Vaccinare non basta

Mentre i politici sono impegnati con i giochi di palazzo, le preoccupazioni degli italiani vanno da tutt’altra parte, e girano intorno a due semplici domande: quando ci ridaranno la libertà? sarà grazie alla vaccinazione di massa che torneremo a vivere (quasi) normalmente?

E allora proviamo a rispondere, partendo dalle dichiarazioni delle autorità sanitarie, in ordine di tempo.

5 dicembre: “Il nostro obiettivo è l’immunità di gregge grazie al vaccino” (ministro Speranza).

17 dicembre: “Immunità di gregge a settembre-ottobre prossimi” (Sandra Zampa, sottosegretario al ministero della salute).

28 dicembre: “Oggi il ministro Speranza ha precisato che entro marzo raggiungeremo la quota di 13 milioni di italiani vaccinati contro Covid-19, e quindi in estate potremo già essere molto avanti nel perseguimento dell’obiettivo immunità di gregge data dal 70%”(Sandra Zampa).

9 gennaio 2021: “Per arrivare all’immunità di gregge dobbiamo vaccinarel’80% di 60 milioni di italiani” (Sandra Zampa).

Dunque il percorso è chiaro. Fra dicembre 2020 e gennaio 2021, molto opportunamente, le autorità sanitarie hanno spostato l’asticella dell’immunità di gregge dal 70 all’80%, presumibilmente per tenere conto della maggiore trasmissibilità di alcune varianti del virus. E, anche qui assai saggiamente, hanno indicato ottobre come data limite, per evitare di trovarci di nuovo impreparati all’inizio della stagione fredda.

Se questa è la tabella di marcia, si tratta di vaccinare 13 milioni di italiani entro il 31 marzo, e 48 milioni di italiani entro il 31 ottobre. Tenuto conto del fatto che, per ora, i vaccini richiedono 2 dosi, l’obiettivo si raggiunge con circa 2 milioni di vaccinazioni alla settimana. Attualmente ne facciamo poco più di mezzo milione, quindi per raggiungere l’obiettivo dobbiamo circa quadruplicare il ritmo. Se il ritmo rimanesse quello degli ultimi 7 giorni, per il 31 ottobre i vaccinati totali (con 2 dosi ciascuno) sarebbero  più o meno il 20%, ossia 1 italiano su 5. E l’obiettivo dell’80% di vaccinati non si raggiungerebbe mai, nemmeno in seguito (a meno si scoprisse che una sola vaccinazione basta, e che non occorre rivaccinare tutti ogni anno).

E’ realistico pensare di raggiungere l’80% di vaccinati entro ottobre di questo anno?

Secondo molti no, per un complesso di ragioni. La più decisiva è che, per ora, non abbiamo vaccini testati su tutte le fasce d’età, e in particolare mancano del tutto vaccini per la fascia fino a 16 anni. Come ha fatto notare nei giorni scorsi l’immunologia Antonella Viola, se non si possono vaccinare anche i giovani, l’immunità di gregge entro l’estate è un miraggio.

Questa è una pessima notizia, perché significa che, anche riuscissimo ad avere le dosi e a somministrarle al ritmo richiesto, nell’autunno prossimo non saremmo ancora protetti attraverso il meccanismo dell’immunità di gregge. E ancora peggiore è la notizia, arrivata in queste ore, secondo cui Pfizer non riuscirà a consegnare nei tempi e nelle quantità previste le dosi di vaccino promesse alla Commissione europea.

Ma supponiamo, per un attimo, che nonostante tutto si riesca a vaccinare l’80% degli italiani entro la fine di ottobre. Questo risultato assicurerebbe l’immunità di gregge?

Per rispondere alla domanda bisogna capire bene che cosa “immunità di gregge” significa. Immunità di gregge, in buona sostanza, significa che il numero di persone immuni (perché vaccinate, o dotate degli anticorpi necessari), è sufficientemente alto da portare Rt (la capacità di trasmissione) al di sotto di 1, con conseguente più o meno rapida estinzione dell’epidemia.

C’è un piccolo dettaglio, però. Se l’immunità di gregge viene perseguita mediante la vaccinazione di massa, occorre che i vaccini prescelti non si limitino ad assicurare al soggetto vaccinato di non contrarre la malattia, ma anche di non trasmettere il virus. Altrimenti può succedere che i neo-immunizzati diventino addirittura più pericolosi di prima come fonti infezione (chi è tranquillo per sé stesso rischia di attenuare le precauzioni che usava precedentemente). Sfortunatamente, per ora nessuno è in grado di dire se i vaccini attualmente autorizzati proteggano solo dalla malattia, o anche dal rischio di trasmissione.

Questo renderebbe la campagna di vaccinazione inutile?

Assolutamente no. Il grandissimo pregio di una campagna di vaccinazione di massa, specie se parte dai più esposti al rischio di contrarre il Covid in forma grave, è quello di abbassare drasticamente il tasso di mortalità, anche in assenza di immunità di gregge. Vaccinare le categorie più a rischio (operatori sanitari, anziani, soggetti affetti da altre patologie gravi) è comunque estremamente utile e opportuno. Il problema è che, almeno nell’orizzonte dei prossimi 9 mesi, non basterà a consentire la riapertura in sicurezza delle attività economiche.

Per questo obiettivo occorrerà che il governo si decida a fare finalmente le troppe cose che finora non ha fatto, o non ha fatto in misura adeguata: tamponi di massa, contact tracing efficiente, Covid-hotel per le quarantene, controllo dei voli e delle frontiere, rafforzamento del trasporto pubblico, messa in sicurezza delle scuole e delle università, riorganizzazione della medicina territoriale, solo per ricordare quelle più importanti.

Se continuerà a non farle, avremo ancora un lungo periodo di chiusure-riaperture, e la danza dei quattro colori (ora c’è anche il bianco…) ci accompagnerà almeno fino all’estate. Sarebbe l’errore più grande: puntare tutto sull’arma finale del vaccino, coltivando l’illusione che le armi convenzionali non servano più.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 gennaio 2021




Il rispetto per i morti

Oggi (14 gennaio) mi è successa una cosa sconcertante. Ero stato invitato a un programma televisivo (L’aria che tira), e ho avuto occasione di discutere con una esponente del Pd (l’on. Debora Serracchiani).

Ho fatto presente che, nel dibattito sul manipolo di “responsabili” che dovrebbero salvare il governo, mancava del tutto l’elemento cruciale, e cioè il fatto che la gestione dell’epidemia era stata disastrosa, e che gli errori commessi ci erano costati non solo decine di miliardi di Pil ma anche decine di migliaia di morti.

Per tutta risposta mi è stato detto che “ricordare i morti è una caduta di stile, che potevamo evitarci”. Per poi aggiungere, come se fosse una risposta pertinente, che con il governo precedente le cose sarebbero andate ancora peggio.

Ma come?

Io faccio presente che una parte delle morti per Covid erano evitabili, lo faccio sulla base di studi e ricerche (non solo mie), e lei – che ha responsabilità politiche – anziché chiedermi quali errori siano stati fatti, e che cosa si può fare oggi per non ripeterli in futuro, non trova di meglio che parlare di “caduta di stile”? E, per difendere questo governo, non trova di meglio che affermare che un altro governo avrebbe fatto peggio?

Dunque siamo autorizzati (forse) a parlare dei punti di Pil che sono stati inutilmente bruciati, ma delle vite umane sacrificate dalla lentezza e dalla superficialità della politica è proibito parlare.

Non ci potevo credere. Poi ho capito. Per certi politici (non tutti, spero) rispetto significa non porre mai le due domande cruciali: potevano essere di meno? come possiamo fare per evitare altre morti non necessarie?

O meglio: porle pure, quelle domande, quando la responsabilità non è in capo alla politica, o è in capo alla parte politica avversa, ma evitarle accuratamente quando è la propria parte politica che deve rispondere del proprio operato.

E invece no. Noi studiosi dobbiamo dirlo alto e chiaro: rispettare i morti, per le persone libere, significa non avere paura di capire come sono andate le cose, e fare tutto il possibile perché certe tragedie non si ripetano.




Il termostato

Sapete come funziona un termostato?

E’ semplice. Tu fissi la temperatura che vuoi, per esempio 19 gradi. Un rilevatore misura la temperatura dell’ambiente e, quando supera i 19 gradi, spegne il riscaldamento; quando invece va sotto i 19 gradi lo riaccende. La stessa cosa succede con un frigorifero che vuoi mantenere a – 4 gradi centigradi, o con un congelatore che vuoi tenere a -20 gradi. L’unica differenza è che il comando non è “riscalda” ma “raffredda”.

Perché parlo del termostato?

Perché oggi in Italia, ma anche in molti altri paesi europei (compresa la Germania), quella che si è imposta è la politica del termostato, applicata all’epidemia. Funziona più o meno così.

Il governo non può scontentare gli operatori economici, ma nello stesso tempo non è in grado di garantire che le attività lavorative, scolastiche, ricreative si svolgano in sicurezza. Quindi, anche se sa che il virus è ancora molto diffuso, lascia quasi tutto aperto o semi-aperto. Il virus ringrazia e allarga la sua presenza fra noi. A un certo punto qualcuno fa due conti e dice: ohibò, se andiamo avanti così il servizio sanitario nazionale va in tilt e questo, noi politici, non ce lo possiamo permettere. A quel punto cominciano le discussioni: se chiudere, quando chiudere, quanto chiudere, chi sacrificare e chi graziare. Alla fine si chiude, ma Rt non scende. Allora si chiude di più, Rt va sotto 1 per qualche settimana, i ricoveri ospedalieri diminuiscono, gli ospedali non sono più al collasso. A quel punto il partito della riapertura rialza la testa e prima o poi ottiene un alleggerimento delle misure, se non una riapertura totale. Passa qualche settimana e questa volta a rialzare la testa è il virus, che ricomincia a circolare più di prima. Il sistema sanitario va di nuovo in crisi, si deve chiudere di nuovo. E il ciclo si ripete.

I più ingenui (o più spregiudicati) dicono: resistiamo ancora 2-3 mesi, poi con la bella stagione e le vaccinazioni torneremo alla normalità. Chi lavora sui dati sa che non è vero, e che la politica del termostato – che non tutela né la salute né l’economia – è destinata a durare ancora a lungo.

Ma perché siamo finiti in questo imbuto che divora le nostre vite? Certamente la parte preponderante delle responsabilità è di chi ci governa. Sono loro che hanno imposto le regole, sono loro che non hanno saputo gestire le scuole, i trasporti, il tracciamento dei contatti, i tamponi, i flussi turistici, le quarantene, la medicina territoriale e tutte le altre cose che non sono state fatte, o sono state fatte male. Insomma, con altre scelte si potevano avere molti meno morti, e danni meno drammatici all’economia.

Però c’è un punto che resta sempre nell’ombra, e che invece è decisivo. La catastrofe è colpa della mala gestione dell’epidemia, ma la sconfitta è figlia di una scelta strategica sbagliata, che anche la più saggia e oculata gestione dell’epidemia non avrebbe potuto evitare.

Quale scelta?

La scelta di puntare tutto sul protocollo prevalente in Europa, che persegue la mitigazione dell’epidemia, anziché su quello prevalente in Asia e nell’emisfero Boreale, che persegue la soppressione (o quasi soppressione) del virus. E dire che, fin dalla fine di marzo, gli studiosi che si occupano di epidemia e di processi di diffusione, avevano perfettamente individuato la differenza fra i due protocolli, e la netta superiorità del protocollo orientale rispetto a quello europeo. Bastava studiare i dati e consultare gli esperti, per capire (o almeno leggere le lettere e gli appelli degli studiosi,  che fin dalla fine di marzo imploravano di cambiare strada). O anche solo farsi la domanda: perché in certi paesi (circa 1 su 3 fra le società avanzate) il virus è stato sradicato, o se non è stato completamente eliminato circola a bassissima intensità?

Ebbene, qual è, andando al nocciolo, la differenza fra i due protocolli?

E’ molto semplice: è la differenza che sussiste fra un frigo e un congelatore. In un frigo il termostato è regolato per tenere la temperatura a -4, in un congelatore per tenerla a – 20. Fuor di metafora: la soglia del protocollo europeo è quella che evita il tracollo del sistema sanitario nazionale, la soglia del protocollo orientale è quella, molto più bassa, che evita che vada in tilt il sistema di tracciamento. Giusto per dare un’idea: se si adotta il protocollo orientale l’allarme scatta quando il quoziente di positività (nuovi casi su soggetti testati) attraversa la soglia del 3%, se si adotta il protocollo europeo può persino succedere – come è accaduto in Italia a novembre-dicembre – che si tolleri un quoziente di positività del 25-30%. Se avessimo adottato la soglia del protocollo orientale l’allarme sarebbe scattato già il 25 settembre, se non prima, ovvero non appena il numero di nuovi casi fosse divenuto incompatibile con il tracciamento dei contatti.

La realtà è che le strategie prevalenti in Europa sono basate sull’andamento di Rt (indicatore della velocità del contagio), anziché sul controllo del quoziente di positività (indicatore del numero di positivi). La differenza è enorme.

Se punti tutto su Rt tolleri anche milioni e milioni di infetti, purché Rt non stia troppo sopra 1. E con milioni e milioni di infetti, intervenire ha costi umani ed economici spropositati, perché quando l’epidemia è fuori controllo solo il lockdown è in grado di arginarla.

Se invece punti alla soppressione del virus, ti adoperi per portare il coefficiente di positività vicinissimo a zero, perché anche poche migliaia di positivi sono troppi: e quando il numero di infetti diventa molto piccolo, il controllo dell’epidemia è infinitamente più facile, la paura non dilaga più, e l’economia respira.

Pubblicato su Il Messaggero dell’8 gennaio 2021




Un anno decisivo

Nel momento in cui si chiude l’anno più triste dalla fine della seconda guerra mondiale (se non dall’Unità d’Italia), è naturale cercare di intravedere una luce in fondo al tunnel in cui siamo finiti.

Sarebbe bello poter pensare che, di qui alla fine dell’anno prossimo, le cose si raddrizzino sui due fronti fondamentali: controllo dell’epidemia e ripresa economica. Difficile, in questa situazione, non inclinare verso una delle due posizioni fondamentali: adesione all’ottimismo istituzionale, che promette rinascita e oculati impieghi dei soldi promessi dall’Europa, o scetticismo dettato dall’esperienza e dalla consapevolezza dei nostri limiti.

Non voglio nascondere che, fra le due posizioni, mi sento più vicino a quella scettica. Ma, anziché provare a spiegare perché, preferisco fare un altro esercizio. Voglio immaginare che abbiano ragione gli ottimisti, e che tutto o quasi tutto, o comunque molto, vada per il verso giusto, lasciando a chi legge di valutare quanto tale scenario ottimistico sia verosimile.

Dunque, che cosa deve succedere perché le cose procedano nella direzione che tutti auspichiamo?

Cominciamo dalla salute, provando a tracciare qualche scenario.

Dopo le vacanze si scopre che i ricongiungimenti familiari non hanno prodotto grossi danni, il numero di morti scende rapidamente sotto i 100 al giorno, il quoziente di positività – che ora è intorno al 25%, come un mese fa – si riduce sensibilmente, riportandosi in prossimità dell’1%, come in estate (piccola precisazione: il quoziente che conta è quello fra nuovi casi e soggetti testati, non quello fra nuovi casi e numero dei tamponi, che è falsato dai tamponi di verifica).

Il Governo denuncia la politica delle Regioni, che nell’ultimo mese e mezzo, anziché aumentare il numero di soggetti sottoposti a tampone, ne hanno più che dimezzato il numero (uniche eccezioni: Marche, Sardegna, Veneto). Le Regioni si adeguano, e tornano a fare almeno il numero di tamponi che facevano a metà novembre. Buona parte dei medici di base vengono dotati di dispositivi di protezione individuale adeguati, in modo che possano visitare i propri pazienti, sottoporli a tampone, e curarli secondo protocolli condivisi.

Il governo decide di quadruplicare il numero di addetti al contact tracing, allineandosi agli standard dei paesi virtuosi. I soggetti positivi vengono isolati dai familiari, grazie a una rete di Covid-hotel. Le università e le istituzioni private vengono coinvolte in un piano per rafforzare il sequenziamento del virus, in modo da poter scoprire tempestivamente l’eventuale comparsa di varianti pericolose.

Nonostante le difficoltà iniziali, le vaccinazioni procedono secondo le promesse, ossia al ritmo di 1 milione alla settimana. Le aziende produttrici di vaccini su cui l’Italia ha investito di più superano le attuali difficoltà, e ottengono l’autorizzazione alla commercializzazione. Il numero di dosi acquisite dall’Italia è sufficiente a garantire il raggiungimento dell’immunità di gregge entro l’anno.

Le scuole riaprono, perché governo, regioni e comuni sono riusciti a rafforzare il trasporto pubblico e a modulare gli orari di ingresso e uscita. Ogni scuola è dotata di termoscanner e apparecchi di deumidificazione dell’aria (come previsto da leggi del 1975  e del 1977).

E ora passiamo all’economia.

Le previsioni di caduta del Pil 2020 dei maggiori organismi internazionali si rivelano errate, e si rivela giusta quella dell’Istat: “solo” -8.9% la contrazione del 2020.

Nel 2021 i lockdown sono rari e circoscritti, perché il contact tracing funziona e il quoziente di positività resta vicino all’1%.

Dopo la fine del blocco dei licenziamenti (31 marzo 2021), le imprese sopravvissute riprendono ad assumere, recuperando rapidamente il tempo perduto durante la lunga fase di “pietrificazione dell’economia”.

Con grande sorpresa di molti economisti, la manovra di bilancio – pur essendo basata su un aumento della spesa corrente – riesce a sospingere la ripresa economica: l’Italia cresce al ritmo del 4%, e in un solo anno recupera quasi la metà delle perdite subite nel 2020.

I soldi europei arrivano prima del previsto, e vengono spesi per investimenti produttivi, secondo la dottrina del “debito buono” a suo tempo enunciata da Draghi (meeting di Rimini dello scorso agosto). I partiti di governo smettono di litigare e paralizzarsi a vicenda, l’opposizione coopera alla definizione delle priorità di investimento.

Nonostante il rapporto debito/Pil sia prossimo al 160%, i mercati finanziari si fidano dell’Italia e, confortati dal buon uso dei fondi europei e dalle nostre prospettive di crescita, ci prestano denaro a tassi ragionevoli.

L’umore del paese cambia, un rinnovato spirito di ricostruzione sostituisce il cupo pessimismo di fine 2020.

Fantascienza?

O ragionevole prospettiva per l’anno che viene?

Ognuno giudichi da sé.

Pubblicato su Il Messaggero del 31 dicembre 2020




Il diavolo e il padreterno

Lo sapevo, che avrebbero dato la colpa a noi. Tanto è vero che lo scrissi già il 27 aprile (quasi 7 mesi fa) quando si cominciò a parlare di riapertura: perdonate l’autocitazione, ma in questa maledetta storia i tempi sono cruciali.

“Avete deciso di ripartire, avete scelto di farlo senza che la macchina per il controllo dell’epidemia fosse pronta sui 4 versanti fondamentali delle mascherine, dei tamponi, del tracciamento dei contatti, dell’indagine campionaria sulla diffusione del virus. Ne avevate il potere, perché ve lo siete preso. Tutto potete fare, perché avete cancellato tutte le nostre libertà fondamentali. Ma una cosa non potete farla, anche se ci proverete: dare a noi la colpa, quando l’epidemia rialzerà la testa”.

E infatti ci stanno provando, alla grande. Da giorni e giorni il ritornello è sempre lo stesso: voi vi assembrate, noi siamo costretti a chiudervi. E qualche giorno fa il ritornello è quasi diventato una teoria. Uno dei più ascoltati esperti del governo è arrivato a dire che no, a lui questa faccenda delle ondate non torna, non è che ci sono ondate che arrivano, in realtà c’è un mare che torna ad agitarsi non appena loro (i nostri governanti) ci lasciano un po’ di libertà, a quel punto noi ce ne prendiamo troppa e loro sono costretti a rimetterci in castigo (le parole non erano esattamente queste, ma il senso sì, era proprio questo).

Dunque le ondate non esistono, non c’è una prima ondata seguita da una seconda e forse da una terza. C’è un popolo indisciplinato, che periodicamente deve essere rimesso in riga. Quindi che non si illuda, il popolo. Quando riapriremo, sarà per un po’ di tempo, poi si dovrà richiudere di nuovo. Lo stop and go è inevitabile, fino a quando la maggior parte della popolazione sarà vaccinata (fine estate, se va bene).

Questo racconto è sostanzialmente falso. E lo è in due sensi: sul piano della psicologia sociale, e dal punto di vista storico.

Cominciamo dal “popolo” che (oggi) si ammassa per fare acquisti e (ieri) si ammassava per godersi le vacanze. Possiamo anche, se siamo sufficientemente moralisti e vecchio stampo, deprecare il nostro consumismo e l’incapacità di fare rinunce. Ok, ci sta. Ma la domanda è: coloro che avrebbero dovuto informarci, indirizzarci, guidarci, proteggerci, come si sono mossi?

Risposta: quest’estate con il bonus vacanze, le discoteche aperte, la libertà di scorazzare per i cieli alla ricerca di mete più o meno goderecce; in questi giorni pre-natalizi con gli esercizi commerciali spalancati, il cash-back, la lotteria degli scontrini (in un paese già ludo-maniacale: spendiamo per il gioco d’azzardo quanto lo Stato spende per la sanità).

Che immane ipocrisia. E’ come se Dio decidesse di recitare entrambe le parti in commedia, quella del Diavolo e quella del Padreterno. Prima strizza l’occhio agli esercenti e cosparge la nostra vita di tentazioni (quasi non ne avessimo già abbastanza per conto nostro). Poi ci redarguisce con cipiglio severo perché ci siamo cascati, in tentazione: come se il fatto stesso di parlare di continuo di terza ondata in arrivo, con relative chiusure, non fosse un formidabile incentivo al carpe diem, del tipo godiamoci il Carnevale prima che arrivi la Quaresima.

Ma c’è un altro senso in cui il racconto ufficiale è falso. E’ falso perché nega la storia effettiva di questa epidemia. Provo a ricapitolarla, nei limiti di spazio che ho a disposizione.

Le strategie con cui l’epidemia è stata affrontata nelle varie parti del mondo sono sostanzialmente tre. Herd immunity: non fare (quasi) nulla attendendo l’immunità di gregge (idea accarezzata da molti governi, ma applicata solo in Svezia). Suppression: perseguire lo sradicamento del virus (strategia applicata soprattutto in Asia, in Australia e in Nuova Zelanda); Mitigation: frenare la corsa del virus mediante il lockdown, sperando di tenerlo sotto controllo dopo la riapertura (strategia applicata nella maggior parte dei paesi occidentali).

L’Italia sceglie quest’ultima strategia, che è la più inefficiente. Inoltre la applica nel modo più autolesionista possibile, ossia ritardando il lockdown (9 marzo), e inasprendolo solo dopo averne constatato la scarsa efficacia (22 marzo). A nulla servono i pareri contrari provenienti dagli studiosi indipendenti (e dallo stesso Comitato Tecnico Scientifico), che fin dai primi giorni di marzo caldeggiano un lockdown immediato e duro.

Nella prima decade di marzo, nonostante la storia dell’epidemia sia appena iniziata, l’evidenza empirica che mostra la inefficienza dei lockdown tardivi e progressivi applicati nei maggiori paesi europei (con la parziale eccezione della Germania) è imponente. E il 10 marzo viene resa pubblicamente accessibile su internet da Tomas Pueyo, probabilmente il più lucido analista dell’epidemia, in un articolo scaricabile da internet e ripreso da qualche quotidiano.

Il 29 marzo, un gruppo di scienziati (fra cui il prof. Antonio Bianconi) invia al premier Conte e al ministro della salute Speranza una lettera in cui viene accuratamente spiegata la differenza, in termini di costi umani ed economici, fra la strategia vincente dei paesi asiatici, e la strategia perdente adottata dall’Italia. Il gruppo propone di emanare un decreto legge per adottare la strategia più efficiente, e mette a disposizione i propri studi e le proprie competenze per attuarla immediatamente.

Nessuna risposta dal governo, che prosegue imperterrito per la sua strada. Pochi tamponi, caos sulle mascherine, zero tracciamento elettronico dei contatti, nessun rafforzamento del trasporto pubblico. E, di lì a un mese, disco verde alla stagione delle riaperture, con il bonus vacanze e tutto il resto.

Per tre mesi, complice la stagione, tutto sembra andare abbastanza bene. Solo alcuni irriducibili, ogni tanto, segnalano che qualcosa non va, e che non siamo affatto un modello per il resto del mondo. Fra luglio e settembre i principali indici rivelano che il numero di positivi è in costante aumento, ma nell’esecutivo nessuno se ne preoccupa. Alla fine di settembre il quoziente di positività (una rozza stima del numero di contagiati) è già 4 volte quello di luglio. E a ottobre comincia a galoppare: alla fine del mese è 25-30 volte il livello di luglio.

Ormai la situazione è fuori controllo. E non c’è più niente da fare: se lasci che i contagiati aumentino di 30 volte, poi ci vogliono mesi e mesi per riportare la situazione al punto di partenza. Anzi: è impossibile portarla al punto di partenza, perché ci vorrebbero 3 mesi di lockdown durissimo, o 6 mesi di lockdown light, ma comunque esiziale per l’economia.

E allora?

Allora avanti così, per mesi, in stop and go. Un po’ di settimane di quaresima, poi un sobrio carnevale, poi di nuovo quaresima, poi ancora carnevale. Il tutto regolato dal semaforo delle terapie intensive: quando si riempiono scatta la quaresima, quando si svuotano riparte il carnevale. La gente l’ha capito, che va a finire così, e si adatta come può, a seconda dell’età e del carattere di ciascuno.

Ma era a obbligatorio precipitare in questo abisso?

No. Tanto è vero che, contrariamente a quel che molti ancora credono, la seconda ondata non è affatto arrivata ovunque: fra le società avanzate l’hanno evitata 10 paesi su 25, dunque più di 1 paese su 3 (vedi grafico). E 4 di questi 10 paesi che ce l’hanno fatta sono in Europa: Irlanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca.

Ma per non essere travolti bisognava fare qualcosa di più, e di diverso dai lockdown tardivi cui siamo stati costretti in Italia. Non dico adottare in toto la strategia asiatica, per cui non eravamo pienamente attrezzati (specie sul tracciamento elettronico), ma almeno assimilarne gli elementi cruciali: controlli severi alle frontiere + mascherine obbligatorie + tamponi di massa + contact tracing + quarantene rigorose. E se non basta – ma di solito basta – lockdown duro al primo segnale di ripresa dell’epidemia, perché se intervieni subito il lockdown dura poco, e la ricerca dei contatti non va in tilt.

E’ quello che scienziati, ricercatori e studiosi non hanno mai smesso di chiedere, fin dai primi giorni di marzo. Tutto inutile, i nostri governanti non hanno voluto sentire ragioni. Gli errori che hanno commesso nella prima ondata non hanno esitato a ripeterli, aggravati, nella seconda. E ora pretendono pure di dire che, se non riescono a tenere sotto controllo l’epidemia, la colpa è nostra.

Incredibile.

Pubblicato su Il Messaggero del 19 dicembre 2020