Talento Cosmico Invisibile

Perché solo le pere cadono

Ci son cascata come una pera. Mi piace quest’espressione, mi piace l’immagine della pera matura che cade. Lo dico così spesso che non so quante pere ho visto cadere, nel parlare della mia vita.

Però anche le pesche cadono. E cadono anche le mele, le prugne, le nespole e, ancor più classicamente, le foglie. Allora perché non diciamo mai: ci sono cascata come una pesca? Perché nel nostro linguaggio, nell’uso comune, nella tradizione dell’espressività popolare, cadono sempre soltanto pere?

In questo inizio d’anno politicamente ed economicamente tormentato, dove intellettuali, giornalisti, scienziati, scrittori, attori e studiosi si dedicano a capire perché il PIL non cresce, perché la disoccupazione sale, se usciremo dall’euro e quanto siamo fascisti, io tenterei di dare una risposta al problema delle pere: diciamo così perché un tempo nelle campagne i peri erano gli alberi maggioritari, cioè i contadini piantavano in prevalenza peri? o perché ai contadini piace il formaggio con le pere, dunque in qualche modo è il loro frutto preferito, anche nel linguaggio? o perché le pere, per qualche loro strana fragilità costituzionale, cadono di più rispetto agli altri frutti?

Mi sono rivolta a un mio amico, uno studioso molto serio, il quale dopo averci pensato un po’ ha risposto: perché le pere cadono in piedi. Gli ho chiesto di spiegarsi meglio. Ha detto che la conformazione fisica della pera, il peso maggiore della sua parte posteriore, fa sì che cada in verticale, si appoggi col sedere a terra, per dirla in modo visivamente efficace. Effettivamente la pera cadendo non rotola, o rotola meno. Soprattutto non cade mai a testa in giù (ammesso che la testa sia dove spunta il picciuolo). Quindi è la più adatta ad esprimere l’analogia con l’essere umano che cade, anche lui solitamente di sedere. Poi l’amico scienziato s’è perso in un vortice di similitudini, tra le quali: Sai, in fondo potremmo dire che la pera è come il gatto, cade sempre giusto.

E qui mi si è disegnato in mente un gatto che cade da un’altezza considerevole e riesce ad atterrare molleggiando sulle quattro zampe. E riprende a camminare come nulla fosse, con passo elegante, ovviamente felpato.

Punteggi ambulanti

Di recente abbiamo preso ad insegnare soltanto il metodo, il modo, di fare una certa cosa. Non la cosa in sé, ma come farla. Procedure, strategie. Insegniamo a riempire schemi prefabbricati, moduli prestampati; mettere crocette, completare puntini.

In qualche misura, equivale a insegnare a essere furbi, strategici. Stiamo dunque affermando il trionfo della strategia, del piano. Ci piace insegnare come aggirare gli ostacoli. Per esempio aggirare la propria ignoranza: bisognerebbe studiare per passare un test, ma se impari il metodo per passarlo non importa più che studi. Non importa se non sai quel che ti chiedo, importa che tu acquisisca un metodo per rispondere.

L’importante è centrare il bersaglio, raggiungere il fine: passare un esame, vincere il concorso per un posto di lavoro. Ultimamente, ottenere il reddito di cittadinanza (ho visto in tivù certe riprese agghiaccianti in cui si suggeriva all’utente come compilare l’ISEE a proprio vantaggio…).

Non importa sapere, conoscere la sostanza delle cose, approfondire una materia, acquisire una sapienza. Tantomeno dire la verità. Non interessa il contenuto, solo la confezione.

Come per i regali di Natale: importa il pacchetto. La carta, il nastrino, la pallina decorativa. E soprattutto l’etichetta del negozio. I regali, e chi li fa, vengono misurati (“valutati”) prima di aprirli: non da cosa c’è dentro il pacco, ma da dove hai comprato l’oggetto. È un atteggiamento piuttosto recente, direi: mi sembra che quand’ero giovane io non fosse così, o che il fenomeno non fosse così vistoso. O ero giovane e non mi accorgevo di niente?

Abbiamo tutti acquisito negli ultimi anni un atteggiamento sempre più “commerciale” nei confronti della vita. Ragioniamo da “economisti”, anche nei rapporti con gli altri: valutiamo, misuriamo, consideriamo le offerte, l’utilità, i benefici.

Forse ci tranquillizza. Forse così acquietiamo il nostro spirito guerriero che dentro ci rugge, oggi agguerrito soprattutto sulle (peraltro irrisolvibili) questioni di uguaglianza e ineguaglianza, merito e privilegio: ci sembra che usare tabelle, riempire moduli, crocettare, rispondere a quesiti prestampati, classificare e mettere in classifica, quantificare in punteggi, tradurre in percentuali, ci conduca a una oggettività di giudizio, a una imparzialità.

A me sembra un’illusione, che paghiamo a un prezzo molto alto: ci siamo numerizzati. Abbiamo accettato di essere ridotti a numeri. Siamo un punteggio ambulante, per arrivare al quale dobbiamo corrispondere a criteri. E i criteri sono imposizioni, violenze. La violenza di essere valutati non per la sostanza di quel che siamo e sappiamo, non per il nostro effettivo valore e talento (tutta roba invalutabile in modo oggettivo e impersonale), ma per la forma, il guscio esterno di noi, per quei dettagli esteriori e concreti che si offrono come gli unici a poter essere valutati.

Comunque non è facile imparare una strategia. Si tratta pur sempre di studiare, cambia solo l’oggetto dello studio. Per esempio per passare un test di scienze, invece di studiare un manuale di scienze, studiamo un manuale che ci insegna la strategia per passare un test di scienze. Stesso numero di pagine, stessa energia mentale. Forse ci sentiamo furbi, pensiamo di sgominare l’avversario. Invece abbiamo sprecato il tempo studiando cose molto noiose e inutili. Cioè utili soltanto a un fine ben definito e concreto, e tutto sommato limitato, come superare un test.

Piccolo omaggio ai talenti sconosciuti

In quanto al merito, al talento, il discorso è sempre difficile. Una strada impervia, direi. A parte i pochi casi in cui emerge chiaramente ed è pubblicamente conclamato (ovvero procura fama), esiste un talento tacito, umbratile, appartato: il talento che passa inosservato. Ed è quello che riguarda la maggioranza di noi. Potremmo dire che il mondo è interamente percorso da un Talento Cosmico Invisibile Sotterraneo, una specie di fiume nascosto che scorre nei meandri della terra e non esce mai in superficie. Eppure ristora e nutre il pianeta intero.

La maggioranza di noi può vivere anche tutta la vita senza che il proprio talento venga mai scoperto, riconosciuto, ammirato. Eppure c’è stato, è veramente esistito, ha avuto modo di esprimersi per lunghissimi anni, e ha agito nel mondo distribuendo indubitabili doni agli altri.

Può essere un ingegnoso idraulico, un’insegnante appassionata, una ballerina di fila bravissima, un maestro di karate in un’oscura scuola di periferia, la cuoca di una sperduta osteria che fa lasagne eccezionali; un medico che si dedica ai suoi pazienti ben oltre il dovuto, un giardiniere a cottimo che scalpella siepi artistiche. Non importa che mestiere fa, ma lo fa in modo eccelso, particolare, tutto suo, magari geniale. E lo fa per tutta la durata della sua vita, costantemente, ogni giorno, perché tutta la sua vita è quello, è esprimere esattamente quel talento.

Chi ha la fortuna di venire a contatto con persone del genere gode di infiniti benefici, e spesso ne è ignaro, non pensa affatto di esser stato toccato dal talento unico e irripetibile di quegli eroi e artisti incogniti. A volte non ringrazia neppure. E invece, dovrebbe esprimere una gratitudine sterminata.

Ho conosciuto personalmente molte persone così. Sono persone prese soltanto dalla loro passione, avulse da ogni forma di potere, estranee a ogni tornaconto personale, direi anche inconsapevoli del loro valore, o comunque non interessate a che quel valore venga pubblicamente riconosciuto. Penso che non ambiscano a nulla, e che un’effimera gloria non aggiungerebbe nulla alla loro vita, perché si nutrono di un bene che è ben maggiore, e che chiamerei la “contentezza di sé”, quel sentimento di pienezza della vita che ci prende quando sentiamo di aver fatto bene il nostro lavoro.

Fare bene il proprio lavoro, il senso sta tutto in quell’avverbio: bene, meglio che si può. Certo che quel bene meriterebbe un premio. Ma il premio migliore a cui dovremmo tutti quanti aspirare è proprio la capacità di fare a meno di qualsiasi premio.

Sono sicura che tutti ne abbiano incontrate, di queste persone. In genere sono riconoscibili da una luce che ne illumina gli occhi, il sorriso. Una luce che, come direbbe Dante, “ci porta di là”.

A tutte queste persone sconosciute, generose, non egoiste, non ambiziose, ignare di sé, vorrei dedicare il libro di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi. E in particolare la pagina iniziale, che fa un po’ da epigrafe:

Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali bisogna avere la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni. Se tale azione è priva di ogni egoismo, se l’idea che la dirige è una generosità senza pari, se con assoluta certezza non ha mai ricercato alcuna ricompensa e per di più ha lasciato sul mondo tracce visibili, ci troviamo allora, senza rischio d’errore, di fronte a una personalità indimenticabile.

Articolo pubblicato su Il Sole24Ore del 24 febbraio 2019



Tronti

Apriamo il Popolo perduto di Mario Tronti (Nutrimenti): “Non voglio metterla sul sentimentale… Ma devo confessare un disagio… non mi va di trovarmi dalla stessa parte dei benestanti, mentre i nullatenenti stanno dall’altra parte”.  Commovente, da parte   del guru dell’operaismo  Tronti, allora nietzscheanamente  indifferente alla sfera dei “valori”  e algido  teorico della ferrigna “scienza”operaia, partire da un disagio personale legato al  privilegio sociale.  Forse ogni tanto bisogna pur metterla “ sul sentimentale” (in un’altra pagina lo stesso autore confessa le proprie lacrime di rabbia…). Proprio il vecchio Marx, molto malato ad Algeri, scriveva a Engels che gli dava conforto solo il chiaro di luna  sulla superficie marina (il chiaro di luna che quei fessi dei futuristi intendevano abolire!). Entrare all’Auditorium alle 9 di sera e pensare a chi si sveglia alle 6… Da che parte stare, con i “benestanti”? No, certo, dalla parte degli oppressi, degli umiliati e offesi. Aggiungo solo, stavolta rileggendo Marx,   proprio in nome di ciò che, nonostante il privilegio, è  “umiliato” e  “offeso” anche dentro di me, ma su questo tornerò dopo.

L’intero libro è punteggiato da riflessioni originali e penetranti – sull’Europa e l’internazionalismo, sulla “anomalia Italia”,  sulla folla solitaria della Rete, sulle tre società  che oggi si fronteggiano (garantiti, non garantiti e nove milioni di  esclusi (tra l’altro basandosi su una ricerca della Fondazione Hume), sulla forma-mondo, sul capitalismo post-industriale, sul femminismo della differenza –  all’insegna del motto trontiano “pensare estremo, aggire accorto”. Credo però che nel cuore del libro ci sia una contraddizione su cui vale la pena soffermarsi. Da una parte infatti l’autore chiede alla politica di reimmergersi nel vissuto delle persone, nel vivere quotidiano delle persone semplici, e si richiama al senso civico dei problemi, alla volontà di intervento diretto, all’automobilitazione di base. Dall’altra Tronti  ribadisce di essere  un “uomo di partito”, cita il “moderno Principe”,  ci invita a “ripartire dall’alto”, e soprattutto mostra di avere pochissima fiducia nel  singolo, nella persona, che ad esempio  – come scrive – “non ha il tempo, il modo, l’agio di occuparsi delle polveri sottili”. E perché mai? Mi sembra di tornare alla antropologia riduttiva della classe operaia  anni ’60 da lui definita “rude razza pagana”, cioè priva di slanci ideali, nobili passioni, interessi diversi dal salario  e infine di umanità! Ho l’impressione che Tronti sia rimasto, fuori tempo massimo,  intimamente leninista (qui elogia varie volte Lenin). Negli  anni ’60 aveva scritto “Lenin in Inghilterra”, un saggio fulminante  scritto in uno stile percussivo (forse poco rispettoso della “realtà”, dell’empiria, ma suggestionò una intera generazione). Ora forse vorrebbe  scrivere “Lenin nell’Italia dell’antipolitica”. Ma il nostro orizzonte deve  essere ancora  quello leninista (solo “corretto” da un po’ di “egemonia” gramsciana)?

Punctum dolens è il giudizio svalutativo sul Partito d’Azione (cui si sarebbe oggi ridotto oggi il PD), che secondo Tronti significa andare alla guerra disarmati. E ad esso contrappone persino  la doppiezza togliattiana, per lui assai più saggia e realistica. A me sembra che oggi il meglio dell’azionismo, al netto del moralismo predicatorio e di altri difetti su cui esiste  una sterminata bibliografia,  sopravviva non tanto nel PD come Partito Radicale di massa quanto nelle buone pratiche di cittadinanza, nelle comunità  argentine di nonni e bambini di cui parla Naomi Klein, in Occupy Wall Street, nelle esperienze di cooperazione e consumo critico, nella rete di contropoteri che già qui ed ora ci modificano e ci liberano. Negli anni ’80, Vittorio Foa, esponente della tradizione azionista, scrisse un prezioso libriccino sulle lotte operaie in Inghilterra: la Gerusalemme rimandata. Impegnati a riorientare politicamente  le masse, a “riprenderci” il popolo,  a riformare  improbabili partiti, quanto ancora la rimanderemo? La novità più bella degli ultimi decenni è il revival di un filone libertario fondato sulla pratica degli obiettivi: Colin Ward, Paul Goodman, Saul Alinsky, Ivan Illich…. Il  governo locale come  scuola di civismo politico: negli organismi di base si forma un cittadino responsabile e consapevole  che si prende cura di sé e del bene comune. Dove altro si può formare? Nelle scuole-quadri dei  partiti?  Ne parlò Giolitti alla Costituente: “la garanzia essenziale del regime democratico è l’autogoverno, che è fondato sul senso di responsabilità, sulla coscienza morale e politica del cittadino”. Ecco, non vede Tronti che  Togliatti e De Gasperi condividevano l’idea di una immaturità dell’autogoverno ( e quindi dell’individuo), e anche perciò respinsero la proposta Dossetti-Moro di introdurre nella Costituzione il “diritto di resistenza” perché avrebbe ridotto il ruolo dei partiti. Può darsi che allora avessero buone ragioni, ma oggi?  Rileggiamo  gli Scritti politici di Carlo Levi, giellista, dove il senso  della politica non è la riscoperta del ceto politico ma “un diverso e rinnovato interesse al concetto di responsabilità”(Bidussa).

Tronti confessa una  simpatia per Giorgio Gaber. Bene. Carlo Levi esortava a sconfiggere il fascismo “dentro di noi”. Cito da Gaber: “Non mi fa paura Berlusconi in sé, ma Berlusconi in me”. Sì, ritroviamo il popolo perduto. Ma anche noi siamo “popolo”. Anche noi siamo “periferia”.  Ripartiamo dalle nostre paure e insicurezze, dal nostro pervicace attaccamento ai privilegi e dalla nostra inconfessata xenofobia. E anche però dalla nostra capacità di resistenza e spirito critico. Per Tronti l’individuo da solo, con le sue capacità,  non ce la fa. Eppure dovremmo avere fiducia, al di là di ogni determinismo sociologico,  negli individui –  nella loro iniziativa autonoma,  nella loro immaginazione, nel valore di contagio della loro azione –  dei quali invece diffidano da sempre sia la tradizione comunista che quella cattolica. L’individuo non è la monade borghese,  chiusa nel suo egoismo autoreferenziale, il capitano di industria senza scrupoli  del neoliberismo, ma anzitutto colui che pensa (“si pensa da soli”, Hannah Arendt) e che  dice no al potere: “mi rivolto dunque siamo”(Camus). Il singolo che si ribella prefigura la  comunità. Ma noi ci  crediamo all’individuo?




La linea d’ombra dell’esperienza

A proposito della mania attuale dell’ “autorealizzazione”, e delle riflessioni di Luca Ricolfi sulla volontaria sequestrata in Kenya (Silvia Romano), vorrei aggiungere qualcosa. 

Anzitutto una premessa. Può darsi che da quella scelta derivassero alla ragazza gratificazioni  particolari, e che da essa venisse nutrito il suo narcisismo. Per rispetto verso Silvia Romano bisognerebbe però riconoscere una cosa. Il solo fatto di far coincidere autorealizzazione e altruismo, piacere e sacrificio di sé, abnegazione e vanità, mi sembra comunque una conquista altissima, che evita tra l’altro qualsiasi approccio moralistico alla morale (la benevolenza è almeno altrettanto naturale e “gratificante”dell’ aggressività).

Mi soffermo però sull’aspirazione universale –  che caratterizza il nostro presente –  alla felicità personale e appunto all’autorealizzazione (a tutti i costi),  sulla ossessione della creatività. Si ritiene infatti che esista un diritto alla creatività e al talento: tutti poeti, come volevano i surrealisti! Tutti romanzieri! Tutti virtuosi del clarinetto! E invece il talento è distribuito in modo disuguale. Dio è tendenzialmente di destra. Dunque quella aspirazione, essendo perlopiù disattesa, genera frustrazione e invidia. In altre epoche e in altre civiltà si accoglie serenamente il proprio destino, si accetta la parte –  sia pure essa “mediocre” –  che il caso ci ha assegnato. Non ci si sente tutti artisti incompresi, vittime di qualche complotto. Che fare? Dobbiamo auspicare  l’amor fati degli stoici o magari una rassegnazione   alla provvidenza, come la Lucia manzoniana? Suggerisco due risposte possibili.

La prima è tentare di vedere la “creatività” là dove uno di solito non la cerca,  magari in una nostra attività anonima, silenziosa, fuori dai riflettori. Una volta Borges dichiarò di essere orgoglioso non dei libri che aveva scritto ma di quelli che aveva letto!  Non sarà ricordato nelle storie letterarie per questo. Eppure era orgoglioso dei libri letti. Bisognerebbe contribuire a diffondere modelli diversi di creatività.  Rivalutare la creatività che si manifesta come passività ricettiva, come attività  appartata,  ad esempio come gusto di un lavoro ben fatto, di una soluzione ingegnosa a un problema pratico, etc. (anche senza che ci siano spettatori o testimoni). E passo al secondo punto, che riguarda l’esperienza.

Nella Linea d’ombra di Conrad il giovane al suo primo comando scopre che la “realtà” non si trova lì dove se l’aspettava. L’esperienza vera non è infatti sfidare tifoni e tempeste – e passare alla Storia -, esponendosi  intrepidamente a qualche prova eroica (un po’ troppo pianificata e in fondo “letteraria”), ma sopportare 21 giorni di imprevista, prosaica  bonaccia, senza cedere alla follia. L’esperienza vera non coincide tanto con l’avventura spettacolare, con l’Impresa di Fiume,  quanto  con la esperienza della nostra sostanziale impotenza di fronte alla realtà. La maturità per Conrad consiste precisamente in questo: accettare la noia, l’opacità  e il vuoto che sono parte dell’esistenza (senza perdere la testa),  elaborare volta a volta strategie adattive  di fronte agli eventi, saper attendere e  soprattutto però tenersi pronti, cogliere l’occasione che anche la situazione più sventurata può implicare.




Elogio della distrazione

Un mese fa ho difeso l’attenzione, adesso proverò a elogiare la distrazione. L’esatto contrario dell’attenzione.

Distrarsi vuol dire proprio questo: smettere di fare attenzione. Infatti se mi distraggo durante un compito di matematica, non risolvo il problema e prendo quattro. E se mi distraggo davanti a una scala mobile, inciampo e cado lunga distesa. In entrambi i casi pago la mia mancanza di attenzione.

In realtà distrazione vuol dire “essere tratti via da” qualcosa verso qualcos’altro, cioè smettere l’attenzione in qualcosa per mettere attenzione in altro. Magari mentre salgo la scala mobile passa un mio vecchio compagno di scuola e io, nella gioia di riconoscerlo, mi distraggo. Cioè, faccio attenzione a lui. In tal caso cado, ma felice. Direi “aumentata”, poiché l’incontro ha aggiunto qualcosa di bello alla mia giornata.

Digressione n. 1: può esistere anche la “persona aumentata”, non solo la “realtà aumentata” che tanta parte avrà nel nostro futuro prossimo.

Non potrei scrivere, se non mi distraessi continuamente. Credo che scrivere sia intimamente connesso al distrarsi.

Certo, l’attenzione ai dettagli viene prima di tutto. Ben prima della storia, del tema, del senso. Non importa se racconto la storia di una madre che lavora e trascura il suo bambino di sei anni, il quale ogni tanto si butta in ginocchio e prega. Non è quello il punto. Il punto è che guanti indossa, come si veste, che rumore fa il cellophane quando lei scarta la merendina per suo figlio. Il punto non è che lei ogni sera lava i piatti, ma il verde vischioso del gel, in che modo e con quali pensieri lei lo guarda scivolare sul bianco dei piatti che sta lavando.

La distrazione nella scrittura si chiama digressione. Vai per una certa strada (narrativa), poi ti distrai e prendi un viottolo. Ti perdi in un altro pensiero, un ricordo personale, la storia di un altro. Anche se non c’entra niente. Anche a costo di perdere il filo, parlare di cose irrilevanti, deviare l’attenzione del lettore… Pazienza. E poi, chi lo stabilisce cosa è irrilevante o meno?

Il massimo del romanzo digressivo (si può dire?) è l’Orlando furioso. Non abbiamo più raggiunto simili vette di “scrittura deviata, dis-tratta”. La strabiliante riduzione televisiva di Ronconi, che ha allietato le nostre serate negli anni ‘70, con quei cavalli su rotaie che passavano da una stanza all’altra tirati dal caso, ne è stata la migliore dimostrazione visiva.

Scrivere è degredere di continuo. Un romanzo può essere una serie ininterrotta di digressioni incastonate l’una nell’altra, oppure una digressione ogni tanto, anche minima, dove però si sente che sta il cuore del libro, il nodo del senso: il punto dove l’autore è riuscito a dire quel che veramente gli stava a cuore dire, al di là della storia che sta raccontando, della trama, della coerenza narrativa.

Può capitare che le digressioni siano la vera anima di un libro. Di sicuro ne fanno il ritmo narrativo, sono il respiro della narrazione: ansante, quieto, scoppiettante, ondivago, martellante, disteso… Mare mosso o mare calmo, ochette o cavalloni. Un mondo, un universo. Una “cattedrale”. Tutto Proust, per esempio.

O, altro capolavoro digressivo, il Tristam Shandy.

Escamotage. Scappatoia. Nicchia segreta dove nascondere il tesoro. Nascondere, scappare, sì. Non sempre l’autore vuole svelare e svelarsi, parlare in modo diretto, letterale. A volte preferisce celare, velare. Dire una cosa dicendone un’altra, apparentemente lontana. Non dico ingannare, ma depistare, camuffare, complicare. La scrittura ha un rapporto complicato con la verità: non è dicendo il vero che svelerà la realtà delle cose, spesso è inventando un vero fittizio che meglio riuscirà a toccarla.

La digressione è libertà. E trasgressione. Degredere (o degredire) è anche transgredere (bellissimi verbi che non esistono in italiano): mandare all’aria lo schema, farsene due baffi della progressione logica, e anche delle aspettative del lettore.

È lanciare una sfida molto hard al lettore: vediamo se mi segui là dove ti sto portando, se hai il coraggio di intraprendere questa stradina così nascosta e irrilevante. Vediamo se lo vedi, innanzi tutto, questo viottolino coperto da cespugli di rovo…

In piccolo, anche l’inciso è una digressione. La frase incidentale, o la parola tra parentesi.

Gadda ne è maestro. Sentite qua, da quel surreale eppur realisticissimo racconto che è L’incendio di via Keplero: “Il Besozzi (…) si asciugava – con un asciugamano color topo di chiavica -; si pettinava – con un suo mezzo pettine tascabile, verde, di celluloide –, e poi…”.

L’inciso è lo spazio dei dettagli, dell’apparente insignificante e irrilevante.

Un giorno mi piacerebbe scrivere un romanzo pieno di incisi e parentesi. Almeno una parentesi a pagina, per esempio.

Ogni distrazione ci devia. Ci depista, ci sposta da dove siamo, da chi siamo. Sposta gli occhi, e i pensieri. Ci fa andare via, pur rimanendo col corpo dove siamo. Ci porta quindi in luoghi che non avevamo previsto. Ci fa viaggiare, esplorare mari sconosciuti.

E andare via, ogni tanto, ci fa bene. Ci aiuta a diventare altro da noi, stranieri, sconosciuti a noi stessi.

Il problema poi è tornare. Riprendere il filo. Il rischio esiste, di non riprenderlo più, di perdersi. Ulisse e Orlando son due che hanno rischiato grosso; potevano non tornare mai, non ri-diventare quel che erano: il re di Itaca, il campione dell’esercito cristiano.

Giro-vagare. Scrivere da vagabondi senza meta, o con una meta che abbiamo perso. Non andare più da nessuna parte. Essere vaghi. Vagabondi. Come il fannullone di Eichendorff (o perdigiorno) che va suonando il suo violino di qua e di là. Come i violinisti volanti nei cieli di Chagall. Evitare con cura l’obiettivo, la carriera, il potere e ogni ruolo definito. Mancare la vittoria. Perdere….

Atalanta è la fanciulla che non vuole sposarsi. Corre più veloce di tutti, e un giorno indice una gara crudele: chi vuole sposarla deve batterla nella corsa, se no morirà. Ippomene la vuole, è innamorato. Corre, ma lei gli sta sempre davanti, imprendibile. Allora lui lascia cadere sulla strada tre mele d’oro, una dopo l’altra, e Atalanta, attratta da quell’oro, rallenta e devia dalla meta. Si distrae.

Si perde?

Di sicuro perde la corsa.

Credo che attenzione e distrazione debbano andar congiunte. È bello che convivano, che ci sia complicità, tra di loro.

Il fatto è che lo sguardo è mobile, viaggia sulle cose. Ma esiste il tempo, abbiamo deciso che lo sguardo è progressivo, e anche la nostra vita: la pensiamo come un insieme di istanti. Fotogrammi che mettiamo in successione, a costruire una linea temporale che in realtà, forse, è una finzione. Il tempo puntiforme? Non sapremo mai se il tempo esiste o tutto è racchiuso in un punto. Barbour, nel suo libro La fine del tempo, solleva dubbi….

E il multitasking? Direi che la distrazione è esattamente il contrario del multitasking che oggi tanto ammiriamo. La virtù del multitasking consiste nel mettere attenzione a tanti oggetti contemporaneamente, esser capaci di dedicarsi a mestieri e gesti diversi, aprire più finestre e tenerle “accese” tutte insieme. La distrazione invece è lasciare un oggetto per andare su un altro. E quando si va su un altro, sul primo oggetto cade il buio, per forza di cose. Non c’è accumulo, non vince la pluralità. C’è sempre una cosa soltanto in luce, che semplicemente non è più quella di prima.

C’è il tempo, dentro la distrazione. È uno spostarsi nello spazio e nel tempo. Prima guardavo un quadro alla mostra di Van Gogh, ora guardo la formichina che mi cammina sul piede. Non guardo sia Van Gogh sia la formichina, non m’interessa tenere insieme le due visioni. O non ne sono capace. O meglio, decido che non ne sono capace. Atalanta non è capace di continuare la corsa e guardare la mela d’oro. Segue la mela e abbandona la corsa, per forza. C’è il tempo come successione, nella sua vita. Dunque c’è la scelta. Altissimo valore morale: vogliamo perderci il valore della scelta, in questa corsa sfrenata al futuro?

Digredire e trasgredire impongono sempre di scegliere. Una cosa piuttosto che un’altra.

Non so se il multitasking produrrà performance mentali innovative e strabilianti. Alcuni sono convinti di sì, molto convinti. Ma credo che nessuno abbia certezze. Quindi, nel frattempo, mi asterrei da tanta esaltazione.

Per quel che riguarda il mio mestiere, non so se si possa scrivere, in modalità multitasking. O se per scrivere sia necessario esattamente il contrario: un’attenzione a un unico oggetto per volta, e uno spostamento continuo (e lento) da un oggetto all’altro. La digressione è un viaggio, il multitasking, in fondo, è star fermi. Si è in più luoghi ma si sta fermi, gli occhi posati su più punti, cose, persone, panorami, contemporaneamente.

È quel contemporaneamente che non mi convince: c’è assenza di tempo. O un tempo che mi sembra statico, e anche presuntuoso. C’è la presunzione di onnipresenza (e onnipotenza), nel multitasking. Ma noi non siamo Dio. E ogni tanto andiamo via, lasciamo luoghi amati e persone care.

Anche per scrivere (o creare in generale) bisogna perdere qualcosa: andare via di continuo vuol dire di continuo abbandonare qualcosa, qualcuno. C’è tristezza, in questo, e nostalgia. Ma c’è anche un premio: non farsi trovare mai nello stesso posto. Diventare imprendibili.

Il multitasking mi fa pensare alla grande cucina di un ristorante, dove il cuoco deve badare nello stesso momento a una decina di pentole, cibi e cotture diverse: buttare la pasta, girare il sugo, salare le patatine, aggiungere le spezie all’arrosto, spegnere il forno, girare la frittata. Bravissimo, questo cuoco. Ma sta sempre in cucina. Non si muove.

Distrarsi vuol dire lasciare la cucina e andare in giardino, e poi in sala, e poi sul balcone e poi scendere per strada. Spostarsi. E ogni volta essere un altro, raccontare altro, cambiare se stessi, e il senso di quel che diciamo.

A costo di perdersi.

E sì, se fai digressioni rischi di non ritrovare la strada. Potresti non tornarci mai, in quella cucina.

Per questo, comunque, mi piacciono i perdenti. Quelli che perdono tutte le gare, che arrivano ultimi. Non perché gli ultimi saranno i primi, non ci ho mai creduto. Ma perché gli ultimi si sottraggono alla gara, e quindi sono i veri vincenti. Mi piacciono quelli che si rifiutano di competere, e magari alla fine vincono fuori da ogni competizione, in qualche idilliaco paradiso a-mediatico, novello giardino edenico. (Mi scuseranno gli sportivi, ma proprio non ce la faccio. La competizione mi annebbia un po’ lo sguardo, mi offusca la pace interiore).

Magari lo studente che si distrae durante il compito di latino o matematica prende quattro. Anzi, è sicuro. Ma magari si è distratto per scrivere una poesia bellissima. E allora, chi ha perso, chi ha vinto? Cosa è meglio e cosa è peggio?

Cosa ne sappiamo noi di che cosa siamo veramente chiamati a fare? Distrarsi è anche lasciarsi andare. Credere, confidare in un destino.

Atalanta come sappiamo sposerà Ippomene. Perdendo la gara, ha vinto l’amore.




Fare attenzione

I cartelli di pericolo ci esortano a fare attenzione. Attenzione al gradino, all’incrocio, al passaggio di animali, alle buche. Se no cadiamo, precipitiamo, anneghiamo, scivoliamo. Senza attenzione, ci facciamo male.

Anche a scuola l’insegnante esorta gli allievi, da secoli: State attenti! Vuol dire che è bene ascoltare la lezione trattenendo qualcosa nella memoria, o badare a non fare errori nelle verifiche in classe.

Mi ha colpito, in questi giorni, una frase di Philip Roth che ho letto in un’anticipazione dei suoi scritti nonfiction, appena pubblicati da Einaudi: Perché scrivere? Saggi conversazioni e altri scritti. La frase riguarda un aneddoto della sua infanzia, quando andava ogni quindici giorni nella piccola biblioteca di quartiere, prendeva cinque o sei libri in prestito e li portava a casa nel cestino della bici. Ecco, Roth dice che scrivere è parlare di quel cestino, evocarlo, descriverlo. Mettere attenzione ai particolari. È bellissimo questo, ha ragione. Se scrivesse solo che si portava a casa i libri della biblioteca, non sarebbe letteratura (secondo una certa idea di letteratura, almeno…). Diverso dire che se li metteva nel cestino della bici. È quel cestino, il centro. Perché così noi lo vediamo, quel bambino che pedala verso casa, con i libri che gli sballonzolano nel cestino. E, poiché lo vediamo, non è più soltanto lui: siamo tutti noi. Uguale: letteratura.

Scrivere è far vedere le cose, leggere è vedere. Se azzeriamo i particolari, il gioco finisce.

Credo che l’attenzione sia un bene prezioso, una qualità che l’essere umano decide o no di usare, e di coltivare. Credo sarebbe meglio che decidesse di usarla, e vivesse con attenzione, osservando le cose e le persone nei particolari. Vale per la scrittura, ma direi in generale per la vita.

Scrivere è certamente fare attenzione. No, lo dico meglio: scrivere è vivere facendo attenzione.

(Ecco perché si è scrittori anche quando non si scrive: perché si vive in un certo modo, osservando, ascoltando. Captando segnali ovunque lo si possa fare).

L’altro giorno una ragazza mi ha chiesto come s’impara a scrivere un romanzo. Domanda a cui non ho mai saputo rispondere. Neanche a scuola sapevo insegnare a scrivere… Una non-qualità che mi è stata spesso imputata, da genitori e colleghi. Be’, a quella ragazza ho risposto proprio questo: per imparare a scrivere bisogna osservare con attenzione. Mi ha chiesto:

Osservare cosa?

Tutto, i gesti delle persone, le scarpe, i colori dell’autunno, le scatole dei pelati, i topi di fogna che passano lungo il fiume, la piega dei pantaloni di un manager, le briciole che ti cadono sul maglione. E ovviamente i sentimenti, tuoi e degli altri.

Si osservano i sentimenti?

Certo che sì.

E come?

Be’, di questo dovremmo parare a lungo, adesso mi scusi ma devo andare…

Fuga? Sì, fuga. A gambe levate.

Mi soccorre, per fortuna, Hemingway. Trovo un suo librino meraviglioso, dell’editore che ormai è diventato il mio preferito: parlo delle edizioni Henry Beyle, di Vincenzo Campo. Il libro s’intitola Lettere dall’alto mare sullo scrivere, e già da qui, dal titolo, come non saltare sulla sedia dalla felicità? Lo leggo tutto. Sottolineo ogni riga, e vorrei parlare di questo libro a ogni Paginetta. Ma oggi mi limiterò a passarvi queste parole, sentite qua: “Come scrittore non dovresti giudicare. Dovresti capire. E poi ascolta. Quando la gente parla ascoltala totalmente. Non pensare a quello che dovrai dire. La maggior parte della gente non ascolta mai. E neanche osserva. Dovresti essere capace di entrare in una stanza e quando esci sapere tutto quello che hai visto”.

Non pensare a quello che dovrai dire… com’è vero! Ascoltiamo sempre pensando a quel che poi ci toccherà rispondere, alla bella figura che, rispondendo, ci piacerebbe fare! Non ascoltiamo mai la domanda. Non facciamo per niente attenzione a quel che l’altro ci chiede o ci dice, prestiamo attenzione soltanto a noi, a quel che gli altri penseranno di noi a seconda di come avremo risposto. Non è ascoltare, questo, è guardarsi allo specchio. È stare chiusi dentro un perenne esercizio di egocentrismo. Insuperabili, in questo paradossale non-ascolto, sono proprio coloro che per mestiere fanno domande: gli intervistatori della tivù, per esempio. Lo vediamo chiaramente che, mentre l’intervistato risponde alla domanda numero 1, il conduttore non ascolta la risposta ma pensa alla sua domanda successiva.

Bisogna, allo stesso modo, osservare molto. Osserviamo? Normalmente no, direi. Usiamo gli occhi, certo, li mandiamo a destra e manca. Guardiamo, vediamo, registriamo visivamente cose e persone. Ma osserviamo mai davvero? Mettiamo attenzione ai particolari, esterni ed interni? Voglio dire, tanto il gesto del nostro gatto di pulirsi i baffi, quanto i nostri imbarazzi, risentimenti, le nostre soddisfazioni, irritazioni e improvvise felicità? Questo dicevo alla ragazza. Anche senza prendere appunti, non importa: quel che avremo osservato, poi entrerà in qualcosa che scriveremo, senza volerlo, quando meno ce lo aspettiamo.

Anche leggere è fare attenzione. Alle parole, non alla trama. Sono le parole che fanno un libro, il modo in cui la storia è raccontata vale di più della storia in sé. Il romanzo di Manzoni è un capolavoro per come l’ha scritto, la trama si ridurrebbe più o meno a questo: due giovani vogliono sposarsi, ma un giovinastro del paese s’invaghisce della promessa sposa e impedisce il matrimonio. Pochino.

Leggere è prestare un’attenzione spasmodica alle parole, ai legami, alla posizione all’interno della frase, ai possibili sinonimi, alla loro ambiguità, e possibile molteplicità di sensi. Indugiare con amore sulle parole, amarle, una per una.

Filologia vuol dire questo.

L’attenzione. Viene da attendere, rivolgere l’animo, la mente a qualcosa. Implica concentrazione, riflessione, interesse, impegno. Diligenza, cura, prudenza, riguardo, cortesia. Per le persone e per le cose.

Per esempio l’educazione dei figli esige attenzione. Il genitore attento è colui che osserva e ascolta il figlio. Sta in silenzio a guardare ogni sua minima mossa, ogni rossore, ogni pianto o sorriso. E ne indaga il senso. Si chiede qualcosa intorno a quel che osserva. Inevitabilmente interpreta, e può anche fraintendere. E forse un’idea del figlio se la farà soltanto dopo molti anni, e sarà comunque un’idea parziale, limitata, e forse persino sbagliata. È così. Siamo difettosi, “esseri manchevoli”, anche come genitori. Non è detto che li capiamo davvero nel profondo, i nostri figli. Ma l’importante sarà averli osservati e ascoltati: aver dato loro la nostra attenzione. Nel qual caso, è possibile anche che perdoneranno i nostri errori.

In una parola, l’attenzione è amore.

Ancor più, sicuramente, l’amore è attenzione.

Lo ha sempre detto Susanna Tamaro nei suoi libri. Anche nell’ultimo, appena uscito, Il tuo sguardo illumina il mondo (edizioni Solferino), dedicato all’amico poeta Pierluigi Cappello. A un certo punto dice: “Cos’è infatti l’amicizia se non un’attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro?”.

L’attenzione è in pericolo oggi?

Stiamo smettendo di stare attenti, di prestare attenzione?

Alcuni di noi hanno qualche apprensione riguardo al mondo digitale e robotico che verrà, proprio perché è possibile che ci tolga attenzione. O così ci pare che potrebbe succedere: per esempio ci viene il dubbio che non saremo più capaci di restare concentrati su quel che facciamo, diciamo, scriviamo o ascoltiamo. Questo preoccupa un po’ alcuni di noi, per quel discorso sull’amore, sull’attenzione che è amore e viceversa…

Ma poi ci passa. Pensiamo che il mondo andrà dove deve andare ed è bene così, l’essere umano troverà altri modi di stare “attento”, oppure scoprirà che può benissimo farne a meno.

Personalmente, sono molto tranquilla. Credo per esempio che, nonostante il proliferare di tablet, instagram, iphone e altro, e anche nell’ipotesi che diventeremo un corpo computerizzato (cioè che prima o poi  ci immetteranno, in un braccio o tra le costole, un meccanismo elettronico) credo che continueremo a camminare sulle spiagge, dove batte l’onda, per respirare ozono, per guardare il mare. Dunque, credo che continueremo a stare attenti: ai sassi, alle conchiglie, ai piccoli vetri verzolini, a quei frammenti di bottiglia che il mare ha levigato per mesi, anni (o secoli? non ho mai avuto chiaro quanto ci metta il mare a prendersi un pezzetto di vetro e a restituircelo così tondo e liscio).

Sono quasi certa che accadrà, perché l’attrazione del mare, del camminare sulle spiagge e raccogliere sassi, è insostituibile e inalienabile e si manterrà intatta nei millenni a venire. Ed questa eternità del mare – o meglio, del rapporto tra noi e il mare e i suoi sassi – la cosa su cui possiamo contare, e che ci rende fiduciosi del futuro, pur così tecnologicamente nebuloso.

 Presteremo sempre attenzione, raccogliendo i sassi del mare.

E adesso, dopo aver tanto elogiato l’attenzione, mi verrebbe da elogiare la distrazione.

Ma aspetto le prossime Paginette.

Pubblicato su Il Sole24Ore il 1 novembre 2018