Paralisi sanitaria

La buona notizia è che, da circa un mese e mezzo, nella maggior parte dei paesi del mondo l’epidemia sta battendo in ritirata. La cattiva notizia è che in Europa sono molti i paesi in cui la ritirata è lenta, o non è affatto in corso, o addirittura i ricoveri ospedalieri sono in aumento. Fra i grandi paesi europei i due messi peggio sono la Francia e l’Italia, dove non solo le cose non stanno migliorando, ma da qualche giorno manifestano una chiara tendenza al peggioramento. Per un’infausta congiunzione astrale la nascita del governo Draghi è avvenuta esattamente nel momento in cui l’epidemia, ancora pericolosamente diffusa ma comunque in lieve regresso, ha invertito il suo cammino e ha ripreso a correre.

Di qui lo spiazzamento dei partiti che sostengono il governo. L’istinto di Lega, Forza Italia (e pure di Italia Viva, a quel che sembra) è di spingere per allargare il perimetro della normalità, il che – in buona sostanza – vuol dire ragazzi a scuola, mezzi di trasporto pieni, bar e ristoranti aperti anche la sera. Quello della triplice Pd-Leu-Cinque Stelle è di continuare con la politica dell’Italia a colori, sperando che l’evoluzione dell’epidemia consenta presto di attenuare la morsa delle chiusure, ma ben sapendo che ciò non avverrà e quindi non potremo far altro che assistere a qualche nuovo giro di vite.

Il risultato è la paralisi, in perfetta continuità con il governo precedente. Ma forse oggi la difficoltà di imboccare una strada ben definita, indicando e spiegando al paese una comprensibile via di uscita, è ancora maggiore di un mese fa.

Salvini dichiara che “parlare già oggi di una Pasqua chiusi in casa non è rispettoso degli italiani”, come se nel giro di poche settimane la drammatica situazione attuale potesse retrocedere, e come se l’Italia fosse l’unico grande paese europeo in cui si pianificano chiusure a medio e lungo termine. La triplice Pd-Leu-Cinque Stelle ha buon gioco ad accusare Salvini di imprudenza, perché l’epidemia galoppa e gli esperti (questa volta quasi tutti: governativi e indipendenti) prevedono che, se nulla si farà, a Pasqua i casi saranno molti più di adesso.

Ora però c’è una complicazione, rispetto a un mese fa. Essendo al governo, e non potendo sconfessare l’operato dei ministri di Pd-Leu-Cinque Stelle, anche la destra è imbavagliata. Se fosse una destra seria e libera, farebbe la lista delle cose che il governo rosso-giallo non ha fatto, e che avrebbero evitato il riesplodere del contagio. Chiederebbe che quelle cose finalmente si facessero, per permettere – fra qualche mese – un vero ritorno alla normalità. E spiegherebbe agli italiani che la promessa di vaccinare il 70% dei cittadini entro l’estate non è credibile, e serve solo a non farle per l’ennesima volta, quelle benedette cose che si potevano e dovevano fare, se non si volevano vanificare i nostri sacrifici.

Quali cose?

Sono una dozzina, ma ne ricordo almeno sei: test di massa (almeno 300 mila tamponi molecolari al giorno), aumento degli addetti al contact tracing, rafforzamento del trasporto locale, protocollo nazionale di cure domiciliari, aumento del numero di sequenziamenti, controllo delle frontiere.

Ma quelle cose, nei lunghi mesi della pandemia, la destra non le ha mai invocate né pretese con la dovuta convinzione, preferendo quasi sempre puntare sul comodo binomio ristori-riaperture. Ciò ha finito per cucire addosso alla sinistra l’abito che ora indossa, e la fa apparire come il saggio “partito della prudenza”, che si oppone all’irrazionale e antiscientifico vitalismo di Salvini. Un partito, quello della prudenza giallo-rossa, cui nessuno, da destra, chiede conto del proprio operato precisamente perché la destra – anziché incalzare il governo sulle cose non fatte – ha finito a sua volta per autocucirsi addosso l’abito opposto e contrario, quello che la fa apparire come il partito delle riaperture, incauto e indifferente alle fondate preoccupazioni della scienza.

Ecco perché, sul piano della politica sanitaria, il governo Draghi appare come una (sia pur bella) copia del governo precedente, di cui non può che ereditare l’immobilismo su tutto ciò che esula dalla scontata battaglia per avere i vaccini. Intrappolati dalle loro condotte passate, i rappresentanti della destra e della sinistra sono condannati a combattersi (e a negoziare) solo intorno al falso dilemma apertura-chiusura. Come se un po’ di prudenza in più o in meno potesse cambiare il nostro destino. Mentre la realtà è tanto semplice quanto sconfortante: stringere o allentare di qualche maglia le catene della nostra prigione serve solo a spostare di qualche settimana la data in cui i nostri ospedali potrebbero non farcela più.

Pubblicato su Il Messaggero del 27 febbraio 2021




Un governo Draghi dal gusto agrodolcissimo. Intervista a Luca Ricolfi

Professor Ricolfi, il neo premier Draghi in questi due giorni ha scoperto le carte e nel suo discorso ha tratteggiato il programma di governo. Qual è il suo sentimento prevalente dopo il passaggio a Senato e Camera? Nota qualche affinità con l’ultimo governo guidato da un tecnico ovvero quello di Mario Monti?
Il mio sentimento verso il nuovo governo? Agro-dolce, direi. Anzi, agro e dolcissimo. Dolcissimo perché, rispetto a quel che abbiamo avuto nell’ultimo anno e mezzo, il governo Draghi è un progresso enorme. Con il Conte bis abbiamo avuto il peggior governo dell’Italia repubblicana, un governo che ha sulla coscienza decine di migliaia di morti, e che non ha mai chiesto scusa per i propri errori. Un governo che, al solo scopo di tutelare gli equilibri fra Pd e Cinque Stelle, ha rimandato tutte le scelte cruciali e non è stato in grado di scrivere un Recovery Plan decente. Con Draghi, se Dio vuole, abbiamo invece tre garanzie fondamentali: l’Europa non ci boccerà il Recovery Plan; i mercati finanziari saranno meno aggressivi nel concederci credito; le scelte più demagogiche hanno buone probabilità di essere stoppate.

E il lato agro?
Il lato agro è la composizione del governo, più politico che tecnico, e la genericità/ovvietà degli impegni programmatici. Quando un presidente di consiglio si insedia, per capire le sue intenzioni, io non guardo mai alla lista dei problemi che intende risolvere, o alla giaculatoria dei temi su cui mostra sensibilità: le solite donne, i soliti giovani, il solito ambiente, la solita digitalizzazione, la solita cultura, la solita pubblica amministrazione da modernizzare, la solita giustizia da velocizzare, la solita crescita da rilanciare, la solita immigrazione da governare, i soliti investimenti nel Mezzogiorno, la solita mafia da sconfiggere, la solita evasione fiscale da combattere. Io guardo a una cosa soltanto: i mezzi con cui quei problemi si proverà a risolvere. E su questo la delusione è cocente: Draghi ha detto pochissimo, e le poche cose incisive che, sia pure cripticamente, ha osato dire – rimpatri dei non aventi diritto e tutela dei lavoratori, ma senza salvataggio dei posti di lavoro – di fatto è stato costretto a rimangiarsele nella replica al Senato.

Uno dei campi di battaglia su cui questo governo si gioca la reputazione è ovviamente quello della lotta al virus. La politica sanitaria si poggia su due pilastri: la campagna vaccinale e il contenimento del Covid. Esaminiamoli entrambi. Partiamo dai vaccini. Che discontinuità nota?
Di discontinuità ne vedo solo due, tutto sommato abbastanza marginali. Primo: Draghi ha mandato a monte la buffonata delle “primule” (padiglioni per le vaccinazioni), e chiesto l’aiuto del settore privato e dell’esercito. Secondo: Draghi ha promesso solennemente che il suo governo abbandonerà la folle politica delle restrizioni last minute, come nel disgraziato caso della stagione sciistica (ma anche delle vacanze natalizie).
Quanto ai vaccini, ormai è chiaro a tutti che l’obiettivo dichiarato dal ministro Speranza e dalla sottosegretaria Zampa (vaccinare il 70-80% degli italiani entro settembre) non sarà raggiunto, né poteva esserlo. Chiunque abbia in casa una calcolatrice avrebbe potuto capirlo da solo, ma è comunque un fatto positivo che si smetta di illudere gli italiani.

Basta l’addio alle primule e una logistica più razionale per raggiungere l’immunità di gregge entro l’autunno?
Tutti ce lo auguriamo, ma una valutazione realistica suggerisce una risposta netta: no, non basta. Per raggiungere quell’obiettivo, infatti, devono verificarsi contemporaneamente almeno 5 condizioni:

  1. arrivo di un numero di dosi sufficiente;
  2. capacità logistico-organizzativa del sistema sanitario nazionale di vaccinare almeno l’80% della popolazione (le varianti più trasmissibili elevano la soglia dell’immunità di gregge);
  3. soluzione del problema degli under-18 per cui non esiste ancora un vaccino sicuro ed efficace;
  4. riduzione del numero di no-vax e di ostili alla vaccinazione al di sotto del 20%;
  5. utilizzo di vaccini che non solo bloccano la malattia ma anche la trasmissione,

Le sembra probabile che queste 5 condizioni si realizzino tutte entro pochi mesi?

Per quanto riguarda invece la strategia di contenimento del Covid, e soprattutto delle sue varianti, nel discorso si trova poco o nulla. Come interpreta questo “buco”?
E’ questa la mia principale delusione, ed è la conferma che il governo Draghi è nato solo per gestire il Recovery Plan, non certo per fronteggiare  diversamente la pandemia. Draghi non solo non ha sostituito Speranza, ma nulla ha detto che faccia presagire un sostanziale cambio di linea. Io temo che la ragione sia abbastanza semplice: Draghi sa che, non avendo il governo precedente fatto quasi nulla di quel che avrebbe potuto evitare il lockdown, ora l’unica alternativa rimasta sarebbe un lockdown più severo; ma sa anche che, se lo attuasse, la Lega uscirebbe dal governo; quindi anche lui, come il suo predecessore, giochicchierà con il meccanismo dei semafori finché le terapie intensive piene convinceranno anche Salvini (spero ovviamente di sbagliarmi, e che Draghi cambi rotta subito).

Ci sarà un cambio di passo rispetto al governo Conte? O semplicemente si consolideranno il sistema dei colori e dei lockdown locali?
Penso che nelle prime settimane assisteremo a qualche modesto ritocco al sistema dei colori, mentre più avanti – se l’epidemia continuasse a risultare fuori controllo – potrebbe esserci un tardivo appello alla responsabilità individuale, magari accompagnato da qualche promessa di fare finalmente qualcosa sui versanti cruciali: trasporti, tamponi, tracciamento, sequenziamento, medicina territoriale, controllo delle frontiere.
Certo, il fatto di non aver sostituito Speranza fa supporre che, finché la realtà non lo costringerà a cambiare rotta, manterrà la direzione di marcia del governo precedente, con effetti drammatici sull’economia (il che, alla lunga, potrebbe rivelarsi il peccato originale del governo Draghi).

Sulla politica economica invece abbiamo qualche elemento in più. A partire dalla riscrittura del Recovery. Si sente più tranquillo rispetto al precedente governo?
Infinitamente più tranquillo. Penso che con Draghi non vedremo troppe misure di natura clientelare, ed eviteremo pure qualche “boiata pazzesca”, che con il governo precedente nessuno ci avrebbe risparmiato.

Invece sulla visione di Draghi sui sussidi a imprese e lavoratori e su come far ricrescere l’Italia che opinione ha?
Penso che Draghi creda nella “distruzione creatrice” alla Schumpeter, ma che dovrà pure lui concedere qualcosa all’assistenzialismo, andando in soccorso di imprese decotte e salvando posti di lavoro fittizi, magari mediante l’ingresso dello Stato (o meglio della Cassa depositi e Prestiti) nel capitale di alcune imprese.
Il problema è che Draghi non ci ha detto se, per far ripartire la crescita, punterà su politiche care alla destra (meno tasse sui produttori) o su politiche care alla sinistra (redistribuzione del reddito verso i ceti bassi).

Anche sulla politica migratoria mi sembra ci sia ancora un po’ di confusione. Secondo lei nel governo vincerà la spinta leghista o quella di sinistra?
Secondo me vincerà la spinta della sinistra, ma per una buona ragione: la sinistra una soluzione (paradossale) del problema migratorio ce l’ha, mentre la destra ha già dimostrato di non averla.

In che senso?
La soluzione della sinistra è demandare la soluzione all’Europa. In pratica: in attesa che l’Europa batta un colpo, ci teniamo tutti i migranti che sbarcano, e gli facciamo pure il test anti-Covid. Lamorgese è perfetta per questa politica.
La destra invece non ha una soluzione, anche se finge di averla. Tenere i migranti in mare 1-2 settimane e pietire micro-distribuzioni in Europa, senza essere in grado di rimpatriare i non aventi diritto alla protezione internazionale non è una soluzione. Riduce il flusso, ma non risolve il problema.
L’unica che una soluzione sembra averla è la Meloni. Ma la sua soluzione (il blocco navale) non è gradita all’Europa, e probabilmente viola il diritto internazionale, o perlomeno la interpretazione prevalente di esso.

In generale, quanto Draghi può restare ingabbiato dalle spinte contrapposte di partiti molto distanti fra loro? Stupito dalla composizione tecnico-politica dell’esecutivo, con 2/3 dei ministeri riservati ad esponenti politici?
Sì, sono rimasto un po’ stupito, perché mi aspettavo il contrario (2/3 di tecnici e 1/3 di politici), e soprattutto non mi aspettavo una suddivisione così politica dei posti disponibili: manuale Cencelli per i ministeri affidati ad esponenti dei partiti, donne del Pd completamente escluse. Molto significativo che Carlo Calenda, uno dei pochissimi politici con capacità gestionali (e uno dei più convinti sostenitori del governo Draghi), sia stato escluso dall’esecutivo.
L’impressione è che Draghi abbia già concesso molto ai partiti che lo sostengono, mentre non è chiaro se – quando sarà il momento delle scelte che contano – saprà far valere l’interesse nazionale oppure no. Io temo che ci riuscirà per pochi mesi, e che nel semestre bianco – quando i parlamentari non dovranno più temere lo scioglimento delle camere – diventerà ostaggio dei partiti. Ma mi auguro con tutto il cuore che questo non succeda.

Un ultimo passaggio sulla polemica sulla ridotta quota di donne nella squadra. Prima vera “stecca” di Draghi?
Più che stecca di Draghi, benvenuta rivelazione della vera natura del Pd: un partito che non perde occasione per agitare la questione femminile, i diritti delle donne, la parità di genere, e alla prima occasione di passare dalle parole ai fatti rivela la sua cultura quasi-islamica. Zingaretti che afferma che i ministri maschi del Pd li avrebbe scelti Draghi, è la migliore rappresentazione della natura di quel partito, o quantomeno della qualità del segretario che si è scelto.
Nel suo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia) fa notare come i paesi guidati da donne (Norvegia, Finlandia, Islanda, Danimarca, Nuova Zelanda, Germania) siano stati più efficienti nel combattere la pandemia. Solo un caso o pensa ci sia un nesso causale?
Anche se nel libro lascio in forse la questione, tendo a pensare che un nesso ci sia. Tendenzialmente, le donne sono più concrete, meno narcisiste, meno inclini all’autoinganno (l’autoinganno ritarda le decisioni impopolari, con effetti catastrofici nel governo di un’epidemia). Ma non è solo questo. Probabilmente il fattore chiave, il fattore che spiega perché le donne governano meglio, è la discriminazione a danno delle donne.

Come sarebbe a dire? La discriminazione ha effetti virtuosi?
No, la discriminazione non è una buona cosa, ma produce un effetto statistico interessante. Se c’è discriminazione, ma non ce n’è abbastanza da impedire l’elezione di un premier donna, allora accade che – per farcela – una donna deve essere più brava, più in gamba, più preparata di quanto sia richiesto a un uomo. E se il paese in cui vive è abbastanza civile da concedersi di eleggere un premier donna, allora quel medesimo premier – tendenzialmente – sarà più in gamba. Perché per essere eletto avrà dovuto superare ostacoli più alti di quelli che, mediamente, deve superare un maschio. E’ questo che è successo nella galassia scandinava, e anche in Germania, con il lungo cancellierato di Angela Merkel.

E in Italia, come siamo messi?
Siamo messi male, perché quasi nessuno vuole davvero vedere e affrontare il problema. Che non è (solo) quello della discriminazione delle donne in generale, ma quello della sua matrice politica. Non so se l’ha notato anche lei, ma nel sistema dei partiti la presenza delle donne nei ruoli di comando è strettamente connessa all’asse sinistra-destra. E’ minima nella sinistra comunista e nei Cinque Stelle, è bassa nel Pd, cresce un po’ nel partito di Renzi, è alta nel centro-destra (soprattutto in Forza Italia), è massima in Fratelli d’Italia, il partito più a destra e l’unico – fra i partiti importanti – ad essere guidato da una donna. In nessun altro paese al mondo, che io sappia, la sinistra è così maschilista, e la destra così (a suo modo) femminista.

Intervista rilasciata all’Huffington Post il 19 febbraio 2020




Modello orientale?

La politica sanitaria del governo Conte bis “ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia”.

Potrebbe essere un riassunto, rozzo e semplicistico, del mio ultimo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia). E invece no. Ora a riconoscere questi due tristissimi fatti – le vite umane perdute, i punti di Pil bruciati – è nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro Speranza, che ci spiega che “nel precedente governo” il ministro stesso “trovava un muro”, perché a prevalere era “la linea di chi voleva convivere con il virus”.

Nella sostanza, un atto di accusa gravissimo verso il ministro della salute. Se è vero che, fin da ottobre, il consulente lo avvertiva della pericolosità della linea sanitaria adottata, e se è vero che il ministro ne condivideva analisi e suggerimenti, allora come ha fatto, il ministro stesso, ad avallare una linea che avrebbe “causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia” ?

Volendo lasciar da parte il passato (peraltro greve di responsabilità, di cui mi auguro che a un certo punto qualcuno si faccia carico), ora che Draghi sta per enunciare il suo programma ci piacerebbe che venisse finalmente detta una parola chiara sulla politica sanitaria svolta finora e su quella futura. Perché, arrivati a questo punto, noi italiani siamo davanti a un paradosso davvero singolare. Da una parte, un ministro della sanità che viene confermato non si sa se per proseguire o per capovolgere la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui. Dall’altra, un coro di critiche diametralmente opposte: per buona parte della destra il disastro è stato chiudere troppo, per Ricciardi e per la maggior parte degli studiosi indipendenti il disastro – se mai – è stato chiudere troppo tardi e troppo poco.

Ciò detto, il j’accuse retrospettivo di Ricciardi è comunque più che mai opportuno e saggio. Aspettavamo da mesi un discorso del genere, chiaro e coraggioso, che mettesse finalmente i cittadini di fronte alla grave situazione che abbiamo davanti: il piano di vaccinazione che ritarda, e l’incubo delle varianti emergenti.

Ma è sui modi che abbiamo per uscirne, che dobbiamo interrogarci. Ricciardi propone l’abbandono del protocollo occidentale (che persegue la mitigazione dell’epidemia) a favore del protocollo orientale e dell’emisfero Sud (che persegue la soppressione del virus). Un cambio di passo davvero decisivo, una clamorosa inversione di rotta, cui personalmente non posso che plaudire, come non possono che plaudire quanti, come  gli studiosi di Lettera 150, lo hanno invocato fin dalla primavera scorsa.

I cardini del passaggio, secondo Ricciardi, dovrebbero essere tre: “lockdown breve e mirato, tornare a testare e tracciare, vaccinare a tutto spiano”. Ed è qui la domanda nevralgica: è questa la sostanza del protocollo dei paesi lontani, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, che ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero la circolazione del virus? (lascio volutamente fuori dalla lista la Cina, che Ricciardi evoca ma, in quanto dittatura, è un modello improponibile in un paese democratico).

A me sembra che il modello dei paesi lontani sia molto più complesso. Intanto, ovviamente, i vaccini non potevano far parte delle loro armi di difesa; e poi, non esiste una ricetta unica di quei paesi; infine, il lockdown assai raramente costituisce l’ingrediente fondamentale.

Il lockdown può anche diventare assolutamente necessario (come lo è oggi in Italia), ma non è la via maestra per la soppressione del virus. È il primo e doveroso passo, a cui però vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento.

Le ricette dei paesi lontani hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo, e il rispetto scrupoloso delle regole di distanziamento e autoprotezione da parte dei cittadini, entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate.

E hanno poi ingredienti specifici, altrettanto basilari: il tracciamento elettronico (anche a scapito della privacy), l’uso sistematico e generalizzato delle mascherine, la stretta sorveglianza sul rispetto della quarantena, i tamponi di massa, e infine, sì, i lockdown duri e circoscritti. Ogni paese ha scelto un mix diverso dei vari ingredienti, ma il punto è che tutti hanno messo in campo più di un tipo di misura, perché una o due misure soltanto non bastano.

E noi? Facciamoci qualche domanda. Noi saremmo disposti a rinunciare alla privacy e lasciarci tracciare, rispettare rigorosamente le regole, indossare sempre le mascherine FFP2, sugli autobus, nei negozi, per strada? Saremmo disposti a controllare le frontiere (e chiuderle addirittura, in alcuni casi), nei modi in cui avviene per esempio in Giappone, dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps?

Non è un caso che noi europei, noi occidentali, abbiamo perseguito il modello del mitigare e non quello del sopprimere, ovvero, per dirla con una formula che ormai ci è familiare: noi europei abbiamo scelto la filosofia del “convivere col virus”. Filosofia che ora, di fronte alle varianti pericolose che ci invadono, ci rendiamo conto che non può più funzionare.

Se ora volessimo davvero cambiare modello, dovremmo smettere i panni europei, la mentalità occidentale e, non dico diventare orientali, ma almeno provarci.

Quel che voglio dire è che un lockdown duro ora non basta. Ben venga, anche se – non mi stancherò mai di dirlo – il lockdown non è la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria. Ben venga, perché arrivati a questo punto, non ha alternative: ma deve più che mai, ora, accompagnarsi all’attuazione di molte, se non tutte, le altre misure di contenimento e prevenzione. Soprattutto perché la campagna vaccinale non potrà avere effetti apprezzabili prima dell’estate, e più che mai ove tale campagna dovesse subire ulteriori ritardi; e perché intanto le varianti ad alta trasmissibilità accelerano la circolazione del virus. In questa situazione, un inasprimento delle misure attuali non accompagnato da tutto il resto non basterà certo a sradicare il virus.

Questo ci aspettiamo che il nuovo governo ci sappia indicare, con chiarezza e coraggio. Perché la delusione più grande sarebbe ascoltare l’ennesima ripetizione della promessa di “fare tutti gli sforzi per accelerare la campagna vaccinale”, magari accompagnata da qualche concessione alla linea della prudenza, ma senza un chiaro e dettagliato cronoprogramma su tutto quel che ancora non si è fatto, o si è appena iniziato a fare.

Pubblicato su Il Messaggero del 16 febbraio 2021




Una svolta nella politica sanitaria?

E’ abbastanza stupefacente, almeno per me che da un anno seguo quotidianamente l’andamento dell’epidemia, quanta attenzione si concentri sulle scelte di Draghi in campo economico-sociale, e quanto poco, invece, ci si interroghi sul futuro della politica sanitaria. Come se accelerare la campagna di vaccinazione fosse l’unica cosa che ci si può aspettare da lui.

E’ quindi con un sospiro di sollievo che ho ascoltato le considerazioni di Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza, in una intervista televisiva concessa martedì notte. In essa, accanto a una (ben poco convincente) difesa della politica di Conte durante la prima ondata, Ricciardi ha sostenuto tre tesi molto forti, che meritano attenta considerazione. Le riassumo brevemente.

Tesi 1: nella seconda ondata, decidendo lockdown tardivi e troppo blandi, il governo Conte ha sbagliato politica, finendo per dilapidare i sacrifici degli italiani.

Tesi 2: dobbiamo cambiare completamente rotta, abbandonando il protocollo europeo, che si accontenta di mitigare l’epidemia, e passare risolutamente al protocollo dei paesi orientali e dell’emisfero Sud, che punta alla soppressione del virus.

Tesi 3: la via maestra per farlo è un inasprimento e allungamento dei lockdown.

Sulle prime due tesi, avendole io sostenute da più tempo di Ricciardi, non posso che concordare (ho addirittura scritto un libro, La notte delle ninfee, per spiegare come la seconda ondata si sarebbe potuta evitare). L’unica cosa che avrei da aggiungere è: poiché il prezzo di questi errori, misurato in migliaia di vite umane sacrificate, è enorme, e poiché – questo gli va riconosciuto – è da quattro mesi che il consulente del ministro Speranza critica la politica sanitaria del governo, come mai né lui né il ministro della salute si sono mai palesati nell’unico modo politicamente efficace, ossia minacciando le dimissioni? Possibile che, per sferrare un attacco frontale a Conte, si sia dovuto aspettare che Conte stesso avesse perso il potere, disarcionato da Renzi?

Ma veniamo alla tesi 3: ci vuole un maxi-lockdown. Su questa tesi è inevitabile che ognuno abbia le proprie opinioni, per lo più dettate dall’età (i giovani si ammalano pochissimo) e dalla professione (gli autonomi rischiano di perdere tutto). Però c’è un punto di cui, a mio parere, dovremmo renderci conto tutti: esaurita la sorpresa della prima ondata, ogni lockdown lungo e non circoscritto è semplicemente un certificato di fallimento della politica. Perché, ormai dovrebbe essere chiaro, quando il governo chiede ai cittadini di farsi carico, con le loro rinunce e con i loro sacrifici, della lotta al virus, è precisamente perché le autorità politiche e sanitarie non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per contenere l’epidemia. Vogliamo ricordarle, queste omissioni e mancanze?

Eccone un succinto elenco: dimezzamento (anziché aumento) del numero di tamponi nel bimestre critico che va da metà novembre 2020 a metà gennaio 2021; sostanziale rinuncia al tracciamento elettronico; debolezza delle misure di controllo della quarantena; timidezza nel far rispettare le regole in estate; mancato rafforzamento del trasporto locale; mancata messa in sicurezza delle scuole e delle università sul versante dell’aerazione e deumidificazione dei locali;  debolezza della politica di controllo delle frontiere e dei flussi turistici.

Ecco perché l’invocazione del lockdown, di un lockdown più severo e lungo, è poco credibile, per non dire inquietante, se non è accompagnata dal riconoscimento che, dopo la prima ondata, l’errore primario del governo Conte non è stato di non aver fatto un lockdown durissimo a ottobre (quello è stato l’errore secondario, o derivato), ma è stato quello di non fare tutto ciò che ci avrebbe permesso di arrivare a ottobre in condizioni meno critiche, rendendo assai meno necessario il ricorso al lockdown.

Perché, nell’intervista a Ricciardi, tutto questo non emerge con la dovuta evidenza?

Forse per lo stesso motivo per cui il consulente del ministro Speranza considera “ineccepibile” il comportamento del governo durante la prima ondata. Spiace doverglielo ricordare, ma anche ammesso (e non concesso) che nulla sia stato sbagliato nella tempistica dei lockdown di marzo-aprile, resta il fatto che nella prima ondata egli fu in prima linea nella guerra del governo contro la politica dei tamponi del Veneto, accusato di farne troppi. E che, oltre all’errore di frenare i tamponi di massa, furono parecchi gli errori gravi ed evitabili del governo Conte anche durante la prima ondata: perché nulla fu fatto, a gennaio-febbraio, per dotare il personale medico di dispositivi di protezione individuale? Perché si aspettarono così tanti mesi per rendere obbligatorio l’uso delle mascherine nei negozi e nei locali al chiuso? Perché così poco venne fatto per controllare le frontiere?

Insomma, la mia impressione è che il fascino discreto che il lockdown esercita sui politici dipenda semplicemente dalla loro consapevolezza che su tutto il resto, su cui si è fatto quasi nulla quando si era in tempo, si continuerà a fare ben poco. E che alla fine della fiera, nell’attesa messianica del vaccino, la loro idea sia ancora oggi quella di sempre: che la lotta al virus non si fa dall’alto, costruendo politiche sanitarie incisive, ma si fa dal basso, limitando le nostre libertà.

E’ come se la politica, tutta la politica, fosse perfettamente in grado di riconoscere il debito accumulato dai governi passati quando esso è di natura economica, ma non lo fosse quando è di natura sanitaria. Eppure il dramma odierno, in cui un nuovo e severo lockdown appare a molti come l’unica misura praticabile, è il frutto amaro del debito sanitario accumulato in mesi e mesi di omissioni e atti mancati.

Non ci resta che sperare che, con questo genere di debito, il governo Draghi cominci a fare i conti nell’unico modo possibile: facendo oggi, finalmente, tutto ciò che non si è fatto fino a ieri.

Pubblicato su Il Messaggero dell’11 febbraio 2021




La destra e le elezioni anticipate

La richiesta di tornare al voto, ripetuta innumerevoli volte dai partiti del centro-destra, non è priva di buone ragioni. E’ vero che la nostra resta una repubblica parlamentare, e che i cambi di governo in corso di legislatura sono perfettamente legittimi, ma è altrettanto vero che di questa flessibilità si è abusato troppo. Siamo nel 2021, e bisogna risalire al lontano 2008 per rintracciare un governo e un premier (il governo Berlusconi) che fossero espressione del voto popolare. Da allora a decidere chi governa sono state sempre alchimie di palazzo, di volta in volta innescate da emergenze e situazioni eccezionali, o presunte tali: la crisi finanziaria (2011), la mancanza di un chiaro vincitore (2013), l’impazienza di Renzi (2014), l’esito del referendum istituzionale (2016), di nuovo la mancanza di un chiaro vincitore (2018), il rischio di una vittoria elettorale della destra (2019), fino al colpo di teatro di questi giorni, motivato con la doppia emergenza economica e sanitaria.

Di tutte queste ragioni che hanno condotto a costituire governi sganciati da ogni riferimento al consenso popolare la più inquietante è quella che, nel 2019, ha portato al Conte bis. In questo caso, infatti, la motivazione che ha portato a formare il nuovo governo giallorosso non è stata, come in passato, né un’emergenza reale, né l’assenza di un chiaro orientamento dell’elettorato, ma – tutto al contrario – la convinzione che tale orientamento ci fosse, ma non fosse quello “giusto”. Tutti i sondaggi, infatti, indicavano (ed indicano tuttora) che, ove la parola fosse restituita ai cittadini, il colore politico del nuovo governo sarebbe stato di centro-destra, e non di centro-sinistra. Ed è fonte di sconforto che, a 75 anni dalla nascita della Repubblica, la cultura progressista non abbia ancora la maturità democratica per accettare che siano gli elettori, anziché gli abitanti del Palazzo, a scegliere chi li dovrà governare.

Dico tutto questo per dire che capisco l’amarezza dei leader del centro-destra di fronte al rifiuto del Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere e dare la parola agli elettori. E penso anch’io che, in circostanze normali, il capo dello Stato avrebbe fatto bene a sciogliere le Camere, senza farsi condizionare dal timore che a vincere siano i cattivi.

Ma nello stesso tempo non posso non aggiungere che, come studioso che segue l’evoluzione dell’epidemia, penso che in questa circostanza la posizione di chi ha invocato le elezioni anticipate, in particolare Giorgia Meloni e Matteo Salvini, non sia solidamente fondata, e che abbia fatto bene Mattarella a non percorrere questa via, che pure era nelle sue facoltà. E provo a spiegare perché.

Lascio da parte le considerazioni, peraltro assai convincenti, sull’opportunità che a gestire il Recovery Fund sia una personalità di alto profilo e di indubbia competenza, e mi concentro solo sull’altro motivo sottolineato da Mattarella, ossia il rischio che due mesi di campagna elettorale potessero alimentare ulteriormente l’epidemia.

Come si sa il caso che, in queste settimane, ha originato questo genere di preoccupazioni è quello delle elezioni presidenziali in Portogallo, tenutesi alla fine di gennaio. E infatti, per sostenere l’infondatezza di tale preoccupazione, sia Giorgia Meloni sia Matteo Salvini hanno tentato di smontare precisamente quel caso.

Giorgia Meloni, in un’intervista a Porta a Porta (giovedì notte), ha affermato che si è votato il 24 gennaio, e che “poiché il virus incuba 14 giorni” non era ancora possibile osservare eventuali effetti sull’epidemia. Matteo Salvini, all’opposto, tali effetti ha preteso di osservarli, e lo ha fatto notando che il giorno delle elezioni i contagiati erano 11721, e 8 giorni dopo erano 5805, ovvero circa la metà (in realtà la diminuzione, calcolata in modo appropriato, è stata molto minore).

Ebbene, entrambe queste argomentazioni non fanno adeguatamente i conti con quel che è successo in Portogallo. Quel che, per settimane, ha preoccupato gli analisti non è tanto il rischio che l’afflusso ai seggi (in un singolo giorno) potesse moltiplicare i contagi, quanto il timore che a far esplodere l’epidemia provvedesse la campagna elettorale (lungo un periodo di parecchie settimane). Questo timore era supportato dal fatto che, circa un mese prima del voto (all’inizio della campagna elettorale), la curva dei contagi avesse invertito repentinamente la sua rotta, passando da calante a crescente, e più o meno una settimana dopo la medesima sorte fosse toccata alla curva dei decessi.

In effetti, nel giro di un mese, e proprio in coincidenza con l’appuntamento elettorale, il Portogallo ha scalato sia la classifica della velocità di propagazione dell’epidemia (quella che si misura con Rt), sia la classifica della diffusione del contagio, andando ad occupare il triste primato che per quasi tutto il 2020 era toccato al Belgio. Non solo: entrambe le curve, dei contagi e dei decessi, hanno cominciato a dare segnali di arretramento solo 1-2 settimane dopo l’appuntamento elettorale (prima quella dei contagi, poi quella dei decessi). Infine, è di questi giorni la notizia che gli ospedali portoghesi sono al collasso, e il paese ha dovuto richiedere l’aiuto degli altri paesi europei.

E’ la prova inconfutabile che a far precipitare la situazione sia stato l’appuntamento elettorale?

No, non lo è. In questo campo non si possono fornire dimostrazioni rigorose, ma solo individuare indizi, più o meno supportati da evidenze matematico-statistiche. Però si può osservare che, nel caso delle elezioni portoghesi, gli indizi ci sono, purtroppo. E che, quanto alle elezioni italiane, oggi il numero di contagiati è circa 10 volte quello di settembre, che già non aveva mancato di suscitare le preoccupazioni di alcuni studiosi.

In questa situazione, in cui mancano le prove ma abbondano gli indizi, ognuno ha buone ragioni per tenersi le idee che preferisce. Ma è difficile non comprendere quelle del capo dello Stato, che ha ritenuto imprudente interrompere la legislatura in un momento in cui il numero di contagiati è molto alto e l’epidemia non accenna a piegare la testa.

Pubblicato su Il Messaggero del 6 febbraio 2021