoproclamato esperto del virus per il solo fatto di esserselo beccato (ed esserne fortunatamente guarito), ha «usato per definire le reazioni di Matteo Salvini e Giorgia Meloni al quasi golpe di Washington» (Gli sciamani e la mia risposta alla Meloni, editoriale di La Stampa dell’11 gennaio 2021, p. 1).

A parte che parlare al proposito di “quasi golpe” significa o essere fuori dal mondo o essere in malafede, anche qui la motivazione tecnicamente si riferisce all’assalto al Campidoglio, ma è evidente a chiunque che si tratta in realtà di un attacco a tutta la loro politica, a cominciare dalla scelta del vocabolo, che allude sì alla loro presunta vicinanza all’incredibile personaggio che ha guidato il suddetto assalto (il che dimostra quanto si fosse lontani anni luce da un vero golpe), ma anche – e certo non casualmente – a un loro presunto atteggiamento antiscientifico, che in parte, come ho già detto, in quei partiti esiste davvero, ma non giustifica quello che è a tutti gli effetti un mero insulto (pesante) e non una critica razionale. Anche il tono generale non era quello di chi critica un avversario, ma di chi lancia una scomunica, tant’è vero che le loro rispettive parti politiche nello stesso articolo sono definite «parte del problema» in quanto «ambigue, […] reticenti, […] anomale, […] populiste, […] radicali, […] illiberali, […] a-repubblicane» e perciò «inadatte a governare un Paese» (ibidem, p. 9). E non si tratta certo di un caso isolato, anche se è quello che ha fatto più notizia.

Del resto, il fatto stesso che due dei tre più grandi quotidiani italiani abbiano potuto scambiarsi come se niente fosse direttore e vicedirettore, nonostante un orientamento politico e culturale in teoria piuttosto diverso, la dice lunga su quanto l’omogeneità culturale prodotta dalla condivisione dei dogmi della “ideologia atlantica” nonché del politically e del pandemically correct sia ormai di gran lunga più profonda e più forte di qualsiasi altra differenza, nonché su come tale “blocco culturale” si muova ormai davvero “all’unisono”, formalmente rispettando le regole democratiche, ma nella sostanza comportandosi in modo sempre più intollerante.

Il dramma è che pochissimi dei nostri leader sembrano aver capito la necessità di cambiare rotta (speriamo, per il bene di tutti, che uno di essi sia Draghi, anche se per quanto riguarda la gestione dell’epidemia in senso stretto non c’è da farsi troppe illusioni, come dimostra la conferma alla Sanità del ministro Speranza, uno dei principali colpevoli del disastro italiano).

Eppure, un esempio, per giunta non teorico, ma concretissimo, che “un altro modo è possibile” ci sarebbe ed è rappresentato ancora una volta dalla Nuova Zelanda, dove negazionisti e populisti (che prima c’erano anche lì) sono praticamente spariti, non per magia, ma grazie al comportamento radicalmente diverso tenuto dalla giovanissima Jacinda Ardern, eletta premier per la prima volta nel 2017 ad appena 37 anni.

Anzitutto, infatti, lei si è sempre assunta la responsabilità delle proprie azioni in base ai risultati che hanno determinato, anziché giustificarle in base ai principi che le hanno ispirate, come usa da noi. Basti dire che quando due turiste inglesi trovate positive all’aeroporto per una svista erano state lasciate andare anziché metterle in quarantena la signora Jacinda andò subito in televisione e disse che si trattava di «un fallimento inaccettabile del sistema», cioè innanzitutto suo.

Eppure, si trattava di appena due casi che le erano sfuggiti dopo che aveva già azzerato il contagio, con appena 25 morti su 5 milioni di abitanti! Nessuno si sarebbe certamente sognato di biasimarla, se non si fosse scusata. E invece no! Chiedendo ai suoi concittadini di accettare il lockdown totale lei aveva promesso in cambio la totale eradicazione del virus, quindi anche due soli casi erano inaccettabili. L’abisso che passa tra il suo atteggiamento e quello di Conte, nonché di tutti gli altri leader “atlantici” si riflette con esattezza matematica nell’abisso tra i suoi risultati e i loro.

Ma non basta. Infatti, dopo essere stata rieletta trionfalmente il 17 ottobre scorso con la maggioranza assoluta (come era logico, visti i risultati ottenuti) che ha fatto Jacinda? È andata in televisione a bacchettare i suoi avversari e a vantarsi di quanto era stata brava? Manco per sogno! La sua prima dichiarazione è stata: «Viviamo in un mondo sempre più polarizzato, un luogo dove sempre più persone hanno perso la capacità di mettersi nei panni degli altri. Spero che in queste elezioni la Nuova Zelanda abbia dimostrato di non essere così. Ma una nazione che sa ascoltare, discutere. Siamo troppo piccoli per perdere di vista la prospettiva degli altri. Le elezioni non sempre uniscono le persone. Ma non significa che debbano dividerle».

Dopodiché, anche se avrebbe potuto governare tranquillamente da sola, si è immediatamente messa al lavoro per creare un governo di coalizione sostenuto dalla più ampia maggioranza possibile, tra cui tantissime donne (senza bisogno alcuno di “quote rosa”) e, cosa ancor più rivoluzionaria, tantissimi parlamentari di etnia maori, affidando non qualche sottosegretariato, ma nientemeno che il Ministero degli Esteri a Nanaia Mahuta, imparentata con la famiglia reale dei Maori.

Questa è riconciliazione. Questa è inclusione. Questa è educazione (e non “rieducazione”) del popolo. Questa è, in una parola, politica, nel senso migliore del termine.

Perché non proviamo a fare lo stesso anche noi?

 




La destra e le elezioni anticipate

La richiesta di tornare al voto, ripetuta innumerevoli volte dai partiti del centro-destra, non è priva di buone ragioni. E’ vero che la nostra resta una repubblica parlamentare, e che i cambi di governo in corso di legislatura sono perfettamente legittimi, ma è altrettanto vero che di questa flessibilità si è abusato troppo. Siamo nel 2021, e bisogna risalire al lontano 2008 per rintracciare un governo e un premier (il governo Berlusconi) che fossero espressione del voto popolare. Da allora a decidere chi governa sono state sempre alchimie di palazzo, di volta in volta innescate da emergenze e situazioni eccezionali, o presunte tali: la crisi finanziaria (2011), la mancanza di un chiaro vincitore (2013), l’impazienza di Renzi (2014), l’esito del referendum istituzionale (2016), di nuovo la mancanza di un chiaro vincitore (2018), il rischio di una vittoria elettorale della destra (2019), fino al colpo di teatro di questi giorni, motivato con la doppia emergenza economica e sanitaria.

Di tutte queste ragioni che hanno condotto a costituire governi sganciati da ogni riferimento al consenso popolare la più inquietante è quella che, nel 2019, ha portato al Conte bis. In questo caso, infatti, la motivazione che ha portato a formare il nuovo governo giallorosso non è stata, come in passato, né un’emergenza reale, né l’assenza di un chiaro orientamento dell’elettorato, ma – tutto al contrario – la convinzione che tale orientamento ci fosse, ma non fosse quello “giusto”. Tutti i sondaggi, infatti, indicavano (ed indicano tuttora) che, ove la parola fosse restituita ai cittadini, il colore politico del nuovo governo sarebbe stato di centro-destra, e non di centro-sinistra. Ed è fonte di sconforto che, a 75 anni dalla nascita della Repubblica, la cultura progressista non abbia ancora la maturità democratica per accettare che siano gli elettori, anziché gli abitanti del Palazzo, a scegliere chi li dovrà governare.

Dico tutto questo per dire che capisco l’amarezza dei leader del centro-destra di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e dare la parola agli elettori. E penso anch’io che, in circostanze normali, il capo dello Stato avrebbe fatto bene a sciogliere le Camere, senza farsi condizionare dal timore che a vincere siano i cattivi.

Ma nello stesso tempo non posso non aggiungere che, come studioso che segue l’evoluzione dell’epidemia, penso che in questa circostanza la posizione di chi ha invocato le elezioni anticipate, in particolare Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non sia solidamente fondata, e che abbia fatto bene Mattarella a non percorrere questa via, che pure era nelle sue facoltà. E provo a spiegare perché.

Lascio da parte le considerazioni, peraltro assai convincenti, sull’opportunità che a gestire il Recovery Fund sia una personalità di alto profilo e di indubbia competenza, e mi concentro solo sull’altro motivo sottolineato da Mattarella, ossia il rischio che due mesi di campagna elettorale potessero alimentare ulteriormente l’epidemia.

Come si sa il caso che, in queste settimane, ha originato questo genere di preoccupazioni è quello delle elezioni presidenziali in Portogallo, tenutesi alla fine di gennaio. E infatti, per sostenere l’infondatezza di tale preoccupazione, sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini hanno tentato di smontare precisamente quel caso.

Giorgia Meloni, in un’intervista a Porta a Porta (giovedì notte), ha affermato che si è votato il 24 gennaio, e che “poiché il virus incuba 14 giorni” non era ancora possibile osservare eventuali effetti sull’epidemia. Matteo Salvini, all’opposto, tali effetti ha preteso di osservarli, e lo ha fatto notando che il giorno delle elezioni i contagiati erano 11721, e 8 giorni dopo erano 5805, ovvero circa la metà (in realtà la diminuzione, calcolata in modo appropriato, è stata molto minore).

Ebbene, entrambe queste argomentazioni non fanno adeguatamente i conti con quel che è successo in Portogallo. Quel che, per settimane, ha preoccupato gli analisti non è tanto il rischio che l’afflusso ai seggi (in un singolo giorno) potesse moltiplicare i contagi, quanto il timore che a far esplodere l’epidemia provvedesse la campagna elettorale (lungo un periodo di parecchie settimane). Questo timore era supportato dal fatto che, circa un mese prima del voto (all’inizio della campagna elettorale), la curva dei contagi avesse invertito repentinamente la sua rotta, passando da calante a crescente, e più o meno una settimana dopo la medesima sorte fosse toccata alla curva dei decessi.

In effetti, nel giro di un mese, e proprio in coincidenza con l’appuntamento elettorale, il Portogallo ha scalato sia la classifica della velocità di propagazione dell’epidemia (quella che si misura con Rt), sia la classifica della diffusione del contagio, andando ad occupare il triste primato che per quasi tutto il 2020 era toccato al Belgio. Non solo: entrambe le curve, dei contagi e dei decessi, hanno cominciato a dare segnali di arretramento solo 1-2 settimane dopo l’appuntamento elettorale (prima quella dei contagi, poi quella dei decessi). Infine, è di questi giorni la notizia che gli ospedali portoghesi sono al collasso, e il paese ha dovuto richiedere l’aiuto degli altri paesi europei.

E’ la prova inconfutabile che a far precipitare la situazione sia stato l’appuntamento elettorale?

No, non lo è. In questo campo non si possono fornire dimostrazioni rigorose, ma solo individuare indizi, più o meno supportati da evidenze matematico-statistiche. Però si può osservare che, nel caso delle elezioni portoghesi, gli indizi ci sono, purtroppo. E che, quanto alle elezioni italiane, oggi il numero di contagiati è circa 10 volte quello di settembre, che già non aveva mancato di suscitare le preoccupazioni di alcuni studiosi.

In questa situazione, in cui mancano le prove ma abbondano gli indizi, ognuno ha buone ragioni per tenersi le idee che preferisce. Ma è difficile non comprendere quelle del capo dello Stato, che ha ritenuto imprudente interrompere la legislatura in un momento in cui il numero di contagiati è molto alto e l’epidemia non accenna a piegare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 febbraio 2021




L’Europa è una discriminante?

Non è da oggi che, nel dibattito politico, l’europeismo viene agitato come una discriminante fondamentale. Da una parte le forze che credono nel progetto europeo, dall’altro i nemici dell’Europa, di volta in volta qualificati come sovranisti, anti-europei, euroscettici.

Ma negli ultimi giorni la tendenza a trattare l’europeismo come una categoria politica si è accentuata, con la ripetuta evocazione di una fantomatica “maggioranza Ursula”, in cui dovrebbero riconoscersi le forze che – nel Parlamento di Strasburgo – hanno reso possibile l’elezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione europea. Il tutto con la folkloristica, per non dire grottesca, appendice del drappello di “responsabili” che, in Senato, si auto-ridenominano “europeisti”, suscitando lo sconcerto di Emma Bonino e del suo partito (+Europa), sicuramente il più coerente alfiere del sogno europeo.

Ma ha ancora senso distinguere fra europeisti e anti-europeisti?

Su un piano descrittivo forse sì. In effetti il grado di severità delle critiche all’Europa è molto variabile. Il Pd +Europa sono molto indulgenti, Lega e Fratelli d’Italia molto severi. Quanto alle altre forze politiche quel che le distingue è soprattutto il tipo di critiche che rivolgono all’Europa: Forza Italia e i Cinque Stelle non apprezzano (o non apprezzavano) la politica migratoria, l’estrema sinistra è iper-critica sul patto di stabilità e sul Mes.

Già questo schizzo dovrebbe suscitare qualche dubbio sulla utilità e sensatezza della contrapposizione fra europeisti e anti-europeisti. Ma l’aspetto che più mi lascia perplesso è l’uso etico-normativo del concetto di europeismo, per cui i critici dell’Europa sarebbero i cattivi, e i difensori sarebbero i buoni. A mio parere sarebbe più aderente alla realtà dire che la costruzione europea ha un bel po’ di difetti (una cosa che ben pochi negano), e che le forze politiche si distinguono per i difetti che tendono a evidenziare o a occultare.

La destra, ad esempio, ha spesso messo in luce difetti come: eccesso di regolazione del mercato interno; insufficiente protezione contro la concorrenza sleale, specie cinese; precocità dell’allargamento a Est; trattato di Dublino sui migranti; incapacità di far rispettare ai paesi membri gli impegni di redistribuzione dei richiedenti asilo; uso politico e discrezionale della regola del 3% di deficit pubblico; svantaggi dell’ingresso nell’euro.

La sinistra ha spesso attirato l’attenzione sui ritardi del progetto di unificazione politica, militare, economica: incapacità di parlare con un’unica voce in politica estera; mancanza di un esercito europeo; rigidità del patto di stabilità e crescita; modestia del bilancio europeo; ostilità agli eurobond; tolleranza verso i regimi illiberali di alcuni paesi dell’Unione (Ungheria e Polonia).

Basterebbero questi due stringati elenchi di difetti della costruzione europea per far sorgere il dubbio che l’europeismo possa sensatamente essere usato come una discriminante politica, e tantomeno come una medaglia al merito. Ma in realtà quei due elenchi sono fortemente incompleti. Mancano infatti i limiti dell’Europa su un altro terreno fondamentale, quello della gestione della pandemia.

Qui non mi riferisco tanto ai limiti sul versante dell’economia, e in particolare all’incredibile ritardo con cui diventerà effettivo il Recovery Plan (circa 1 anno e mezzo dallo scoppio dell’epidemia). Quello che ho in mente è il governo complessivo della pandemia sul piano sanitario, dove l’Europa ha brillato molto più per i suoi errori che per i propri meriti.

L’errore più grande è stato, a mio parere, quello di non prendere nemmeno in considerazione il protocollo di gestione dell’epidemia adottato dai paesi che sono riusciti a contenerla (dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda): chiusura delle frontiere, tracciamento elettronico, quarantene controllate, lockdown precoci e circoscritti. E tutto questo non casualmente, ma in omaggio ai totem di quella che mi sento di chiamare l’ideologia europea: libera circolazione delle persone, tutela della privacy, primato dell’economia, subalternità all’Oms (un’istituzione i cui gravissimi errori di valutazione sono costati migliaia di vite umane).

Ma gli errori che ho elencato sono solo i primi in ordine di tempo. Perché se veniamo agli ultimi mesi c’è un ulteriore terreno su cui l’Europa si è mossa in modo discutibile (per usare un eufemismo): quello dei vaccini.

Lascio perdere i dubbi sul ruolo degli interessi nazionali (di Germania e Francia in particolare) nella selezione delle aziende farmaceutiche da finanziare, ma mi limito a un’osservazione: se la campagna vaccinale di tanti paesi europei è in difficoltà è anche perché la Commissione europea, guidata dalla stella (Ursula von der Leyen) che dovrebbe illuminare il cammino delle forze “europeiste”, ha commesso due errori cruciali: firmare contratti senza garanzie sufficienti sulle consegne, e farlo troppo tardi rispetto a paesi concorrenti (ad esempio il Regno Unito, fresco di Brexit). Se ora altri paesi hanno la precedenza su quelli europei nella fornitura delle dosi non è tanto per la cattiveria delle aziende farmaceutiche, quanto perché, pure su questo terreno, la classe dirigente europea non è stata all’altezza.

Ecco perché mi permetto di dare un consiglio non richiesto alle forze politiche: lasciate perdere l’europeismo. L’Europa è un edificio fragile e imperfetto, e se ha senso dividerci può essere solo su come intendiamo provare a ripararne i non pochi difetti.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 gennaio 2021




Equivoci sullo “stato forte”

Nei suoi numerosi articoli e saggi Danilo Breschi, ha esplorato in lungo e in largo le complesse vicende dell’Italia contemporanea nell’ottica della storia delle dottrine politiche, insegnamento tenuto all’Università degli Studi Internazionali di Roma. Quale democrazia per la Repubblica? Culture politiche nell’Italia della transizione 1943-1946 (Ed. Luni) è il frutto maturo di lunghi anni di ricerca e del confronto con gli studiosi che più si sono occupati della nostra political culture e del suo impatto sulla società civile, da Roberto Pertici a Roberto Chiarini, da Paolo Pombeni a Ernesto Galli della Loggia. Perché in Italia non abbiamo avuto una democrazia liberale “a norma”? Perché da noi partiti, governi, istituzioni non sono stati l’alveo sicuro entro il quale il corso della modernizzazione è potuto fluire senza troppi sconvolgimenti sociali e politici? Breschi ne attribuisce la causa alla posizione di minoranza nella quale si trovarono uomini come Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, dinanzi alle tre grandi famiglie ideologiche – azionismo, social-comunismo, cattolicesimo sociale – che, sconfitte alle urne nel 1948, furono decisive nella redazione della Costituzione repubblicana e nell’interpretazione del passato come praefatio ad ducem. Ad accomunare quelle famiglie, nel triennio preso in considerazione da libro, è l’idea della “sostanziale marginalità del liberalismo di ascendenza risorgimentale e primonovecentesca. “Si tratta della convinzione che la democrazia liberale sia priva di contenuti etici e ideologici” che “non possieda un’idea direttrice, una dotazione di sen­so generale e collettivo” che sia incapace di “prendersi cura della formazione della coscienza individuale |…|. Sono il mercato, ossia gli interessi materiali, e la coscienza individuale, mantenuta tale, rigorosamente autonoma nelle proprie scel­te a determinare il suo corso, che resta costantemente instabile e al tempo stesso perennemente riequilibrantesi grazie all’omeostasi garantita dal primato della legge (rule of law), ovvero dalla solidità di istituzioni di governo fondate sul principio della separazione dei pubblici poteri che mutuamente si controllano”. L’individualismo, la democrazia liberale rappresentativa, il mercato vengono percepiti come agenti patogeni o comunque come istituzioni incapaci di mantenere unite le società. La borghesia, classe in declino, in quella che Renzo De Felice chiamava la vulgata antifascista, diventa il maggiore responsabile della conquista dello Stato da parte delle camicie nere. “La democrazia – ci si chiede – va intesa come mezzo, strumento per altri fini, oppure come fine in se stesso?”. La repubblica è un mezzo e non un fine” aveva detto Pietro Nenni al Teatro Brancaccio il 5 maggio del 1946.
Sono molte le ragioni che spiegano la persistente tendenza dell’”ideologia italiana” a considerare la democrazia liberale una forma vuota, da riempire con ardite riforme politiche o sociali ma, all’origine di tutte si trova “la rimozione del senso dello Stato e della cosa pubblica, la Repubblica appunto”. Per le nostre familles spirituelles – l’importante sono le squadre in campo e le strategie che hanno in mente: il campo da gioco, la comunità politica in quanto tale, non occupa le menti e non riscalda i cuori e le forme che essa può assumere interessano soltanto nella misura in cui consentono o meno l’entrata nella stanza dei bottoni. Regioni e corte costituzionale, per fare un esempio significativo, in un certo periodo vengono avversate, mentre in un altro, sono fortemente volute: tutto dipende dagli utili che se ne possono ricavare mentre nessuna considerazione viene riservata alla salus Rei publicae, alla forza ordinatrice dello Stato. E’ sempre vivo l’equivoco – condiviso dai panglossiani dell’ultraliberismo mercatista – che fa dello “Stato forte” l’incubatore del fascismo e del comunismo: un equivoco che distorce la realtà giacché fu proprio lo “Stato debole”, con la sua incapacità a mantenere l’ordine, a far rispettare le leggi, a punirne i trasgressori – fossero estremisti di destra o di sinistra – a spianare la strada ai regimi totalitari. Perdura, a ben vedere, la pericolosa illusione che le istituzioni sono in definitiva “sovrastrutture”, macchine ad uso dei guidatori più diversi, sicché non si concepisce neppure il dovere di battersi per una manutenzione della ‘casa comune’ che avvantaggerà non solo noi ma anche i nostri concorrenti politici. Da noi lo “spazio pubblico” non importa a nessuno perché è di tutti.