Mezzogiorno “dimenticato”? forse no…

Le campagne elettorali degli ultimi trent’anni si somigliano un po’ tutte. Solite promesse, soliti slogan, solite analisi dei mali del Paese. Soliti temi: lavoro, tasse, sicurezza, pensioni. E solite omissioni: debito pubblico, debito pensionistico, parametri europei, pareggio di bilancio.

C’è una differenza, tuttavia. Dal novembre del 2012, ossia dal repentino cambio di governo da Berlusconi a Monti, è calato il silenzio più totale sul federalismo, sui problemi del Mezzogiorno, sugli squilibri fra Nord e Sud. Mi colpì molto, allora, non sentire una sola parola sui grandi temi che, almeno sul piano della propaganda, sono sempre stati al centro del dibattito politico italiano, sia nella prima Repubblica, quando il nodo era la “questione meridionale”, sia nella seconda, quando il nodo era diventato la “questione settentrionale”, risolutamente posta all’ordine del giorno dalla Lega Nord ma anche da importanti settori della classe dirigente industriale (uno dei primi studi sul “residuo fiscale”, ossia sulla penalizzazione delle regioni del Nord, fu condotto dalla Fondazione Agnelli, nei primi anni ’90). E altrettanto mi colpisce, in queste settimane, la perdurante marginalità dei classici temi dello “svantaggio” del Sud e, specularmente,  della “spoliazione” del Nord.

Di questa virtuale scomparsa del tema del Mezzogiorno esistono naturalmente ragioni abbastanza precise. La prima è che la crisi del 2007-2014 ha oscurato quasi tutto il resto. La seconda è che, dopo l’approvazione della legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale, non è occorso molto tempo per capire che quella legge era un compromesso assai difficile da tradurre in pratica, e che la Lega stessa, attaccatissima al potere locale di recente conquistato, era ormai divenuta più un elemento di freno che un fattore di stimolo del federalismo.

Il fatto che poco si parli del Mezzogiorno, tuttavia, non significa affatto che esso conti poco in questa campagna elettorale. La realtà è che esso conta moltissimo, ma lo fa in modo silente. Anzi, tendo a pensare che, come quasi sempre è stato nella storia elettorale italiana, saranno le ondivaghe regioni del Sud ad assegnare la vittoria, o perlomeno a fare la differenza.

Perché dico che lo fa in modo silente?

La ragione è presto detta. Il problema fondamentale del Mezzogiorno resta, oggi come ieri, la mancanza di lavoro, un problema che, negli ultimi dieci anni, ha assunto il volto inquietante della povertà (le famiglie sotto la soglia di povertà assoluta sono oggi il doppio che nel 2007). E, di fronte a questo problema, che riguarda innanzitutto il Mezzogiorno, tutti e tre gli schieramenti politici hanno sfoderato una delle loro armi più efficaci, ovvero la proposta di un sussidio universale (rivolto a tutti), una novità assoluta per un paese come l’Italia. Ecco perché, anche quando non parlano esplicitamente di Mezzogiorno, tutte le forze politiche, di fatto, se ne stanno occupando.

Tutte e tre le proposte in campo sono, in buona sostanza, misure di reddito minimo per coloro che lavorano o sono disposti a lavorare, sia pur denominate in modi diversi: reddito di cittadinanza (Cinque Stelle), reddito di dignità (Centro-destra), reddito di inclusione (Pd).

La proposta più demagogica è quella dei Cinque Stelle, sia per il suo importo (che può superare i 1500 euro per famiglia), sia per le condizioni di concessione (e di conservazione) del sussidio, che rendono estremamente conveniente non lavorare o lavorare in nero. La proposta più realistica è quella del Pd, che si limita ad ampliare progressivamente il reddito di inclusione (già in vigore), ed è rivolta solo alla frazione più povera delle famiglie in condizione di povertà assoluta. Una via di mezzo, per quel che se ne sa finora, è quella del centro-destra, che dovrebbe essere basata sulla cosiddetta imposta negativa (colmare, ma solo in parte, in parte lo scostamento fra reddito effettivo e soglia di povertà), e il cui principale pregio è di non far venire meno l’incentivo a lavorare.

Chi conquisterà i voti delle popolazioni meridionali?

La mia impressione è che, nella battaglia per acquisirne il consenso, il Pd si trovi nella posizione più difficile, e i Cinque Stelle in quella più favorevole. Il partito di Renzi sconta infatti una doppia debolezza: primo, “offre” troppo poco sul piatto dell’assistenza; secondo, punta su una carta, la creazione di nuova occupazione, che inevitabilmente si scontra con l’atavico, e perfettamente giustificato, scetticismo meridionale sulla possibilità di assorbire la disoccupazione con posti di lavoro veri. Quanto al centro-destra, è vero che sia l’imposta negativa sul reddito, sia la flat tax (aliquota unica su tutti i redditi) che la accompagna, sono proposte razionali, per molti versi le più interessanti fra le molte in campo. Esse tuttavia, a mio modesto parere, risultano vincenti su quelle dei Cinque Stelle nelle regioni settentrionali, ma non in quelle meridionali. E questo per due ragioni di fondo.

La prima è che l’attrazione per le misure di matrice assistenziale, come è il reddito di cittadinanza, è da sempre più forte nel Sud, dove il lavoro scarseggia, che nel centro-Nord, dove i tassi di occupazione sono vicini ai livelli europei. Un’attrazione che, nel caso di tutte le proposte in campo (eccetto quella dell’istituto Bruno Leoni), è rafforzata dal fatto che la soglia di povertà è definita in termini di reddito nominale, anziché di potere di acquisto: ciò fa sì che il grosso del sussidio previsto dal Movimento Cinque Stelle finirà al Sud, ben al di là del numero di poveri residenti in tali regioni, mentre la maggior parte dei poveri del centro Nord non ne potrà usufruire.

Ma la ragione più importante è la seconda. Il piatto forte del menu elettorale del centro destra è la flat tax, con la sua promessa di forte riduzione delle aliquote sia sul reddito personale, sia sul reddito di impresa: 23% all’inizio, 15% come obiettivo finale. Ora, basta un’occhiata alle statistiche dell’evasione fiscale per capire che il cavallo di battaglia del centro-destra non potrà avere, al Sud, lo stesso appeal che ha al Nord. Perché la riduzione delle aliquote convinca gli elettori, infatti, occorre partire da una base di alto adempimento fiscale, che al Sud è sostanzialmente assente: una flat tax al 15% difficilmente può convincere chi le tasse se le è già autoridotte.

Articolo pubblicato sul numero di Panorama del 25 gennaio 2018



Luci e ombre della flat tax

Flat tax. È una parola quasi nuova nel lessico della politica italiana, anche se qualche precedente non manca: Berlusconi e l’economista Antonio Martino la proposero nel 1994, anche se poi non se ne fece nulla; Marco Pannella la ripropose nel 2005, con un’aliquota del 20%, più o meno a metà strada fra le aliquote oggi proposte dalla Lega (15%) e da Forza Italia (23%).

Prima di ragionare su questa proposta, forse non è inutile illustrare il principio della flat tax con un esempio. Supponiamo, per fissare le idee, che la flat tax venga applicata solo ai redditi delle persone fisiche e che l’aliquota sia del 20%, con una no tax area (nessuna imposta) da zero a 10 mila euro. Supponiamo anche che, come spesso accade, la proposta sia affiancata da un’imposta negativa del 50% (imposta negativa significa: se guadagni meno di 10 mila euro, lo Stato ti dà la metà di quel che ti manca per arrivare a 10.000 euro).

Risultato: chi guadagna 5000 euro, anziché pagare le tasse, riceve un regalo fiscale di 2.500 euro. Chi guadagna 10 mila euro non paga nulla. Chi guadagna 20 mila euro paga zero tasse sui primi 10 mila euro, e 2000 euro (il 20% di 10 mila) sui successivi 10 mila, il che significa che per lui l’aliquota media è del 10%. Chi guadagna 30 mila euro paga anch’egli zero tasse sui primi 10 mila euro, e 4000 euro (il 20% di 20 mila) sui 20 mila successivi, il che significa che per lui l’aliquota è del 14.3%. Chi guadagna 50 mila euro ne paga 8000, e dunque ha un’aliquota media del 16%. Nessuno arriva a pagare il 20% (perché i primi 10 mila euro sono esentasse), ma chi è molto ricco si avvicina notevolmente all’aliquota piena, ovvero a pagare il 20% del suo reddito. Un Paperon de Paperoni che guadagnasse 1 milione di euro trasferirebbe il 19.8% del suo reddito al fisco, ossia quasi il 20%.

Dunque ricapitolando: i poveri riceverebbero soldi, i ceti bassi pagherebbero solo il 10%, il ceto medio intorno al 15%, i molto ricchi quasi il 20%. Scusate l’esempio terra-terra, ma serve a sgombrare il campo dalla più sciocca fra le obiezioni che vengono rivolte alla flat tax, quella secondo cui sarebbe un sistema non progressivo e quindi incostituzionale (in quanto violerebbe l’articolo 53, sui criteri di progressività che dovrebbero informare il sistema tributario). Chi fa questa obiezione o, peggio ancora, parla di un sistema che toglie ai poveri per dare ai ricchi, una sorta di “Robin Hood al contrario”, semplicemente non ha capito come funziona la flat tax. Dunque lasciamo perdere e passiamo oltre.

Dal nostro esempio possiamo dedurre che la proposta del centro-destra di introdurre la flat tax sui redditi personali, ed eventualmente su quelli di impresa, è una buona proposta?

Per certi versi lo è senz’altro, perché ha un enorme, inestimabile pregio: quello di essere un sistema semplicissimo che, se accompagnato dalla soppressione integrale delle innumerevoli norme e disposizioni particolari che infestano le nostre dichiarazioni dei redditi, sarebbe alla portata di un bambino di quinta elementare.

Ma per altri versi la flat tax è invece una proposta estremamente velleitaria, perché aprirebbe una voragine nel gettito che, per ora, nessuno ci ha ancora spiegato in modo persuasivo come potrebbe essere coperta. Le due idee principali in circolazione, ossia varare una super-rottamazione delle cartelle esattoriali e puntare su una drastica riduzione dell’evasione fiscale, sono entrambe fragilissime, anche se per ragioni diverse. L’idea di fare cassa con l’ennesima sanatoria fiscale (maxi-sconto agli evasori) è debole perché si tratta di una misura una tantum, che anche se andasse in porto potrebbe compensare il mancato gettito per uno o due anni, non certo in modo permanente. L’idea che aliquote più basse ridurrebbero drasticamente l’evasione fiscale è quantomeno ingenua (sempre che non si voglia instaurare un regime di terrore fiscale): l’elevata evasione fiscale che caratterizza l’Italia non dipende solo da aliquote troppo alte, ma dalla natura del nostro tessuto produttivo, in cui lavoro autonomo, piccole imprese, economia sommersa hanno un peso abnorme (un’anomalia che è aggravata dalla scarsità dei controlli, specie nel mezzogiorno e nelle realtà periferiche). Ve lo vedete l’idraulico emettere fattura solo perché, ferma restando l’Iva, la sua aliquota marginale è del 15% anziché del 27%? Qualcuno pensa che gli insegnanti, che attualmente evadono massicciamente il fisco con le lezioni private, improvvisamente si metterebbero in regola, rilasciando regolare ricevuta ai loro studenti? Per non parlare del mondo dell’edilizia, dove sottofatturazione e salari in nero sono piuttosto diffusi, almeno sui lavori per cui non è previsto un robusto credito di imposta.

Insomma, è perfettamente ragionevole pensare che aliquote più basse ridurrebbero l’entità dell’evasione, ma è irragionevole pensare che lo farebbero in modo così massiccio da rendere sostenibile una flat tax al 15%, o anche al 23%.

È un’idea da buttar via, dunque?

Forse no. Probabilmente la strada giusta è quella di una introduzione graduale (magari prevedendo all’inizio due aliquote, di cui una destinata a scomparire), eliminando però fin da subito la giungla delle agevolazioni e tutti i bizantinismi della dichiarazione dei redditi (salvo il meccanismo delle deduzioni, con il quale è possibile imprimere ulteriore progressività al sistema). Un sistema fiscale semplice, in cui chiunque potesse raccapezzarsi senza un commercialista, sarebbe già, di per sé, una grande conquista.

Alternativamente, si potrebbe iniziare, come di recente ha suggerito Giorgia Meloni, da una introduzione immediata dell’aliquota secca del 15% non su tutto il reddito, ma sui suoi incrementi, una scelta che sarebbe perfettamente sostenibile e fornirebbe un forte incentivo a lavorare di più.

Quale che sia la strada prescelta, il punto resta il medesimo. Se si vuole criticare la flat tax, è inutile accanirsi contro la non progressività, perché la flat tax è progressiva, e per certi versi lo è più del sistema attuale, che nulla riconosce ai cosiddetti incapienti, ossia a chi non guadagna abbastanza da dover pagare le tasse; che la flat tax non sia il demonio, del resto, lo ha riconosciuto lo stesso ministro dell’Economia, che  in una recente intervista al Corriere della Sera, dando prova di notevole onestà intellettuale ha dichiarato: “una riforma fiscale che preveda la semplificazione delle aliquote sino a una sola, meglio due, la esplorerei”. In breve: se si vuole criticare la flat tax, l’argomento principe è la sostenibilità, non certo la presunta “ingiustizia”, o addirittura la incostituzionalità, dell’aliquota unica.

Simmetricamente, se la flat tax la si vuole difendere, la via maestra è delineare un credibile percorso di introduzione graduale, lasciando perdere le narrazioni semplicistiche e miracolistiche, che anziché convincerci non fanno che aumentare il nostro scetticismo.

Articolo pubblicato su Il Messaggero del 27 gennaio 2018



Ripensare all’egualitarismo nel XXI secolo

Di seguito le Slide dell’intervento del Professor Ricolfi al Festival della Cultura della Libertà di Piacenza 27/28 gennaio 2018.

L’egualitarismo nel XXI secolo

 




La tenda a ossigeno

Da qualche settimana siamo sommersi dai “segno +”. Di qualsiasi cosa si parli, consumi, esportazioni, inflazione, occupazione, disoccupazione, fiducia dei consumatori, pressione fiscale, Pil, è tutto un compiacerci che finalmente la barca va, il Paese si è rimesso in moto. Tv e giornali non si stancano di riprendere, con grande risalto, ogni bit di nuova informazione statistica sui progressi dell’Italia.

Questo profluvio di buone notizie, tuttavia, non ha impedito ai commentatori più attenti (e inascoltati), di puntare l’attenzione anche sull’unico vero grave fattore di rischio dell’Italia: l’andamento della finanza pubblica. Detto in poche parole, il timore è che, dopo la grande sbornia delle promesse elettorali, a primavera l’Italia si possa trovare di nuovo in una situazione molto critica, come nel 2011.

Sono giustificati questi timori?

Difficile dare una risposta secca, perché ci sono fattori che stanno riducendo i nostri rischi, e altri che li stanno aumentando. Fra i fattori favorevoli, che ci proteggono dal rischio di una crisi, si devono menzionare soprattutto tre elementi che nel corso del 2017 hanno ridotto la vulnerabilità dei nostri conti pubblici: la crescita del Pil, la ripresa dell’inflazione, la riduzione della quota di debito pubblico detenuta da investitori esteri. Ma i fattori favorevoli si fermano qua, per il resto, sfortunatamente, possiamo solo guardare con apprensione al 2018, o meglio a quel che potrà succedere dopo il voto di marzo.

Alcuni fattori di rischio sono ben noti. Il più noto è l’uscita dell’Italia dalla tenda ad ossigeno che l’ha protetta negli ultimi anni: nel 2018 la Banca centrale europea allenterà il Quantitative Easing, ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei paesi della zona Euro; nel 2019 scadrà il mandato di Mario Draghi, il “cavaliere bianco” che ci ha protetti e salvati in questi anni (così lo chiama Roberto Napoletano, in un libro di grande interesse sulla crisi del 2011: Il cigno nero e il cavaliere bianco, La nave di Teseo 2017). Un secondo fattore di rischio ben noto è l’incertezza politica, nelle sue due varianti fondamentali: una situazione di stallo, con possibile ricorso a nuove elezioni; la formazione di un governo delle forze più anti-europee (Cinque Stelle e Lega). Un terzo fattore di rischio è il probabile arrivo, fra marzo e aprile, di una richiesta della Commissione europea all’Italia di effettuare una manovra correttiva dei conti pubblici. Un altro fattore di rischio è il possibile aumento del tasso di riferimento della Bce, con conseguente aumento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. E infine, un ultimo fattore di rischio è un cambiamento delle regole bancarie, che potrebbe condurre a una valutazione dei titoli di Stato detenuti dalle banche agganciata al rating delle Agenzie (100 euro di Bot italiani valgono meno di 100 euro di Bund tedeschi), con conseguente repentina svalutazione dei patrimoni delle banche italiane, i cui bilanci sono tuttora appesantiti da più di 300 miliardi di titoli di Stato).

Quel che è meno noto, a giudicare da quanto poco se ne parla, è che a qualche giorno prima del voto potrebbe arrivare la notizia che nel 2017, ancora una volta, il governo italiano ha mancato la promessa di iniziare a ridurre il rapporto debito/Pil.

Secondo le stime ufficiali, nel 2017, per la prima volta da dieci anni, il rapporto debito/Pil comincerà a scendere, sia pure in misura irrisoria, dal 132.6% al 132.5%. Ma se guardiamo gli ultimi dati del Pil, pubblicati dall’Istat, e gli ultimi dati del debito, pubblicati dalla Banca d’Italia, il quadro che ci si presenta è assai poco rassicurante.

Nel corso del 2017 il Pil nominale, che è quello che conta ai fini del calcolo del rapporto debito/Pil, dovrebbe registrare una crescita compresa fra il 2.1 e il 2.2%. Questo è il parametro chiave per capire se, nel 2017, il rapporto debito/Pil scenderà come promesso, o continuerà a salire come temuto: se, quando la Banca d’Italia comunicherà i dati del debito al 31 dicembre 2017, il debito stesso sarà salito meno del 2.1% rispetto all’anno precedente, il rapporto debito/Pil risulterà in discesa, e il ministro Padoan potrà giustamente esultare per aver mantenuto la promessa di ridurlo; se, viceversa, il debito sarà cresciuto più del 2.2% ancora una volta dovremo constatare che i governi si impegnano a ridurre il debito ma poi, invariabilmente, si accorgono di non esserci riusciti.

Ebbene, qual è la dinamica del debito pubblico dell’Italia nel 2017? L’ultimo dato disponibile è relativo a ottobre 2017 e, per quel che se ne sa, non include ancora tutti gli esborsi per i salvataggi bancari. Ebbene la tendenza a ottobre, rispetto a 12 mesi prima (ottobre 2016), segna +2.9%, dunque ben oltre la soglia del 2.2%; la tendenza a settembre è ancora più preoccupante: +3.2%; quella di agosto è +2.5%, e solo nei mesi precedenti si colloca al di sotto del 2%. Se consideriamo la media degli ultimi tre mesi, la tendenza del debito è a crescere del 2.9%. Una deriva preoccupante, iniziata nei primi mesi dell’anno: fra febbraio e settembre del 2017 la velocità di crescita del debito è sempre aumentata, passando dall’1.1% di febbraio al 3.2% di settembre.

Che dire?

Forse, semplicemente, che l’Italia avrebbe fatto meglio, in questi anni, a non sprecare il dividendo dell’euro e, soprattutto, i benefici del Quantitative Easing, che ci hanno permesso, di pagare interessi sempre minori sul debito pubblico. Se, anziché disperdere risorse preziose in benefici elettorali, avessimo cominciato a ridurre la montagna del debito, magari avviando finalmente qualcuna delle tante privatizzazioni messe in agenda e mai attuate, oggi il voto del 4 marzo ci si presenterebbe con un volto meno minaccioso.

Articolo uscito sul numero di Panorama dell’11 gennaio 2018



Le elezioni dell’incertezza

Non tutte le elezioni sono eguali. Ci sono elezioni in cui il voto è carico di tensioni, perché le alternative sembrano radicali e drammatiche. E ci sono elezioni di routine, in cui partiti e media amano drammatizzare, ma pochi elettori ci cascano. Rientrano nel primo gruppo le elezioni del 1948, ai tempi del Fronte popolare comunisti-socialisti; quelle del 1976, quando molti si attendevano il crollo della Dc e l’avanzata del partito comunista; o quelle del 1994, sotto il ciclone di Mani pulite. Mentre rientrano nel secondo gruppo, quello delle elezioni tranquille, molti appuntamenti degli anni ’50, ’60 e ’80, ma anche degli anni ’2000. E le prossime elezioni?

A mio parere le elezioni del 2018 sono un unicum nella storia elettorale del nostro Paese. Ma questo non perché lo scontro politico sia incendiato dalle passioni, bensì per la ragione opposta: scetticismo, disincanto, sfiducia nella politica e disistima dei suoi protagonisti hanno raggiunto livelli senza precedenti.

Non è tutto, però. La vera cifra di questo appuntamento non è né la passione, né il suo contrario, ovvero l’apatia: la sua vera cifra è l’incertezza. Uno stato d’animo che ha due volti distinti.

Il primo volto dell’incertezza è il futuro governo del paese. Non solo non sappiamo da chi saremo governati (questo è normale), ma non sappiamo quali alleanze i partiti che siamo chiamati a votare potrebbero stringere in futuro. Certo anche in passato si poteva nutrire qualche dubbio, ma i dubbi riguardavano alternative tutto sommato simili (1963: la Dc governerà con i socialisti o con i liberali?). Oggi è diverso: nessuno può escludere con sicurezza un governo Pd-Forza Italia, né un governo Cinque Stelle-Lega, e neppure un governo Cinque Stelle-Pd (con un Pd de-renzizzato, naturalmente).

C’è anche un secondo volto dell’incertezza, però, e forse è il più importante. In passato, quando a contendersi la vittoria erano il centro-destra e il centro-sinistra, non era difficilissimo immaginare che cosa ciascuno di essi avrebbe fatto una volta al governo. Oggi, invece, esiste una forza politica, il partito di Grillo, che l’elettore non ha ancora messo alla prova a livello nazionale, e di cui non è facile immaginare che cosa effettivamente farebbe una volta al potere. E’ innanzitutto per questo che le dichiarazioni e le gaffe degli esponenti Cinque Stelle sono al centro dell’attenzione. Ci stiamo attenti perché cerchiamo di capire che cosa succederebbe nel caso dovessero vincere le elezioni (eventualità improbabile), o diventare il primo partito e ottenere l’incarico di provare a formare un governo (eventualità tutt’altro che esclusa).

In attesa di un vero programma, che per ora non esiste, possiamo solo basarci su frammenti: le proposte di legge (come quella sul reddito di cittadinanza), i testi pubblicati sul sito del movimento, le dichiarazioni degli esponenti politici.

Da questi frammenti, possiamo tentare di ridurre l’incertezza su ciò che potrebbe attenderci.

Ma qual è il quadro che, per ora, emerge da questi frammenti?

Il primo elemento che salta agli occhi è uno strano cocktail di reticenza e di confusione. Nei giorni scorsi abbiamo sentito in tv una esponente del movimento dire che non saprebbe se votare no o sì in un referendum sull’euro, dichiarare che la Germania si permette un deficit del 9%, che i Cinque Stelle sono pronti a fare deficit pubblico al 3% se non oltre, nonché a spendere 150 miliardi di euro in 5 anni. Quanto al candidato premier lo abbiamo sentito parlare di 12 miliardi da recuperare tagliando le “pensioni d’oro”, salvo poi fare marcia indietro, qualche giorno dopo, e accontentarsi di colpire la componente retributiva degli assegni pensionistici, contrapponendo chi ha una pensione veramente elevata (8 mila euro, se ricordo bene) al povero pensionato a 300 euro al mese (una figura sociale inesistente, posto che sia la pensione minima sia l’assegno sociale superano ampiamente questa cifra).

Né le cose vanno meglio se, dalle dichiarazioni in tv, si passa a esaminare il piatto forte dei Cinque Stelle, il reddito minimo (erroneamente chiamato “reddito di cittadinanza”, nonostante non sia affatto destinato a tutti i cittadini). Qui sono almeno tre le cose che mi colpiscono. La prima è la sua profonda iniquità: essendo basato sul reddito nominale anziché sul potere di acquisto, esso è destinato a favorire i poveri che abitano nel Sud e/o in realtà rurali (dove i prezzi sono bassi), a danno dei poveri che abitano al Nord e/o in realtà urbane (dove i prezzi sono alti). La seconda è la sua totale incapacità di affrontare il problema che, in tutta Europa, affligge le misure di sostegno al reddito: come evitare che esso si trasformi in un disincentivo al lavoro, ossia in una misura puramente assistenziale. La terza è la scelta delle cosiddette coperture: se si analizzano attentamente, si scopre che la maggior parte di esse sono nuove tasse.

E qui veniamo al succo della visione politica dei Cinque Stelle. Nonostante qualche sparata contro gli sprechi della Pubblica Amministrazione, a me pare che il vero tratto distintivo dei Cinque Stelle rispetto alla maggior parte delle altre forze politiche (eccetto il neonato partito di Grasso), è la loro disponibilità ad aumentare sia il deficit e il debito pubblico sia le tasse, naturalmente specificando che i colpiti saranno i soliti pochi, ricchi e cattivi: finanzieri, banchieri, speculatori, corrotti, grandi evasori. Del resto non è una peculiarità dei Cinque Stelle, né in Italia né in Europa: se il populismo è, innanzitutto, domanda di protezione, non stupisce che esso si accompagni a una forte rivalutazione del ruolo dello Stato, come ombrello protettivo rispetto alle ingiustizie, alle diseguaglianze, alle ingerenze delle autorità sovranazionali (si pensi alle reiterate promesse di rinegoziare i trattati, a partire dall’odiato Fiscal compact).

Questa visione dell’economia e della società italiana, fortemente impregnata di dirigismo e di assistenzialismo, non è necessariamente catastrofica, ma non per questo è meno preoccupante.

Ci sono due scenari principali, infatti. Il primo è che, con l’esaurirsi del quantitative easing e la fine del mandato di Draghi, e in presenza di un governo che pratica con una certa disinvoltura la spesa in deficit, l’Italia torni nel mirino della speculazione internazionale come nel 2011. In questo caso, effettivamente, la finanza allegra dei Cinque Stelle potrebbe rivelarsi catastrofica.

C’è anche un secondo scenario, tuttavia, non catastrofico ma non per questo rassicurante. Una politica fatta di più tasse e, soprattutto, di più spese, potrebbe, molto semplicemente, sospingere più risolutamente l’Italia sul sentiero di declino che ha imboccato un quarto di secolo fa, all’inizio degli anni ’90. È da allora, infatti, che la nostra posizione relativa in Europa, e più in generale fra i paesi sviluppati, non ha fatto che deteriorarsi, in termini di crescita del Pil, tasso di occupazione, produttività del lavoro. E lo ha fatto per una ragione di fondo: sia prima sia dopo la crisi nessun governo è riuscito a invertire stabilmente la corsa delle tasse e delle spese correnti. Un’incapacità che, alla lunga, ha finito per soffocare l’economia, e relegare l’Italia agli ultimi posti in Europa. Non è certo un caso che, dopo la grande recessione del 2009, il ritorno alla crescita abbia interessato innanzitutto i paesi che, come Germania, Regno Unito, Irlanda, sono stati in grado di ridurre l’interposizione pubblica.

Certo, a tutto ciò si può obiettare, come spesso si sente ripetere nel mondo che ruota intorno ai Cinque Stelle, che l’importante è la redistribuzione, che il consumismo si è spinto un po’ troppo in là, che dopotutto la frugalità è un valore, che la decrescita può essere “felice”, o “serena”, come non si stanca di ripetere l’economista Serge Latouche, ascoltato guru dei grillini. Temo però che questa saggia visione del mondo, oggi sponsorizzata anche da economisti e filosofi di valore come Robert e Edward Skidelski (“Quanto è abbastanza” è un bellissimo libro: Mondadori 2013), si adatti di più agli individui e ai paesi ricchi, i quali dall’alto del loro conquistato benessere possono pensare tranquillamente a tagliare qualche consumo superfluo, che non agli individui e ai paesi che sono ancora lontani dai traguardi di benessere raggiunti dai primi.

Pubblicato su Il Messaggero il 23 dicembre 2017