Una mela mezza avvelenata – Sull’eredità (sanitaria) del governo Draghi

Il primo anno di Draghi al governo si è concluso con una conferenza stampa autocelebrativa a 360 gradi, dalla politica economica alla politica sanitaria.

Sul modo in cui il governo Draghi ha gestito l’economia italiana fin qui, è difficile pronunciarsi oggi. Troppe azioni sono incompiute, troppe nuvole si addensano sul versante dell’occupazione, dei prezzi, dei conti pubblici. Solo il tempo potrà dirci fino a che punto l’autolode pronunciata dal premier nella conferenza di fine anno sia giustificata, o non sia stata un tantino prematura.

Sulla gestione della pandemia, invece, un bilancio è possibile. Anzi è necessario. Perché se non capiamo qual è la logica con cui ci si è mossi fin qui, difficilmente potremo orizzontarci nel complicato futuro che ci attende.

Dunque, proviamo a ripercorrere questo terribile 2021. Qual è stata la stella polare del governo Draghi?

A me pare che, fondamentalmente, la stella polare sia stata la credenza, assoluta e quindi anti-scientifica, nel potere salvifico dei vaccini. E’ una deriva che non è stata inaugurata da Draghi (era già in atto durante il governo Conte), ma che Draghi ha pienamente e convintamente assecondato. Accoppiandola con la scelta, questa sì diversa da quella del governo precedente, di perseguire il ritorno alla normalità a qualsiasi costo. Dove ritorno alla normalità ha significato, in sostanza, scegliere sempre – nei momenti critici – la strada delle aperture, ignorando le voci di chi ne sottolineava rischi.

E’ importante notare che questa sordità nei confronti delle preoccupazioni del “partito della prudenza” si è manifestata sia in primavera, con la scommessa del “rischio ragionato” (17 aprile), con cui il premier annunciava un progressivo allentamento delle restrizioni, sia in autunno, con la scelta di lasciar correre l’epidemia fino a Natale.

La differenza fra le due situazioni è cruciale. Ad aprile le preoccupazioni del “partito della prudenza”, che profetizzava 5-600 morti se si fosse aperto prematuramente, non avevano una base statistica solida (proprio per questo ne presi le distanze, con un articolo sul Messaggero). E infatti l’estate trascorse senza troppi drammi, e si incaricò di mostrare che la scommessa di Draghi non era azzardata.

A ottobre e novembre, invece, le preoccupazioni del partito della prudenza erano diventate perfettamente giustificate, perché nel frattempo – fra maggio e agosto – erano intervenuti una serie di fatti e scoperte nuove, che alteravano drasticamente il quadro.

  1. Nessuno dei vaccini approvati è sterilizzante.
  2. L’immunità di gregge non è raggiungibile, neppure vaccinando il 100% della popolazione.
  3. La protezione assicurata dai vaccini è molto più breve del previsto.
  4. La variante delta, molto più trasmissibile di tutte quelle precedenti, neutralizza buona parte dei vantaggi apportati dai vaccini (detto brutalmente: un vaccinato in presenza della delta corre più o meno il medesimo rischio di infezione di un non vaccinato ai tempi del virus originario).
  5. Anche i vaccinati possono contagiarsi e contagiare gli altri, sia pure con minore probabilità dei non vaccinati.
  6. La trasmissione del virus per aerosol, ostinatamente negata (anzi bollata come fake news) dall’OMS, rende estremamente pericolose le interazioni negli ambienti chiusi.
  7. A parità di altre condizioni, il mero arrivo della stagione fredda, con l’abbassamento delle temperature e la fine della vita all’aperto, comporta un sensibile aumento dei contagi, e quindi delle ospedalizzazioni e dei decessi.

Di fronte a queste novità, come ha reagito il governo?

Sostanzialmente come se non esistessero. Se le avesse prese in considerazione avrebbe fatto altre scelte.

Ad esempio: partire con le terze dosi ad agosto, anziché a ottobre; non alimentare la credenza che, se ci si incontra solo fra vaccinati, non si corrono rischi; rafforzare il trasporto pubblico locale; caldeggiare l’uso delle mascherine ffp2 negli ambienti chiusi; iniziare a introdurre la ventilazione meccanica controllata nelle scuole, come più volte richiesto da studiosi indipendenti e opposizione parlamentare.

La linea seguita, invece, è stata un’altra: lasciare che il virus corresse, contando sul fatto che, grazie ai vaccini, le ospedalizzazioni e i decessi non sarebbero stati numerosi come in passato.

Questa impostazione, finita l’estate, ha condotto a un enorme aumento dei contagi, di cui ora si tenta di incolpare la variante omicron. Ma è una imputazione fuorviante: l’aumento del numero di contagi era iniziato già a metà ottobre, e quando è arrivata omicron (inizio dicembre), la situazione era già ampiamente fuori controllo. La nuova variante si è limitata ad accelerare ulteriormente la corsa del virus, scatenando il panico fra i cittadini, e fornendo alla politica qualche argomento per nuove restrizioni.

Il confronto con il Natale dell’anno scorso è impressionate. Allora i casi giornalieri erano la metà di oggi e, soprattutto, la curva dei contagi era in picchiata da 6 settimane. Oggi i contagi sono il doppio dell’anno scorso e la curva è in salita vertiginosa da ben 9 settimane. E non si pensi che lo sia in tutto il mondo, o in tutta Europa: da molte settimane le curve dei contagi sono in regresso in quasi tutti i paesi dell’Est, e pure in diversi paesi occidentali: Austria, Olanda, Belgio, Germania, Norvegia, Grecia.

Ma per il governo l’unica cosa che conta sono i decessi e i posti letto occupati che, grazie ai vaccini, sono molti meno dell’anno scorso. Il numero di contagiati pare non contare nulla, in barba all’allarme lanciato sulle conseguenze del long-covid, buone per convincere i genitori a vaccinare ragazzi e bambini, ma stranamente dimenticate quando l’ennesimo bollettino sanitario certifica il numero di nuovi positivi, come se per questi ultimi il long-covid non esistesse.

A quanto pare, finché gli ospedali non scoppiano, si può continuare a non fare quasi nulla per fermare l’epidemia. La parola d’ordine è, e resta: normalità ad oltranza.

Obiettivo sacrosanto, ma la vera domanda è: qual è il costo economico di aver lasciato correre il contagio?

Perché è vero che il mondo dell’economia ha molto beneficiato di questi mesi di riconquistata (quasi) normalità, ma è forse ancora più vero che il non aver fatto quasi nulla per attutire l’impatto della stagione fredda ha fatto riesplodere i contagi, e così ha finito per risvegliare il nemico numero uno dell’economia: la paura di infettarsi, che frena i consumi e abbatte la mobilità delle persone.

Eppure dovrebbe essere chiaro: per proteggere gli ospedali può (forse) bastare contenere il numero dei malati gravi e dei decessi, ma per proteggere l’economia occorre anche contenere il numero di contagi. Perché è il rischio di infettarsi che governa la paura, ed è la paura che governa i comportamenti economici. Lo vediamo con i nostri occhi in queste vacanze natalizie, in cui la paura sta falcidiando gli introiti delle vacanze natalizie, e rischia di mettere a repentaglio quel che resta della stagione turistica invernale. Nulla fa presagire, infatti, che gennaio e febbraio non ci riservino nuove restrizioni e nuovi sacrifici, allontanando ancora una volta il sogno della normalità.

Ecco perché, sul bilancio di Draghi in conferenza stampa, resto alquanto perplesso.

La sua eredità è come una mela, metà economia e metà sanità. E’ possibile che, alla fine, la metà economica risulti abbastanza integra. Lo speriamo tutti. Ma la metà sanitaria rischia di rivelarsi avvelenata per chiunque si troverà al timone dell’Italia nel 2022.




Il vuoto antifascista

Estromessi dalle decisioni che contano, ora i partiti (e le tv) ci faranno assistere a una lunga sceneggiata sullo scioglimento di Forza Nuova. Qualcuno dirà che in Italia c’è un pericoloso ritorno (anzi “rigurgito”) di impulsi fascisti, e che la Repubblica è in pericolo. Dunque, visto che la Magistratura non ha mai ritenuto di intervenire, si muova il Governo, e il Parlamento approvi la sacrosanta messa al bando di questo sciagurato partito. Il tutto sarà accompagnato, fin da stamattina, da chiassose adunate antifasciste, in difesa della Cgil, della Repubblica, della democrazia. Immancabilmente, assisteremo anche, sulla carta stampata, a una sfilata di riflessioni di pensatori, studiosi, intellettuali, che – con fare pensoso – si diranno “molto preoccupati” del pericolo fascista.

A me tutto ciò ricorda, irresistibilmente, la figura di Hiroo Onoda e dei suoi commilitoni nipponici, inviati nelle Filippine nel 1944 per ostacolare l’avanzata degli americani. Istruiti a non arrendersi, a costo della propria vita, si rifugiarono nella giungla e non vollero mai credere che la seconda guerra mondiale fosse finita. L’ultimo dei tre si arrese (all’evidenza, non al nemico), solo nel 1974, ovvero quando la guerra era finita da 29 anni.

I nostri guerriglieri antifascisti, che peraltro la loro guerra – a differenza dei giapponesi – l’hanno vinta (sia pure per interposta persona, ossia grazie ai partigiani loro padri e nonni) sono ancora più lenti: a loro di anni non ne sono bastati 76 (dal 1945 al 2021) per accorgersi che il fascismo è stato sconfitto, seppellito dalla storia, e oggi non ha nessuna possibilità di tornare né nella forma classica, né in forme più moderne.

Ma allora perché, quando li si avverte che la guerra è finita, non ci vogliono credere?

Potrei rispondere, sbrigativamente: perché non hanno idee, ed è più comodo accanirsi contro un bersaglio fantomatico (e indifendibile) come il fascismo, che sostenere un confronto ad armi pari. Lo ha segnalato lucidamente il filosofo Alain Finkielkraut qualche anno fa, quando notava che le ideologie anti-qualcosa (come anti-razzismo e anti-fascismo) truccano il gioco politico: se ti autodefinisci anti-razzista, implicitamente dai del razzista al tuo avversario politico. La stessa cosa accade con l’anti-fascismo: autodefinirsi antifascisti equivale a dare del fascista a chi non la pensa come te.

C’è però anche un altro meccanismo che presiede all’ammucchiata antifascista, e intorbida non solo la competizione politica ma la stessa vita sociale. Questo meccanismo, codificato da Umberto Eco in una celebre conferenza del 1995 (Il fascismo eterno), è quello di ridefinire il concetto di fascismo in modo così lato da renderne eterna (e aggiungo io, ubiqua) la presenza sulla scena del mondo. Diventano così segni e manifestazione del fascismo anche tratti come il tradizionalismo, la critica della modernità (ma Marinetti non esaltava la macchina e la velocità?), la paura del diverso, le frustrazioni delle classi medie, l’esaltazione della volontà popolare, il patriottismo, e persino l’uso di una lingua elementare e semplificante.

Ed è interessante che a questo meccanismo di allargamento (e annacquamento) del concetto di fascismo, molto diffuso fra gli intellettuali, si sia accompagnato – specialmente dopo il ‘68 – un analogo meccanismo nell’uso del linguaggio comune, per cui l’epiteto ‘fascista’ è appioppato a qualsiasi discorso, atteggiamento o comportamento considerato sbagliato, inaccettabile, o semplicemente molto negativo.

Ecco perché, nell’anno di grazia 2021, l’antifascismo è diventato una categoria vuota, o tutt’al più pericolosa.

Vuota perché la guerra è finita, il fascismo è stato sconfitto, e non c’è nessuna possibilità che risorga, quali che siano le decisioni che verranno prese nei confronti dei numerosi gruppuscoli di destra e di sinistra che, con la complice indulgenza dello Stato democratico, da anni ricorrono sistematicamente alla violenza.

Pericolosa perché, quando qualsiasi manifestazione del pensiero che si allontani dall’ortodossia progressista viene bollata come fascismo, di fatto si esercita una indebita prepotenza verso chi la pensa diversamente. Con tanti saluti al pluralismo e alla libertà, di cui ci si proclama paladini.

 Pubblicato su Il Messaggero del 16 ottobre 2021




I venti motivi per dire no alla riforma del catasto

Casa, i rischi della riforma del catasto:

1. Il 94% dei proprietari di immobili ha un reddito compreso tra 0–55 mila euro. Circa il 23% ha un reddito non superiore a 10.000 euro; quasi il 45% ha un reddito compreso tra 10–26 mila; il 26% si colloca nella fascia 26–55 mila.
Solo il 6% dei contribuenti proprietari immobiliari ha un reddito superiore a 55 mila euro.

2. Qualsiasi intervento sul catasto affidato al Governo richiede innanzitutto criteri direttivi precisi e trasparenti. Diversamente il rischio è di creare un sistema privo di bilanciamento dei poteri, nel quale l’Agenzia delle Entrate è, a un tempo, legislatore, giudice e gabelliere. Occorre poi sempre un confronto con la categoria dei proprietari immobiliari. Tutto questo non si è fatto e quindi qualsiasi eventuale riforma sarebbe inaccettabile.

3. La Commissione Europea ha mandato (prima della pandemia) due inviti al Governo italiano: 1. aggiornare gli estimi catastali, precisando espressamente che ciò serve a reperire risorse e quindi ad aumentare la tassazione sugli immobili;  2.  reintrodurre l’Imu sulla prima casa.
Il mandato è innanzitutto di tassare di più la casa. Se riesce questo obiettivo, l’altro seguirà a ruota: incombe dunque l’Imu anche sulle prime case.

4. Il Governo obietta che la riforma ha solo lo scopo di fare una fotografia dell’esistente con riferimento ai valori patrimoniali e reddituali di mercato. Ciò suscita seri dubbi, soprattutto perché i valori catastali hanno la funzione di comparare tra di loro immobili diversi, situati in zone diverse del Paese, valutandoli con parametri uguali, e non di intercettare valori di mercato per ciò stesso sempre mutevoli e incerti. Perché dunque inserirli nel catasto? Non solo, se così fosse l’operazione violerebbe la riservatezza dei proprietari sciorinando in pubblico l’ammontare del loro patrimonio, che costituisce dato personale sensibile, e sottoponendoli al rischio di ricatti, rapine etc. Inoltre questa riforma è molto costosa: non avrebbe senso realizzarla solo per dare una informazione ai cittadini sui valori patrimoniali e reddituali del mercato già oggi rilevati e gratuitamente resi pubblici dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare. Il riclassamento è quindi chiaramente preordinato all’aumento della imposta. I dubbi sulle reali intenzioni del Governo sono fondati, sia per la equivocità di alcuni passaggi della delega fiscale, sia, soprattutto, perché la raccomandazione dell’Unione Europea di rivedere gli estimi si accompagna espressamente con la richiesta di aumentare la tassazione sugli immobili.

5. L’UE non ha competenza in materia di politiche fiscali interne, affermare: “lo chiede l’Europa” dimostra sudditanza di una certa classe politica verso i diktat della burocrazia di Bruxelles, che rappresenta interessi che non sono quelli dei risparmiatori italiani.

6. L’imposizione fiscale sugli immobili è in Italia già oggi superiore alla media dei Paesi Ocse: 6.1% contro una media Ocse del 5.5%. È quasi il triplo di altri Paesi europei come Svezia (2.2%) e Germania (2.7%). La imposizione complessiva è in Italia del 42.3% contro una media dei Paesi Ocse pari al 35.5%.

7. L’investimento in beni immobili è attualmente più tassato degli equivalenti investimenti in beni mobili: un appartamento a Milano di 100 mq., con un valore di mercato stimato dalla Agenzia delle Entrate di 391.800 euro, un valore catastale attuale di 142.900 euro, paga di Imu 1629 euro. Investendo 391.800 euro con un investimento mobiliare in un deposito regolamentato, si paga di imposta di bollo soltanto 784 euro, la casa paga dunque il 108% in più. A Roma va ancora peggio con una differenza del 264%, a Napoli la differenza è di 154%, a Bari del 299%, a Firenze del 142%, a Genova del 255%.

8. A seguito della contrazione del PIL causata dalla pandemia la pressione fiscale ha raggiunto in Italia nel 2020 la cifra record del 52%, nello stesso anno è continuata la riduzione dei redditi delle famiglie e in misura maggiore la loro capacità di acquisto, di conseguenza sono calati i consumi. Pensare, anche se in prospettiva, di aumentare l’imposizione fiscale sulla casa, a cui è verosimilmente finalizzata l’introduzione di superiori valori di mercato, significa non avere il senso di ciò che serve per rilanciare il Paese.

9. Uno studio di Surico e Trezzi, pubblicato nel 2019, ha dimostrato che l’introduzione dell’Imu, con un aumento del gettito dagli immobili residenziali di 14 miliardi di euro, ha portato un calo consistente e molto significativo della spesa delle famiglie a causa delle maggiori imposte pagate sull’abitazione principale. Le imposte pagate su altri immobili residenziali hanno determinato una diminuzione più ridotta dei consumi, ma comunque in grado di colpire i mercati degli altri beni durevoli. In conclusione: qualsiasi tipo di patrimoniale più o meno mascherata frenerebbe un rilancio dell’economia.

10. L’OECD, in un recente e autorevole studio realizzato nel 2018, ha sostenuto che ci sono argomenti per introdurre un’imposta sul patrimonio “solo in quei Paesi con un medio-basso livello di imposte sul reddito e un livello medio-basso di imposte sui trasferimenti di ricchezza. Non è economicamente sostenibile che si aumenti in modo indiscriminato una delle due quando l’altra è alta”.

11. Aumentare l’imposizione sulle case deprime i consumi perché toglie reddito disponibile ai privati, deprezza il valore degli immobili e impoverisce gli italiani, svaluta il valore delle garanzie bancarie, favorisce la fuga dei risparmi verso i paradisi fiscali.

12. Secondo la teoria del ciclo vitale di Modigliani il consumo corrente di un individuo dipende dal valore attuale delle sue risorse vitali, che sono composte dalla ricchezza personale e dai guadagni acquisiti nel corso della vita. Per la teoria del reddito permanente di Friedman, un cambiamento del reddito corrente che altera la ricchezza posseduta influenza in negativo i consumi.

13. Negli ultimi 10 anni l’incidenza dei costi relativi all’abitazione sulla spesa complessiva delle famiglie è cresciuta in misura sempre più accentuata fino a superare la soglia del 30%. Gli investimenti sugli immobili sono sempre più rischiosi: aumentato rischio morosità, blocco degli sfratti, oscillazione di mercato dei beni immobili, poca competitività rispetto agli investimenti mobiliari.

14. In questo contesto un eventuale aumento della imposizione sulla casa determinerebbe un disinvestimento nel mattone che oggi genera per famiglia una spesa media di 20.000 euro di ristrutturazioni e di 5000 euro di investimenti medi specifici. Ciò comporterebbe una penalizzazione delle piccole imprese artigiane che costituiscono il 68% dei fornitori di servizi di manutenzioni e ristrutturazione. Analoga penalizzazione subirebbero le imprese del commercio e dell’industria che trattano prodotti legati alla casa. Ci sarebbe anche una penalizzazione del decoro del nostro patrimonio immobiliare posto che diminuirebbero drasticamente restauri e manutenzioni secondo una tendenza già oggi in atto: stando infatti ai dati dell’Agenzia delle Entrate, gli immobili ridotti alla condizione di ruderi sono aumentati del 107% dal 2011. Ancora più preoccupante è dunque l’intenzione, dichiarata dal Ministro dell’Economia, di rivedere al ribasso entro pochi anni i bonus fiscali previsti per i vari interventi di miglioramento energetico, sismico ed edilizio.

15. Il catasto italiano è tradizionalmente un catasto reddituale che solo con i decreti del 1990/91 è stato surrettiziamente trasformato in patrimoniale attraverso un sistema di moltiplicatori che la Corte costituzionale nel 1994 ha sostanzialmente considerato illegittimo e sul quale tuttavia si sono fondate prima l’ICI e poi l’IMU. L’IMU non colpisce il reddito prodotto, ma il patrimonio posseduto. Si ha così il paradosso di un immobile sfitto che non produce reddito per il suo proprietario ma che essendo di pregio paga cifre elevate, senza che il proprietario abbia necessariamente una adeguata capacità contributiva. Ciò viola l’art. 53 della Costituzione.

16. Non è vero che una riforma degli estimi catastali è necessaria per ragioni di equità, per trasformare cioè in signorile “l’attico di piazza Navona” accatastato come popolare: con la legge 311/2004 si era già prevista la possibilità dei Comuni di collaborare con la Agenzia del Territorio per rivedere il classamento degli immobili. Le amministrazioni delle principali città italiane hanno già provveduto: a Milano a ben 30.000 immobili è stata attribuita una nuova rendita catastale, con un aumento medio del 46% e un incremento complessivo della rendita di circa 44 milioni di euro. Nel triennio 2005-2007 il comune di Genova ha inviato 80.000 avvisi bonari ai proprietari di immobili considerati da regolarizzare. Il Comune di Roma nello stesso periodo ha ridotto di 20.000 unità gli immobili di categoria popolare, incrementando di 30.000 unità le abitazioni di categoria civile. Nella sola città di Roma vi è stato un aumento della rendita catastale per 123 milioni di euro.
La prima operazione di riclassamento si è conclusa nel 2015 interessando più di 418.118 immobili, un aumento della rendita catastale di 363 milioni di euro, e un valore imponibile di ben 61 miliardi di euro (applicando il coefficiente 160). Nelle grandi città è stato coinvolto in media il 40% del patrimonio immobiliare privato. Le norme sono ancora in vigore e permettono ai comuni di sanare le posizioni sfuggite o determinatesi dopo il 2015.

17. Non è vero che una riforma degli estimi catastali serve per evitare che alcuni immobili sfuggano al catasto: se si decide di “rivedere” le rendite, significa che le rendite erano già state in precedenza “viste”, si tratta dunque di immobili già ben noti al fisco. Per contrastare l’evasione si utilizzino droni e satelliti altrimenti, dopo gli aumenti degli estimi, le case ignote al fisco continueranno a rimanere tali.

18. Un aumento significativo della imposizione sui patrimoni, causata da una rivalutazione delle rendite equiparate a valori di mercato, sarebbe incostituzionale perché violerebbe l’art. 47, comma 1 della Costituzione che incoraggia e tutela il risparmio. L’aumento della imposizione non solo deprezzerebbe per sé gli immobili, spingerebbe inoltre alla loro alienazione, determinando così una ulteriore svalutazione del patrimonio nazionale, ovvero della massa di risparmio investita negli immobili. Violerebbe altresì il comma 2 del medesimo articolo ove si protegge specificatamente il risparmio per l’acquisto dell’abitazione. Sarebbe iniquo perché, come già chiariva Einaudi, si tasserebbe due volte posto che si colpisce il risparmio che era già stato tassato al momento della sua produzione. Sarebbe iniquo perché prescinderebbe dalla capacità contributiva. Sarebbe altresì iniquo perché tartasserebbe specificamente i proprietari già penalizzati dal blocco degli sfratti in un momento di crisi che ha toccato tutte le famiglie. Sarebbe inoltre iniquo perché inciderebbe sul reddito Isee pur non essendo indice di reddito disponibile, facendo perdere a molte famiglie l’accesso gratuito agli asili nido, alle prestazioni sanitarie, all’università. Sarebbe infine iniquo perché colpirebbe le successioni penalizzando ancora una volta eredi che non abbiano un reddito sufficiente per pagare imposte cospicue, venendo costretti a svendere, magari a grandi fondi di investimento internazionali, gli immobili ereditati.

19. La Corte Costituzionale ha più volte evidenziato la natura del diritto alla abitazione come diritto funzionale in quanto strettamente collegato alla dignità umana e alla sfera personalissima (sentenze 217 e 404 del 1998 ove il diritto all’abitazione viene configurato come diritto primario, rientrando tra gli elementi caratterizzanti della socialità cui si conforma lo Stato democratico). Comprimere questo diritto, rendendolo  particolarmente oneroso con un aumento dell’imposizione, è incostituzionale.

20. La vera riforma è recuperare la funzione inventariale del catasto per avere una fotografia reale degli immobili esistenti, della loro consistenza e conformazione anche al fine di una gestione del territorio attenta alla sostenibilità ambientale.

DOCUMENTO DI LETTERA 150 a cura di:
Alberto Lusiani, ricercatore Scuola Normale Superiore, Pisa
Francesco Manfredi, professore ordinario, dipartimento di Economia, Lum, Bari
Giuseppe Valditara, professore ordinario, dipartimento di Giurisprudenza, Torino
Claudio Zucchelli, presidente aggiunto onorario, Consiglio di Stato

 Pubblicato su Libero del 13 ottobre 2021




Reddito di cittadinanza, perché non farlo gestire alle imprese?

Fino a pochi mesi fa c’era ancora qualcuno che immaginava un autunno catastrofico. Fine del blocco dei licenziamenti, 1 o 2 milioni di posti di lavoro bruciati, un esercito di disoccupati alla disperata ricerca di un lavoro.

Oggi no, chi ha occhi per vedere non può non prendere atto che lo scenario che si sta delineando è l’opposto di quello previsto da tanti: quel che manca non sono i posti di lavoro, ma sono i lavoratori. A mia memoria non era mai successo che la difficoltà di trovare personale, specie per i piccoli esercizi, fosse così tangibile, generalizzata e conclamata. Io stesso, in questi mesi, ho raccolto diverse testimonianze sconcertanti. Ci sono attività che, per mancanza di manodopera, non hanno potuto aprire. Altre hanno dovuto lavorare a regime ridotto. Altre ancora sono state costrette a dimezzare l’attività in corso d’opera perché i neo-assunti rinunciavano dopo pochi giorni di lavoro.

Il risultato è che oggi, ancor più di ieri, alle due strozzature classiche dell’economia italiana – tasse e burocrazia – si aggiunge la strozzatura della mancanza di forza lavoro.

E’ paradossale: mentre i media sono impegnati a denunciare (giustamente) i  licenziamenti collettivi in atto in alcuni gruppi internazionali come Embraco, GKN, Whirpool, centinaia di migliaia di piccole e grandi imprese si trovano alle prese con il problema opposto: non riuscire a coprire determinati posti di lavoro (oltre 300 mila, secondo alcune stime).

E il segno più chiaro di tutto ciò è nella dinamica della disoccupazione: negli ultimi due anni il numero di persone in cerca di lavoro, anziché aumentare, è diminuito di circa 200 mila unità. Come se la risposta alla crisi occupazionale provocata dalla pandemia non fosse la ricerca di un nuovo posto di lavoro, bensì il ritiro dal mercato del lavoro.

Il risultato è che l’economia italiana, che in questi mesi sta crescendo a buon ritmo come rimbalzo rispetto al tonfo del 2020, rischia nei prossimi anni di crescere molto al di sotto del suo potenziale: un’eventualità perniciosa, tenuto conto dell’enorme debito pubblico aggiuntivo che ci stiamo accollando, e che prima o poi dovremo ripagare.

E’ dunque il momento di chiedersi: perché manca la forza lavoro necessaria a far girare l’economia a pieno ritmo?

Alcune ragioni precedono la crisi del Covid: i giovani non amano le professioni tecniche, di cui invece c’è ampia richiesta; la formazione professionale è carente e male organizzata; le facoltà scientifiche sono disertate per mancanza di basi adeguate; i salari offerti sono spesso troppo bassi.

Ma la ragione più immediata ed evidente, perché ne tocca con mano le conseguenze qualsiasi datore di lavoro, è la moltiplicazione dei sussidi, iniziata con la crisi del 2008-2012 e culminata nel varo, pochi mesi prima dell’arrivo del Covid, del reddito di cittadinanza. Un provvedimento mal disegnato, che oggi aggrava il problema storico della mancanza di personale disposto a lavorare.

Sul fatto che il reddito di cittadinanza verrà modificato ci sono pochi dubbi. Il problema, però, è di cambiarlo in un modo utile, evitando di limitarsi a un compromesso fra le esigenze di propaganda dei vari partiti.

Al di là dei dettagli tecnici, credo che i cambiamenti fondamentali dovrebbero essere due. Il primo è di distinguere nettamente due funzioni, e quindi due tipi di beneficiari: i poveri non occupabili (circa 2/3 dei percettori attuali: ragazzi, invalidi, pensionati, ecc.), e i poveri occupabili (circa 1/3 dei percettori attuali). Il secondo è di rendere efficace l’avvio al lavoro di questi ultimi, varando quelle “politiche attive” di cui si parla da tanti anni ma che nessun governo è mai riuscito a far decollare con successo.

Ma come?

Io un’idea ce l’avrei: e se a offrire lavoro ai percettori di reddito di cittadinanza fossero direttamente le imprese, saltando in tutto o in parte la inefficace interposizione dei navigator?

Con i mezzi oggi disponibili non dovrebbe essere troppo difficile costruire un database anonimizzato, dove ogni impresa può cercarsi il lavoratore con il profilo giusto, a partire da titolo di studio, lavori precedenti, luogo di residenza (non troppo lontano). All’operatore pubblico spetterebbe soltanto associare al codice identificativo di quel lavoratore un nome e un cognome, trasmettere all’interessato la data del colloquio di lavoro presso l’impresa, registrare l’esito del colloquio (assunzione, mancata assunzione, rifiuto del lavoratore).

Basterebbe?

No, non basterebbe, perché comunque resterebbero in piedi gli altri problemi del nostro mercato del lavoro, a partire dalla mancanza di tecnici e laureati in discipline scientifiche. Però sarebbe un passo avanti, perché almeno certi tipi di imprese (tipicamente: quelle dell’industria turistica) sarebbero messe in condizione di creare più posti di lavoro regolare.

“Sì, sono disponibile, ma solo se mi pagate in nero: non voglio perdere il reddito di cittadinanza” è una risposta che non ascolteremmo più.

 Pubblicato su Il Messaggero del 25 settembre 2021




Bullismo etico

Quando, nel 1957, il grande politologo americano Anthony Downs pubblica La teoria economica della democrazia, il gioco della competizione politica è ancora pulito. Per lui la differenza chiave fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è che gli uni vogliono meno intervento pubblico nell’economia, gli altri ne vogliono di più. La destra vede l’espansione dello Stato (e delle tasse) come un’ingerenza, che limita la libertà economica, la sinistra vede l’espansione dello Stato (e della spesa pubblica) come uno strumento di redistribuzione della ricchezza, che promuove l’eguaglianza.

Il gioco è pulito perché le due parti competono alla pari. Libertà ed eguaglianza, infatti, non sono l’una un valore e l’altra un disvalore, ma sono semplicemente due ideali distinti in competizione fra loro. Ciò produce una conseguenza logica fondamentale: il rispetto dell’avversario politico. Questo tipo di situazione è interessante perché in essa coesistono due elementi apparentemente inconciliabili: la credenza nei propri valori, e il riconoscimento della legittimità dei valori altrui.

Non è questo il luogo per stabilire quale sia il momento storico in cui il gioco si è rotto, ma credo non possano esservi dubbi sul fatto che oggi, nella maggior parte delle società occidentali, la competizione politica non funziona più secondo lo schema di Downs. Oggi la sinistra non si sente come la rappresentante di determinati ideali, contrapposti a ideali diversi dai propri, ma come la depositaria esclusiva del bene. Di qui il suo peculiare rapporto con l’avversario, che non viene più percepito come il difensore di ideali distinti da quelli progressisti, ma come il difensore di disvalori, o ideali negativi. Dunque, come l’incarnazione del male. Detto ancora più crudamente, e con specifico riferimento alla società italiana: la sinistra pensa di rappresentare “la parte migliore del paese”, contrapposta alla “parte peggiore del paese”, rappresentata dalla destra.

Come è stato possibile?

E’ abbastanza semplice. La mossa chiave che ha permesso di cambiare radicalmente il gioco della politica è stata quella di autodefinirsi come anti-qualcosa. Da un certo punto, che collocherei negli anni ’80, nel mondo progressista al posto degli antichi valori e simboli – l’uguaglianza, la classe operaia, i deboli – hanno progressivamente preso piede due totem definiti negativamente: l’anti-razzismo e l’anti-discriminazione. Essere di sinistra ha significato sempre di meno occuparsi delle difficoltà degli strati bassi, e sempre di più percepirsi come nemici irriducibili dei due (presunti) vizi capitali del nostro tempo: il razzismo e la discriminazione. Il primo, esercitato contro gli immigrati, il secondo contro le cosiddette minoranze LGBT+ (per chi non fosse familiare con l’acronimo: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, eccetera).

Ed ecco fatto: il gioco, che almeno fino agli anni ’70 era rimasto pulito, ora è sporco. Perché se io mi autodefinisco come anti-qualcosa di negativo, allora è automatico che il mio avversario politico sia a favore di quel negativo contro cui io mi batto. E’ un problema logico, più volte messo in luce dal grande filosofo Alain Finkielkraut: l’ideologia anti-razzista crea un’anomalia nella competizione politica, perché se il mio avversario si autodefinisce anti-razzista, io che la penso diversamente da lui divento anti-antirazzista, dunque razzista. E come tale impresentabile, oggetto di riprovazione e disprezzo. Lo stesso, identico, cortocircuito logico si presenta con il problema delle minoranze LGBT+: se i progressisti ne difendono le battaglie, chi quelle battaglie non condivide, o contrasta, passa automaticamente nella schiera degli omofobi, accusato di odio verso le minoranze sessuali e di genere (con curioso slittamento della lingua, visto che “fobia” in greco significa paura, non certo odio). Di qui, infine, il disprezzo dell’avversario politico, che diventa il nemico, che attenta alla causa del bene.

Ecco perché il gioco, oggi, è truccato, non solo in Italia. Chiunque si intesti una causa ovvia, sia essa la lotta contro la mafia, il salvataggio del pianeta, il contrasto del razzismo, e la trasformi in un appello, una petizione, un simbolo, un meme, un messaggio pubblico, si sente autorizzato a pretendere che anche gli altri aderiscano alla sua causa, la sostengano, prendano posizione pubblicamente a suo favore. Chi non lo fa, sia esso un personaggio famoso che non firma, un calciatore che non si inginocchia, un disegnatore che si permette una vignetta irriverente, passa ipso facto nel novero degli incivili, su cui l’establishment degli illuminati si sente in diritto di riversare quotidianamente il proprio disprezzo.

Può accadere così che chi ha delle critiche verso il disegno di legge Zan sia bollato come omofobo e odiatore delle minoranze. Che chi dissente sulle politiche di accoglienza sia tacciato di razzismo e disumanità. E può accadere persino che il segretario di un partito che si crede progressista si permetta di redarguire in tv sei calciatori che hanno osato non inginocchiarsi a comando, facendo mancare il proprio sostegno ad una delle tante sigle che si contendono le decine di cause giuste che competono fra loro per l’attenzione dei media e degli elettori.

Eppure dovrebbe essere chiaro. L’ostentazione della propria adesione a una causa ovvia, accompagnata dalla lapidazione morale di chi sceglie di non aderirvi, non è un modo sano di condurre la lotta politica. Perché la politica – quella vera, non quella degenerata dei nostri giorni – è innanzitutto libertà di espressione, e rispetto della diversità di opinioni, sentimenti, modi di vita. Il resto è bullismo. Bullismo etico, se volete. Ma sempre bullismo, ossia sopraffazione da parte di chi si sente il più forte.

Pubblicato su Il Messaggero del 26 giugno 2021