Protesta studentesca e libertà di parola – Davide contro Golia?

Diversi osservatori si sono compiaciuti delle mobilitazioni studentesche pro-Gaza, perché esse mostrerebbero che i giovani non sono apatici e indifferenti come talora vengono dipinti, bensì impegnati e sensibili ai destini del mondo. Qualcuno ha pure evocato una sorta di nuovo ’68, come se l’idealismo della gioventù pacifista di oggi fosse una riedizione di quello di ieri contro la guerra del Vietnam.

Nessuno può sapere come le cose evolveranno, ma per ora – a mio parere – le differenze prevalgono sulle analogie. La differenza più evidente è che, per ora, le proteste degli studenti sono molto circoscritte e, anche per questo, significativamente infiltrate da soggetti esterni, sia negli Stati Uniti sia in Italia. Ma esiste anche un’altra differenza, di cui si parla poco: la complessità ideologica dell’oggetto del contendere.

Negli anni ’60 il nucleo della protesta, specie negli Stati Uniti, era l’opposizione a una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti, e che rischiava di ripercuotersi sugli studenti universitari, in quanto potenzialmente arruolabili. Sul piano politico, l’alternativa era relativamente semplice: si potevano condividere o viceversa contestare le ragioni dell’intervento americano nel sud-est asiatico. Due posizioni chiare e ben difendibili, da entrambe le parti.

Oggi le cose sono molto più complicate. Il conflitto che scalda gli animi dura da quasi 80 anni, ossia dalla nascita dello stato di Israele nel 1948. Nel tempo ha coinvolto direttamente o indirettamente numerosi stati e popolazioni, dando luogo a una catena di guerre più o meno esplicitamente dichiarate, con alleanze variabili fra i soggetti coinvolti. Come non bastasse, al centro del conflitto si sono trovati gli ebrei, ovvero le vittime principali del nazismo, e diverse popolazioni di fede musulmana, ostili alla nascita di uno stato ebraico in Palestina. Un vero groviglio, che ha dato luogo a una lunghissima partita, suddivisa in una decina di “tempi”, di cui quello iniziato il 7 ottobre 2023 è solo l’ultimo.

Queste peculiarità della questione palestinese rendono terribilmente difficile dipanare la matassa ideologica del conflitto. Se si parla tra persone informate e non troppo faziose, nessuno si sente di schierarsi nettamente da una delle parti in conflitto, perché è impossibile non vedere la sequenza di tragici errori compiuti da entrambi i lati. Si può, più o meno istintivamente, sentirsi più solidali con gli uni o con gli altri, ma è difficile non vedere le immani responsabilità della parte per cui si parteggia.

Non così a livello di massa. A livello di massa prevalgono le semplificazioni manichee proprio perché la vicenda è troppo intricata. Il bisogno di prender posizione, ammirevole in quanto rifiuto di ogni indifferenza e apatia, si scontra con l’impossibilità di farlo senza cancellare ingenti porzioni della storia reale del conflitto. Ed ecco la soluzione: costruire un racconto a senso unico giocando sulla asimmetria fondamentale del conflitto, che vede da una parte uno dei popoli più martoriati della terra, dall’altro una delle nazioni più ricche e potenti dell’occidente. Una sorta di riedizione della sfida fra Davide e Golia, con Israele nella inedita parte del cattivo gigante Golia, e il popolo palestinese in quella del buono e coraggioso pastorello Davide.

Questo racconto partigiano, naturalmente, non ha alcuna possibilità di uscire indenne da un confronto storico-critico informato, che consideri tutta la storia del conflitto, e non nasconda le spaventose responsabilità delle classi dirigenti arabe (specie nei primi 20 anni del conflitto) e israeliane (specie negli ultimi 20 anni). Ed ecco spiegato come mai non accade quel che recentemente ha auspicato Massimo Cacciari: ossia che le università diventino luoghi di confronto, riflessione e dialogo nei modi ad esse appropriati, ossia con seminari, convegni, dibattiti, corsi di studio sulla storia del conflitto. La ragione per cui tutto ciò non accade, né potrà mai accadere, è che un dialogo aperto e senza censure farebbe sciogliere come neve al sole il rozzo racconto degli attivisti anti-Israele, per questo fermamente decisi a non fare i conti con tutta la complessità del groviglio medio-orientale.

Ma la debolezza storico-ideologica del racconto degli attivisti studenteschi spiega anche un altro tratto della protesta attuale: la sua vocazione intimidatoria, che si è manifestata in tanti episodi recenti, come le contestazioni degli ebrei David Parenzo e Maurizio Molinari, o l’espulsione dal corteo del’8 marzo della ragazza che ricordava gli stupri di Hamas. L’attivismo studentesco di oggi, a differenza di quello di ieri, ha assoluto bisogno di limitare la libertà di parola altrui, perché quella libertà ne metterebbe a repentaglio il racconto. In un confronto aperto non tutte le ragioni starebbero dalla parte dei palestinesi, e non tutti i torti dalla parte degli israeliani. È questo che impedisce agli studenti di lasciare il comodo terreno dei cortei e delle piazze per avventurarsi in mare aperto, dove l’unica forza che conta è quella delle idee.

(uscito sul Messaggero il 25 aprile 2024)




Il Monologo del secolo – Talleyrand, Pollyanna, Barbra Streisand e la censura del compitino di Scurati

La difesa pavloviana dal fascismo immaginario ha raggiunto l’apice con il caso del bestsellerista cui si negano milleottocento euro per una comparsata tv. Sabato di resistenza di neostaffette partigiane, e un glorioso cinque per cento di telespettatori (con risposta tombale di Meloni)

Non ricordo qual è stata la prima o la centesima volta che l’ho pensato, in questo lungo weekend in cui i retweet venivano spacciati come lotta partigiana sulle montagne, in cui il senso del ridicolo era più stramorto del solito, in cui è stato chiaro che la curva d’apprendimento è vieppiù piatta. Non ricordo quand’è che ho pensato per la prima o centesima volta: io a vedere la sinistra schiantarsi sempre negli stessi modi non ce la faccio.

I fatti, se beati voi vivete nella capanna di Unabomber e domenica mattina non avete cliccato sulla app di Repubblica trovandoci in apertura quindici tra pezzi, video, ritratti, editoriali, retroscena, su Scurati, di Scurati, per Scurati, tra Scurati. (Il Corriere più moderato solo perché Scurati non è più editorialista suo. Non che nessuno si fosse in questi mesi accorto che era passato dal Corriere a Repubblica, ma non divaghiamo).

Serena Bortone, conduttrice d’un programma da quattro per cento del sabato sera su Rai 3, chiede ad Antonio Scurati – premio Strega, bestsellerista, professionista dell’antifascismo – un monologo da declamare in trasmissione. Lui scrive una paginetta di compitino su Matteotti, e qualcosa va storto.

C’entrano Calboni e Talleyrand? Luca Bizzarri, comico, ha detto che questa è una di quelle occasioni in cui il funzionario Rai smanioso di compiacere il potere eccede in prudenze. Andrea Malaguti, direttore della Stampa, ha ricordato che Talleyrand raccomandava: surtout, pas trop de zèle. Che anche a me pare un buon motto per sintetizzare queste due giornate di resistenza immaginaria, temo per ragioni diverse da quelle per cui lo evoca Malaguti.

Fatto sta che all’autrice e conduttrice di “Chesarà…” viene comunicato l’annullamento della prevista ospitata scuratiana, e lei fa ciò che hanno fatto tutti i Santoro del mondo in questi venticinque anni del format «Censura, puntesclamativo»: invece di risolvere la questione, arma un casino garantendosi un posto fisso nel martirologio (posto già prenotato mesi fa, quando percependosi eroica disse in trasmissione d’essere fiera d’essere antifascista, e il Twitter di Pavlov la acclamò come fosse stata una staffetta partigiana e non una conduttrice fin lì invisibile che aveva trovato il modo di diventare, scusate la parola, virale).

Naturalmente, poiché siamo bravissime a lamentare che ci siano poche donne di potere, ma sia mai che una donna di potere sia disposta a posizionarsi come donna di potere e non come Pollyanna che sbatte le ciglia travolta da una realtà più grande di lei, Serena Bortone – oltretutto protetta dall’essere una giornalista assunta dalla Rai a tempo indeterminato, non un Santoro collaboratore in balìa dei rinnovi contrattuali – scrive su Instagram che lei ha «appreso con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato».

Non è quello il momento in cui penso che non ce la faccio; lo so per certo, perché ricordo bene che quello è il momento in cui penso a Corrado Guzzanti che fa Rutelli («a’ Sere’, me fai ammazza’ dalle risate»), e in cui penso: ah, quindi la Bortone ora prende atto di venir trattata come il due di coppe quando briscola è a danari, e dice beh, se neanche mi dicono quando saltano gli ospiti e devo scoprirlo per caso, il programma ve lo fate voi e io torno dignitosamente a lavorare in redazione. Lo so: sono tenerissima.

Bortone, che è più sveglia di me, fa il suo apparentemente sprovveduto post dopo aver scartato l’alternativa che non avrebbe portato gloria a nessuno: far andare Scurati a Roma, insistere coi funzionari Rai, o convincere lui a fare ciò che ha poi fatto lo stesso (rinunciare a fatturare) e, nel caso assai improbabile che venisse messo il veto sulla sua presenza in studio a titolo gratuito, solo a quel punto piantare un casino – mica dodici ore prima, rendendo chiaro che è al casino che miri e non alla soluzione.

Breve inciso. Domenica Il manifesto riportava come non fosse la prima volta che la Bortone fa scrivere un monologo e la Rai le risponde «col cazzo»: sarebbe già accaduto mesi fa con Nadia Terranova, che aveva scritto un monologo mai andato in onda sugli studenti manganellati dalla polizia. Non ricordo, all’epoca, stuporoni pubblici della Bortone e conseguente indignazione dei social e dei giornali. Sarà perché Terranova è meno Strega e meno bestsellerista, o perché la puntata era meno adiacente al 25 aprile e all’antifascismo di Pavlov. Sarà che quel giorno a Bortone non funzionava Instagram. Surtout, sapere in quali casi vale la pena giocarsi la carta dell’indignazione per raccogliere il maggior consenso possibile.

C’è una questione di soldi, a margine della questione Scurati, che dovrebbe costituire come minimo un paio di capitoli nella nuova edizione del manuale delle malattie psichiatriche. Vediamo se riesco a riassumerla.

Il compenso per il compitino su Matteotti sarebbe stato di milleottocento euro. Pochi? Tanti? Medi, direi. La Rai li avrebbe ritenuti tanti e l’ufficio scritture avrebbe quindi bloccato il contratto. L’ufficio scritture della Rai, per capirci, è quello che venticinque anni fa offrì a un premio Nobel trecentomila lire a puntata per presentare Sanremo, giacché per l’ufficio scritture della Rai il Nobel non conta granché, se non hai «il precedente». Cioè un precedente contratto con la Rai che stabilisca il tuo valore monetario. Qual è il precedente di Scurati? Non lo sapremo mai, giacché come tutte le storie italiane anche questa è rapidamente diventata “Rashomon”.

Repubblica sabato pubblica una foto d’una schermata Rai in cui si dice che l’ospitata di Scurati è annullata per «motivi editoriali». Facciamo che ci fidiamo, e che quella è la vera comunicazione interna: servono, a voler fare una lettura non tifosa, i codici per decrittarla. Esiste la possibilità che in una comunicazione interna Rai qualcuno lasci scritto «è troppo esoso»? «Motivi editoriali» è una formula standard come «motivi di famiglia» nelle giustificazioni quando non ci andava di andare a scuola? Dipende da a chi chiedi, come in ogni rashomon.

Nel frattempo, però, sui social succede una cosa stupenda. Poiché il posizionamento antifascista richiede di stare con Scurati senza se e senza ma, il paese che strepita per il danaro altrui sempre e che normalmente non vede l’ora d’indignarsi se qualcuno è pagato coi-nostri-soldi, quel paese lì quei milleottocento euro per il compitino su Matteotti li difende come fossero il salario minimo d’un metallurgico. La gamma di zelanti motivazioni va da «il lavoro va pagato» a «non sono milleottocento per un minuto, sono milleottocento per una vita di studi per arrivare a quel minuto» (no, giuro: sono proprio milleottocento per un minuto, lo so che se lo ammettete vi si rivoltano contro i lavoratori culturali ai quali nessuno dà non dico milleottocento ma neanche centottanta euro al minuto come premio per una vita di dottorati, ma è una buona occasione educativa per ribadire che «quelli capaci la fila non la fanno»).

L’inevitabile protagonista del sabato pomeriggio è l’effetto Barbra Streisand di quando cerchi di occultare qualcosa e finisci per moltiplicare l’attenzione. Scurati dà il testo del suo monologo ai giornali, quelli ovviamente lo pubblicano, le autopercepite staffette partigiane twittano cose come «Linkiamolo tutti, facciamogli vedere che non si può silenziare l’antifascismo», sempre nei toni sobri che hanno generazioni che non hanno mai avuto a che fare con una dittatura e quindi si concedono il lusso di vederne di immaginarie ovunque.

A un certo punto mi appare persino un tweet di Giuliano Ferrara con scritto «La Rai ha pestato una cacca. Viva Scurati e il suo monologo», e piangendo mi viene da ridere. Qual è la differenza tra quando Santoro non doveva rompere i coglioni perché un editore aveva diritto di fare l’editore – cioè di dire: questo va in onda, questo no – e questa bega del 2024? Che la Meloni è meno simpatica a Ferrara di quanto lo fosse Berlusconi e la Bortone gli è meno antipatica di quanto lo fosse Santoro, d’accordo: ma può essere l’unico criterio, superata la quinta ginnasio?

Comunque. Il risultato barbrastreisandizzato è che il monologo è ovunque. Il compitino riassumibile in «Matteotti ucciso, Meloni fascista» – compitino che sarebbe scomparso, morto d’irrilevanza, in un programma televisivo di cui normalmente non s’accorge nessuno – viene diffuso come fosse un gol dei mondiali; finché succedono due cose.

La seconda è che la sera, come fosse appunto un gol dei mondiali, il compitino va a reti unificate, tutti a leggere quel passaggio sulla parola «antifascismo» che «palpiterà sulle labbra riconoscenti», giacché non c’è più differenza di lessico tra vibranti monologhi politici e “50 sfumature” (d’altra parte, se il registro abituale degli intellettuali all’opposizione è «bastardi» e «mentecatta», «palpiterà» è in effetti retorica sofisticata). Gramellini e Vecchioni lo leggono su La7 (almeno così mi dicono: far funzionare la app di La7 è impossibile a me come a chiunque); Serena Bortone lo legge su Rai 3.

Ribadendosi ingenua ragazza senza potere («Ho scoperto del tutto casualmente», «pur avendo passato tutta la sera a telefonare, mandare messaggi, mandare mail, non sono riuscita a ottenere alcuna spiegazione»); non presentando però di conseguenza le proprie dimissioni; ma soprattutto premettendo che «ho letto ricostruzioni fantasiose e offensive, qualche giornale ha scritto addirittura che ci sarebbe stata una questione di soldi, preciso che la reazione di Scurati è stata di regalarmi il testo».

Surtout, ribadire che il denaro è lo sterco del demonio e noialtri lavoriamo per la sola vocazione democratica. Surtout, omettere che milleottocento euro Scurati li incassa con seicento copie di “M.”, e insomma ecco è un sacrificio minore, considerato quante centinaia di migliaia di copie ha venduto quella trilogia (e l’anno prossimo arriva la serie Sky e altro che milleottocento). Ma scusate, non vorrei far sempre la parte della volgare capitalista, mentre scrittori e attori e sindaci e antifascisti tutti declamano in ogni dove il compitino su Matteotti sentendosi parte della resistenza – a titolo gratuito.

Io non ce la posso fare con una sinistra per cui le questioni di soldi sono «offensive», ma questo è un problema mio. Il problema di logica è invece: prerequisito per l’antifascismo è dunque lodare la generosità di Scurati per non essersi fatto pagare dalla Rai un testo che nel frattempo aveva lasciato pubblicare gratuitamente ai cani, ai porci, alle VongolaPartigiana75? (Testo e polemica non sono comunque riusciti a far arrivare Bortone al cinque per cento, d’altra parte era la milionesima replica dello stesso compitino).

La prima cosa che succede nel bel mezzo dell’effetto Barbra Streisand è che a un certo punto del sabato pomeriggio Giorgia Meloni pensa: vi faccio vedere come la gestisce una che ci sa fare con la comunicazione (mi scuso per tutte le volte in cui ho scritto che Meloni era una Ferragni della politica: è evidente che Ferragni ha moltissimo da imparare da lei nella gestione degli inciampi, è evidente che è Ferragni a essere una Meloni d’insuccesso).

Il suo «vi faccio vedere come posta un’italiana» comincia dalla sinistra che monta un caso invece di pensare ai veri problemi del paese, passa per una spruzzata di populismo sui milleottocento euro che un dipendente prende in un mese, plana su lei ostracizzata per una vita che mai chiederà «la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo coi soldi dei cittadini».

Surtout, io non ce la posso fare a vedere la Meloni vincere per i prossimi trecento anni, e la sinistra incartarsi sempre negli stessi modi.

La domenica mattina Antonio Scurati le risponde su Repubblica, straparlando della violenza che gli sarebbe stata fatta con un post su Facebook (come sopra: a non avere mai un problema vero, se ne proiettano di immaginari ovunque; è una buona notizia: siamo satolli e sereni, e possiamo dedicarci a usare parole serie per questioni poco serie).

Nella sua risposta, parlando di sé stesso in terza persona, Scurati si definisce «un privato cittadino e scrittore suo connazionale tradotto e letto in tutto il mondo». Ora, non voglio accanirmi sulla costruzione in cui sembra voglia dire che lo scrittore è connazionale del privato cittadino invece che della Meloni; non voglio neanche soffermarmi sul dirsi da soli che ti leggono in tutto il mondo, ché poi si nota che sono invidiosa; voglio solo dire che io non ce la posso fare. È un limite mio, scusate.

[articolo uscito su Linkiesta il 22 Aprile 2024]

Link: https://www.linkiesta.it/

 




Il cambio di paradigma epocale dell’OMS nella trasmissione degli agenti patogeni respiratori.

Tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo, vengono ridicolizzate. Secondo, vengono violentemente contestate. Terzo, vengono accettate dandole come evidenti. (Arthur Schopenhauer)

All’inizio del turbolento 2020, l’umanità si è trovata a fronteggiare un nemico nuovo, un virus sconosciuto che ha scatenato il panico globale. Nelle prime fasi della pandemia da SARS-CoV-2, ci si è concentrati sui metodi tradizionali di igiene personale e disinfezione delle superfici, nell’illusione che queste pratiche potessero arrestare la diffusione del virus. Eppure, il vero veicolo di contagio si nascondeva nell’aria che respiravamo. La comunità scientifica, guidata da un gruppo di 36 scienziati, ha impiegato mesi per avere dall’OMS una timida apertura sull’importanza cruciale della trasmissione per via aerea nell’epidemiologia del COVID-19. Ma da noi in Italia, le nostre autorità sanitarie hanno continuato inutilmente per oltre due anni (nonostante qualche avvertimento dell’OMS) a sanificare superfici, ad imporre con ritardo l’uso delle mascherine (senza distinzione tra filtri facciali e mascherine chirurgiche), ad applicare unicamente il distanziamento ed il famoso Green Pass come misura preventiva negli ambienti chiusi. La risultante di tutti questi interventi era (ed è) di gran lunga inferiore agli interventi ingegneristici da attuare se avessero accettato la via aerea di trasmissione del COVID-19. Il nostro Comitato Tecnico Scientifico irresponsabilmente non ha applicato il principio di precauzione (che impone misure protettive anche nella semplice ipotesi – non prova – di rischi per la popolazione o l’ambiente) causando decine di migliaia di casi, ricoveri e morti in più, con un sovraccosto economico enorme nella gestione della pandemia. La recente pubblicazione dell’OMS dal titolo “Global technical consultation report on a proposed descriptive framework for the approach to pathogens that transmit through the air” sancisce un cambio di paradigma epocale all’interno della comunità medica: sotto la guida di una ventina di esperti mondiali con competenze multidisciplinari (quelle negate nei tre anni del CTS che ha visto la partecipazione di membri appartenenti alla sola comunità medica e addirittura sbeffeggiate dai nostri virologi) è stata sancita la trasmissione aerea (il famoso vecchio aerosol) come via primaria di trasmissione per tutti gli agenti patogeni respiratori, dal SARS-CoV-2 all’influenza, dal morbillo alla varicella. Questa revisione ha portato alla accettazione da parte dell’OMS del concetto di particelle infettive respiratorie (IRPs), eliminando la vecchia distinzione tra “aerosol” e “droplets” e mettendo in luce l’importanza della ventilazione degli ambienti chiusi nella prevenzione delle malattie respiratorie. Per aiutare questa nuova comprensione della trasmissione virale, l’OMS ha inoltre pubblicato ARIA (Indoor Airborne Risk Assessment), una web app basata su un tool pubblicato dall’Università di Cassino nel 2020 (AIRC, Airborne Infection Risk Calculator), che consente di valutare il rischio di contagio da COVID-19 in base a diversi fattori ambientali e comportamentali. Grazie alla collaborazione interdisciplinare tra esperti di diversa provenienza, è stato possibile integrare i fattori fisiologici, virali ed ambientali ed ogni responsabile di spazi pubblici potrà quantificare il rischio di infezione e identificare le misure ingegneristiche preventive più efficaci per garantire una effettiva protezione dal contagio.  Il riconoscimento dell’OMS della trasmissione aerea come modalità principale di contagio rappresenta un importante progresso nella lotta contro le malattie respiratorie, anche se è fondamentale comprendere che non tutti gli agenti patogeni si trasmettono allo stesso modo e che le misure preventive devono essere adattate di conseguenza. Purtroppo, nonostante ci fosse consapevolezza nella comunità scientifica, poco è stato fatto per migliorare la qualità dell’aria negli ambienti chiusi. La maggior parte delle persone continua a trascorrere gran parte del tempo in ambienti con ventilazione insufficiente, esponendosi così a rischi per la salute non solo legati al COVID-19, ma anche ad altre patologie respiratorie e al degrado delle capacità cognitive. Per affrontare questa sfida, è necessario un impegno politico e finanziario, oltre a normative internazionali e nazionali per garantire standard minimi di qualità dell’aria negli ambienti chiusi. Così come abbiamo ottenuto progressi significativi nella sicurezza dell’acqua e nella riduzione dell’inquinamento atmosferico all’aperto, dobbiamo ora concentrarci sul miglioramento della qualità dell’aria negli ambienti chiusi, riconoscendo che questa è una delle sfide più urgenti per la salute pubblica del nostro tempo. La scienza è stata soffocata fin troppo da un dogma delle nostre autorità sanitarie cristallizzato dalla fine dell’800 (i famosi droplets). E nel nome di questo dogma non abbiamo affrontato i rischi degli ambienti chiusi, il vero tallone d’Achille delle nostre società, là dove trascorriamo il 90% del nostro tempo ed avviene la quasi totalità delle infezioni. Ma con l’ostinazione e le motivazioni di chi si sente supportato dal sapere scientifico e dall’esempio di chi ci ha preceduto, la nostra comunità scientifica non ha mai interrotto il tentativo di diffondere e condividere il sapere riuscendo in un risultato fondamentale per affrontare le future pandemie.

[Prof. Giorgio Buonanno Università di Cassino e del Lazio Meridionale Queensland University of Technology, Brisbane, Australia]




Generazione Z: fuga dallo smartphone?

Non è un momento felice per gli smartphone e per i social: da un anno a questa parte le voci che ne sottolineano ogni sorta di pericoli sono sempre più numerose. Fra le più recenti il possente studio di Jonathan Haidt sulla Generazione ansiosa, uscito poche settimane fa negli Stati Uniti, e il recente manifesto del professor Juan Carlos De Martin (Contro lo smartphone. Per una tecnologia più democratica).

Per certi versi, questo allarme improvviso mi stupisce un po’, visto che le prove della dannosità del telefonino e della “vita online” c’erano già una quindicina di anni fa, grazie al lavoro di tanti scienziati, medici, psicologi e sociologi. È del 2012 l’uscita in tedesco di Digitale Demenz (Demenza digitale), di Manfred Spitzer. Nello stesso anno, in Italia, il linguista Raffaele Simone, uno dei più acuti osservatori dei cambiamenti cognitivi connessi alla tecnologia, pubblicava Presi nella rete. La mente ai tempi del web, lucida descrizione dei danni cognitivi delle nuove tecnologie. E l’elenco delle analisi critiche tempestive potrebbe continuare.

Dunque – torniamo a chiederci – perché solo adesso ci si accorge di quel che si sapeva già 10-15 anni fa? Perché fino a pochi anni fa solo un’esigua minoranza di studiosi e cittadini era disposta a riconoscere gli inconvenienti delle tecnologie della comunicazione?

Di ragioni, verosimilmente, ve ne sono più di una, ampiamente intrecciate fra loro. Ma la più importante credo sia che, per riconoscere i danni, abbiamo dovuto attendere che i danni stessi uscissero dal mondo ristretto dei laboratori, degli esperimenti scientifici e dei ragionamenti teorici, e si mostrassero – per così dire – in campo aperto. Il che significa: che potessimo vederli concretizzati, quei danni, sulla pelle, nei vissuti e nelle menti di un’intera generazione, quella che è entrata nell’adolescenza quando l’accesso ai social stava diventando di massa grazie allo smartphone. Come hanno ampiamente documentato gli psicologi americani Jonathan Haidt e Jean Tewnge, il punto di svolta è il triennio 2010-2012, allorché esce il primo vero smartphone (iPhone 4) e l’accesso ai social si sposta dal computer fisso allo smartphone stesso. Le cavie di questo colossale esperimento di psicologia sociale sono le ragazze e i ragazzi delle ultime due generazioni (Z e alpha) nate dopo la fine degli anni ’90, e di cui solo ultimamente abbiamo cominciato a percepire la fragilità, i limiti e le sofferenze.

Quel che è successo è che, a un certo punto, il disagio è divenuto troppo tangibile perché si potesse continuare a negarlo, sottovalutarlo, o non riconoscerne le cause. A renderlo percepibile ha indubbiamente contributo la mera osservazione dei comportamenti giovanili, sempre più intrappolati nella morsa fra autolesionismo e aggressività, ansia e depressione, iperconnessione e ritiro sociale. Ma l’apporto decisivo lo hanno dato e lo stanno dando le statistiche che, specie nel mondo di lingua inglese e nei paesi nord-europei, documentano non solo l’estensione del disagio, ma la rapidità con cui si è diffuso dopo il 2012 e la selettività con cui ha colpito le ultime generazioni, lasciando sostanzialmente indenni le generazioni più anziane. È solo negli ultimissimi anni che è divenuta schiacciante l’evidenza statistica su precocità dell’uso dello smartphone, tempo medio di connessione, ubiquità della pornografia, diffusione dei più svariati sintomi di disagio, particolarmente gravi fra le ragazze.

Soprattutto, è solo grazie agli studi più recenti (di Twenge e Haidt, in particolare) che, una dopo l’altra, sono cadute tutte le spiegazioni di comodo dell’esplosione del disagio giovanile: alla prova dell’analisi statistica, l’unica spiegazione che regge è quella che fa risalire il disastro al cocktail smartphone + social media.

Non si sottolineerà mai troppo l’importanza di questo risultato. Fino a ieri, dare uno smartphone a una ragazzina di 12 anni senza imporre anche drastiche limitazioni d’uso, poteva apparire una scelta imprudente o coraggiosa, a seconda dei punti di vista. Oggi, alla luce di quel che sappiamo, è solo un imperdonabile azzardo.

Un azzardo di cui – anche qui a giudicare dalle statistiche – sembrerebbero via via più avvertiti i giovani delle ultime generazioni. Le più recenti indagini sulla generazione Z rivelano segnali di allontanamento dai social e sempre più frequenti ritorni ai telefonini tradizionali (i cosiddetti flip phone, economici e senza connessione internet), quasi si sentisse il bisogno di una pausa di disintossicazione dai veleni della rete. Segno che, alle volte, i giovani sono più saggi dei loro genitori.

(uscito sul Messaggero il 19 aprile 2024)




Gli indistinguibili – A proposito del “campo largo”

“Non accettiamo lezioni da nessuno” è una frase che, ciclicamente, sentiamo ripetere un po’ da tutte le forze politiche, quando una inchiesta della magistratura scoperchia malefatte dei politici, qualche volta presunte, qualche volta vere. È successo pochi giorni fa con il Pd a Bari e Torino; è successo con Fratelli d’Italia in Sicilia; ed è successo pure con il Movimento Cinque Stelle a Roma (anche se di questo si è parlato pochissimo). Quindi è vero che nessuno può dare lezioni, ma solo perché nessun partito è senza peccato.

Questo non vuol dire, tuttavia, che su questione morale e dintorni non vi siano differenze importanti. I partiti di destra non hanno mai rivendicato una superiorità morale. Il Pd e i suoi predecessori l’hanno sempre rivendicata, fin dai tempi di Berlinguer. Il Movimento Cinque Stelle ne ha fatto addirittura una questione identitaria, una sorta di biglietto da visita che lo rendeva una forza politica speciale, diversa da tutte le altre. Poco stupisce, quindi, che Conte – alla prima avvisaglia di difficoltà dell’alleato – abbia colto la palla al balzo, assumendo il ruolo di censore e giudice, in paziente attesa che i reprobi facciano pulizia in casa loro.

Per certi versi la mossa di Conte è comprensibile: le elezioni europee sono alle porte, e l’occasione per scavalcare il Pd e diventare il primo partito dell’opposizione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E i primi sondaggi dopo gli scandali sembrano dare ragione al leader Cinque Stelle: il vantaggio del Pd si sta riducendo, e potrebbe persino annullarsi (o cambiare di segno) se nuovi scandali dovessero riversarsi sul Partito Democratico, lasciando indenne il suo maggiore alleato.

C’è anche un’altra ragione, tuttavia, meno opportunistica e più politica, che rende non irragionevole la scelta di Conte. Ed è che, in questo momento, la “questione morale” è l’unico terreno su cui i Cinque Stelle hanno qualche possibilità di differenziarsi dal Pd non solo oggi, in occasione delle elezioni europee, ma anche più in là, quando sarà il momento delle elezioni politiche (2027).

E le differenze sulla guerra? si potrebbe obiettare; e quelle sul reddito di cittadinanza?; e quelle sulla magistratura? e quelle sui migranti?

In realtà, oggi nessuna delle classiche differenze fra i due partiti ha qualche consistenza. Sulla guerra, al momento di candidarsi al governo del paese non potranno che assumere un atteggiamento comune, come hanno dovuto fare i partiti di centro-destra, neutralizzando le gravi perplessità di Berlusconi e Salvini.

Sul reddito di cittadinanza, è impensabile che il Pd – dopo aver governato con i Cinque Stelle e difeso a spada tratta il reddito – recuperi le posizioni critiche e anti-assistenziali che aveva un tempo. Sulla magistratura, le intercettazioni, il potere dei giudici, la libertà dei giornalisti, è inevitabile che prevalgano le posizioni giustizialiste dei Cinque stelle, se non altro come antidoto al presunto eccesso di potere della destra. Stesso discorso sui migranti, anche se qui sono stati i Cinque Stelle – scottati dall’esperienza di governo con Salvini – a omologarsi alle posizioni del Pd.

Quanto agli altri grandi temi, ad esempio diritti civili e transizione green, è arduo immaginare anche un solo punto su cui i due partiti siano in grado di differenziarsi in modo significativo.

In breve, Pd e Cinque Stelle ormai si somigliano troppo per poter chiedere il voto in base a differenze programmatiche percepibili. E certo non aiuta il fatto che il terzo soggetto del cosiddetto campo largo – l’Alleanza Verdi-Sinistra (AVS) – sia a sua volta un’entità quasi indistinguibile dai due partiti principali della sinistra.

Ecco perché la scelta di Conte ha una sua logica. Con l’avvento di Elly Schlein e la sconfitta dell’ala riformista del Pd, con il convinto ripudio dell’era Renzi, con l’alleanza organica con Landini e la sua Cgil, le tre forze portanti del centro-sinistra – Pd, Cinque Stelle, AVS – hanno perso la capacità di spiegare in che cosa ciascuna di esse è veramente diversa dalle altre. Con un’unica particolarità, tutta a favore dei Cinque Stelle: che loro, almeno, possono provare a riesumare il marchio di fabbrica, “onestà e legalità”.

Resta solo da vedere se gli elettori vorranno prenderli in parola.

[uscito su La Ragione il 16 aprile 2024]